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Come contestare licenziamento per giustificato motivo oggettivo

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Come contestare licenziamento per giustificato motivo oggettivo

11 Novembre 2019Redazione

Lavoratore risarcito se l’azienda non gli offre anche mansioni inferiori.

Fra gli obblighi del datore in caso di crisi e soppressione del posto anche la prospettiva di un impiego meno qualificante.

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Crisi aziendale. Il datore di lavoro vi ha anticipato la possibilità di una serie di licenziamenti. Il primo ad essere chiamato sei tu. Ti viene promessa una buona uscita in cambio dell’accettazione del licenziamento. Dovrai cioè rinunciare a qualsiasi contestazione in tribunale.

La cosa ti puzza. Inizi a pensare che l’azienda tema un tuo eventuale ricorso in tribunale ma, nello stesso tempo, ti chiedi che possibilità avresti di vincere il giudizio. Come contestare un licenziamento per giustificato motivo oggettivo? Quali armi hai a disposizione? Ecco alcuni suggerimenti che ti offre la giurisprudenza.

Licenziamento per giustificato motivo oggettivo

Per la sussistenza di un giustificato motivo oggettivo non è necessario provare l’andamento economico negativo dell’azienda: secondo la giurisprudenza maggioritaria, è legittimo il licenziamento finalizzato anche solo al raggiungimento di un maggior profitto per l’impresa.

Come già spiegato nella guida dedicata al licenziamento per crisi, il datore di lavoro ha ampio margine di procedere al licenziamento per giustificato motivo oggettivo, quello cioè giustificato da ragioni produttive e organizzative. Con tre soli limiti:

la causa del licenziamento deve essere effettivamente sussistente e non solo una scusa per sbarazzarsi di un lavoratore scomodo;

nel caso di più lavoratori addetti alla stessa mansione che debba essere soppressa, la scelta deve essere effettuata seguendo gli stessi criteri dei licenziamenti collettivi, tenendo cioè conto dell’anzianità di servizio e dei carichi familiari;

prima del licenziamento bisogna verificare la possibilità di adibire il dipendente ad altre mansioni eventualmente disponibili in azienda, senza però necessità di spostare altri dipendenti (cosiddetto repechage).

In ogni caso, è sempre dovuto il preavviso.

Il mancato rispetto di uno solo di tali requisiti rende nullo il licenziamento per giustificato motivo oggettivo e, quindi, contestabile. Alla luce di ciò, vediamo

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come, nel concreto, comportarsi davanti al giudice.

La causa del licenziamento deve essere effettiva

Il giudice non ha il potere di stabilire se un licenziamento sia opportuno o meno;

non può cioè entrare nel merito delle scelte aziendali e stabilire cosa sia conveniente fare: se, ad esempio, sia più vantaggioso chiudere un ramo di azienda o sopprimere una singola posizione; se sia appropriato esternalizzare determinate mansioni o mantenerle all’interno dell’azienda, ecc. Ciò che, però, può fare il tribunale è controllare che le motivazioni offerte dal datore di lavoro a supporto del licenziamento per giustificato motivo oggettivo siano effettive e reali, non nascondano cioè altri intenti.

Così, ad esempio, non si può licenziare per crisi se i bilanci dimostrano il contrario;

non si può mandare a casa un dipendente per via della soppressione delle sue mansioni se poi le stesse vengono affidate ad altri suoi colleghi.

La scelta imprenditoriale che abbia comportato la soppressione del settore lavorativo o del reparto o del posto cui era addetto il dipendente licenziato non è dunque sindacabile nei suoi profili di congruità ed opportunità, sempre che risulti l’effettività e la non pretestuosità del riassetto organizzativo operato.

Il datore di lavoro deve prestare particolare attenzione ai motivi che comunica in fase di intimazione del licenziamento, in quanto gli è poi preclusa la possibilità di modificarli.

In caso di contrazione del dipendente, spetta al datore di lavoro dimostrare l’effettività delle ragioni poste a fondamento del licenziamento per giustificato motivo oggettivo. Insomma, l’onere della prova è a carico dell’azienda e non del lavoratore.

Il datore deve poi dimostrare che il licenziamento dipende, in una logica di rapporto “causa-effetto”, proprio dal riassetto aziendale denunciato nella lettera di licenziamento.

Dinanzi all’opposizione del lavoratore sul licenziamento, spetta al datore la prova contraria, ossia dimostrare l’effettività delle ragioni addotte a sostegno della

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risoluzione del rapporto di lavoro.

Criteri di scelta dei dipendenti da licenziare

Nel momento in cui si decide di sopprimere una determinata mansione o ramo d’azienda, la scelta del dipendente da licenziare tra più dipendenti svolgenti le stesse mansioni deve avvenire secondo correttezza e buona fede, senza porre in essere atti discriminatori [1]. A tal fine, è possibile fare riferimento ai criteri di scelta previsti dalla legge per i licenziamenti collettivi [2]. Bisognerà, quindi, risolvere prima il contratto a chi ha una minore anzianità lavorativa o un più leggero carico di familiari.

Obbligo di repechage

Prima di procedere al licenziamento, il datore di lavoro deve verificare l’impossibilità di adibire il lavoratore ad altre mansioni (repêchage), anche nell’ambito di eventuali altre società dello stesso gruppo.

Secondo una recente sentenza della Cassazione [3], è nullo il licenziamento per giustificato motivo oggettivo se il datore non prospetta al dipendente anche la possibilità di mansioni inferiori. Fra gli obblighi dell’azienda in caso di crisi e soppressione del posto, vi è anche la prospettiva di un impiego meno qualificante.

La sezione lavoro ha ribadito quanto all’onere di repechage, che in caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, per la soppressione del posto di lavoro cui era addetto il lavoratore, il datore di lavoro ha l’onere di provare non solo che al momento del licenziamento non sussistesse alcuna posizione di lavoro analoga a quella soppressa per l’espletamento di mansioni equivalenti, ma anche, in attuazione del principio di correttezza e buona fede, di aver prospettato al dipendente la possibilità di un reimpiego in mansioni inferiori rientranti nel suo bagaglio professionale. Ovviamente, è diritto del dipendente rifiutare le mansioni meno qualificanti [4].

Spetta al datore di lavoro dimostrare di aver verificato l’inesistenza di altri posti di lavoro a cui adibire il dipendente licenziato. Egli deve cioè provare:

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che, al tempo del recesso, i posti di lavoro residui erano stabilmente occupati e che dopo il licenziamento (per un congruo arco temporale successivo) non è stata effettuata alcuna nuova assunzione a tempo indeterminato in qualifica analoga a quella del lavoratore licenziato;

che il lavoratore non aveva la capacità professionale richiesta per occupare una diversa posizione libera in azienda.

[1] Cass. 9 maggio 2002 n. 6667; Cass. 28 febbraio 2019 n. 5997

[2] Cass. 30 agosto 2018 n. 21438; Cass. 25 luglio 2018 n. 19732; Cass. 6 dicembre 2018 n. 31652.

[3] Cass. sent. n. 29100 dell’11.11.2019.

[4] L’art. 2103 c,c. si deve, infatti, interpretare alla stregua del bilanciamento del diritto del datore di lavoro a perseguire un’organizzazione aziendale produttiva ed efficiente e quello del lavoratore al mantenimento del posto, in coerenza con la ratio di numerosi interventi normativi, quali l’art. 7, quinto comma d. lgs.

151/2001, l’art. 1, settimo comma l. 68/1999, l’art. 4, undicesimo comma d.lgs.

223/1991 anche come da ultimo riformulato dall’art. 3, secondo comma d.lgs.

81/2015: senza necessità, ove il demansionamento rappresenti l’unica alternativa al recesso datoriale, di un patto di demansionamento o di una richiesta del lavoratore in tal senso anteriore o contemporanea al licenziamento, essendo onere del datore di lavoro, in attuazione del principio di correttezza e buona fede, prospettare al dipendente la possibilità di un reimpiego in mansioni inferiori compatibili con il suo bagaglio professionale.

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