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LE SOCIETA’ COOPERATIVE 1.

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1.

LE

SOCIETA’

COOPERATIVE

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1. LE SOCIETA’ COOPERATIVE

1.1 Introduzione Pag.

1.2 Nascita e sviluppo delle cooperative Pag.

1.3 La normativa della cooperativa nel Codice Civile del

1942 Pag.

1.4 L’articolo 45 della Costituzione Pag.

1.5 Le società cooperative dopo la riforma Pag.

1.6 Tipologie di cooperativa Pag.

1.7 Inquadramento generale del lavoro all’interno del

Terzo Settore Pag.

1.8 Le criticità del lavoro nei servizi sociali Pag.

1.9 Il lavoro nelle cooperative sociali Pag.

1.10 Il capitale umano: le tipologie di soci Pag.

1.11 Il profilo del “lavoratore medio” Pag.

1.12 Le motivazioni e la soddisfazione dei lavoratori Pag.

1.13 Il Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro per le

Cooperative Sociali Pag.

1.14 La questione delle retribuzioni Pag.

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1.1 Introduzione

La cooperazione sociale trova le sue radici nella Costituzione e, in maniera specifica, nei seguenti articoli:

articolo 2: La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili

dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali;

articolo 3: Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali

davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese;

articolo 45: La Repubblica riconosce la funzione sociale della

cooperazione a carattere di mutualità e senza fini di speculazione privata. La legge ne promuove e favorisce l’incremento con i mezzi più idonei e ne assicura, con gli opportuni controlli, il carattere e le finalità.

Le cooperative sociali rappresentano un fenomeno nato tra gli anni ‘70 e ‘80 del secolo scorso, frutto dell’evoluzione subìta dalla società a partire dalla fine della seconda guerra mondiale

Nel dopoguerra, infatti, a partire dagli anni ‘50, si passò da una economia rurale ad una industrializzata, con lo spopolamento delle campagne e delle aree del Sud e l’improvviso popolamento delle città del Nord; al contempo le donne entrarono nel mondo del lavoro. Tutto questo portò ad un cambiamento dell’assetto della società ed al nascere di nuove esigenze, nuove richieste di infrastrutture e servizi. La difficoltà delle Pubbliche Amministrazioni a soddisfare i nuovi bisogni sono alla base della nascita della cooperazione sociale: l’assenza di strutture organizzate nelle Amministrazioni pubbliche; la necessità di ridurre la spesa pubblica scaturita dalla crisi del petrolio;

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un cambiamento culturale che spingeva alla rivalutazione dei diritti civili e sociali e imponeva l’offerta di servizi più qualitativamente elevati e personalizzati.

Le prime esperienze di cooperativa sociale risalgono ai primi anni settanta e trovano la definitiva affermazione con la legge 8 novembre

1991 n. 381 che all’art. 1 così recita: Le cooperative sociali hanno lo

scopo di perseguire l'interesse generale della comunità alla promozione umana e all'integrazione sociale dei cittadini attraverso: a) la gestione di servizi socio-sanitari ed educativi; b) lo svolgimento di attività diverse - agricole, industriali, commerciali o di servizi - finalizzate all'inserimento lavorativo di persone svantaggiate, dando così

riconoscimento e base normativa e procedimentale a tale forma di cooperazione. La norma ne rende quindi chiaro l’aspetto solidale e la finalità sociale di aiuto al soddisfacimento dei bisogni della collettività con particolare riguardo alle persone svantaggiate, in difformità, quindi, dal mondo delle società capitalistiche volte solo al raggiungimento del profitto. La cooperativa si appresta a perseguire un fine sociale, cercando di aggregare diversi soggetti sotto una struttura organizzativa che permetta il soddisfacimento di interessi collettivi volti alla promozione umana e all’integrazione sociale dei soggetti più svantaggiati, altrimenti difficilmente soddisfabili dall’operare dello Stato.

Da questo momento in poi le cooperative sociali hanno sempre registrato un trend di crescita positivo, tanto da contribuire al prodotto interno lordo e all’occupazione totale: è infatti significativa sia la crescita del numero di cooperative, sia l’incremento del numero dei lavoratori in esse impiegati.

Alla predetta norma è seguita la riforma del diritto societario del 2003, che ha portato ad una profonda trasformazione anche della disciplina delle cooperative.

E’ dei giorni nostri l’esperienza della Cooperativa PAIM, di cui ho la fortuna di essere alle dipendenze. Ho potuto, pertanto, toccare con

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mano il lavoro del terzo settore consistente in attività di utilità sociale, di concreto aiuto alle persone in difficoltà; in sostanza si tratta di attività di progettazione e gestione dei servizi socio-sanitari ed educativi.

1.2 Nascita e sviluppo delle cooperative

A causa di esigenze sempre più pressanti per la propria sopravvivenza, i contadini furono spinti a unirsi per facilitare la produzione e la vendita di beni e servizi necessari al proprio sostentamento, determinando in tal maniera l’eliminazione dei vari intermediari, che hanno sempre rappresentato un incremento di spesa rilevante. Fu in Gran Bretagna, più precisamente a Ronchdale, sobborgo di Manchester, che nel 1844 vi fu la nascita della prima vera e propria cooperativa, intesa come l’associazione di un gruppo di operai tessili disoccupati e privi di cibo che diedero vita ad un proprio programma lavorativo, con l’obiettivo di assicurarsi un maggior benessere e di migliorare la propria situazione sociale. Il movimento cooperativo esisteva già da parecchi secoli, quale rozza forma di collaborazione fra individui, per raggiungere un obbiettivo comune; ma solamente a Ronchdale vi fu la prima vera e propria organizzazione del lavoro con la redazione di quello sarebbe stato un atto costitutivo. Conferirono un capitale sociale per la costruzione di un magazzino, l’acquisto di un certo numero di alloggi per i propri lavoratori e dei fondi da coltivare, dando cosi avvio alla coltivazione, produzione e trasformazione di tutti quei beni ritenuti necessari. Punto focale di tale pratica, era e lo è ancora oggi, garantire ai propri lavoratori un vantaggio economico attraverso la produzione di beni e servizi ovvero occasioni di lavoro a condizioni più vantaggiose di quelle che si possano trovare nel mercato.

La cooperativa si differenzia dalla società ordinaria non per lo scopo-mezzo, ossia lo svolgimento in comune di un’attività economica, bensì

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nel fine, che non è la creazione di un lucro da dividere tra i soci ma quello di garantire un risparmio di spesa o un maggior guadagno ai propri soci. In Italia, a differenza degli altri paesi europei, non furono mai favorite le iniziative cooperative, determinando così un ritardo nel loro sviluppo; solo nella seconda metà del 1800 sorsero le prime cooperative italiane con lo scopo di favorire il consumo di beni e servizi da parte dei contadini che versavano in condizioni di vita estreme, basandosi appunto sul modello cooperativo nato a Ronchdale.

Fu solo con l’entrata in vigore del codice di commercio del 1882 che la pratica cooperativa trovò un riconoscimento anche legale, attraverso gli artt. 219-228. La c.d. “legge sul commercio” non individuava alcuna disciplina specifica sulla cooperazione e l’omessa definizione della mutualità derivava da una scelta del legislatore, il quale riteneva la cooperativa un fenomeno economico e non una materia giuridica, comportando così l’assenza di una regolamentazione. In particolare, le norme del codice di commercio definivano la diversità tra impresa cooperativa e impresa ordinaria, disponendo la non soggezione della cooperativa alle procedure concorsuali ed alle agevolazioni di vario genere. Tale disciplina frammentaria determinò il sorgere di alcuni dubbi in merito alla commerciabilità della cooperativa, in quanto era incompatibile la presenza di un’attività commerciale, soprattutto con soggetti terzi non soci, senza la realizzazione di un lucro, andando cosi a sabotare lo scopo mutualistico che distingue la società cooperativa dalle società lucrative.

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Il carattere qualificante della cooperativa sta proprio nel fatto che la propria attività risulta essere a favore dei soci, destinatari di un risparmio di spesa nelle cooperative di consumo ovvero di una maggior remunerazione derivante dall’attività svolta nelle cooperative di lavoro e produzione.

Negli anni che vanno dai primi del novecento fino all’entrata in vigore del Codice Civile del 1942, il sistema giuridico italiano vede una proliferazione di provvedimenti e leggi speciali, volti a disciplinare la cooperativa ed i connessi requisiti, garantendone così il carattere mutualistico.

1.3 La normativa della cooperativa nel Codice Civile del 1942

La continua proliferazione delle cooperative nel territorio italiano (si pensi che dal 1900 al 1921 si e passati da 2.000 a 21.500 cooperative) spinse il legislatore a promuovere una disciplina più ordinata e strutturata in merito. Fu per tali motivi che il codice civile del ‘42 rimandava la disciplina della cooperativa alla normativa propria della società per azioni, rinviando inoltre anche alle leggi speciali. Tale aveva disposto importanti direttive che riguardavano la promozione e la tutela della cooperativa inoltre, data la sempre maggiore presenza nel territorio italiano e nei vari settori economici, si guardò alla

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cooperativa come mezzo per il rilancio di importanti economie depresse.

In particolare si introdusse per la prima volta il concetto di mutualità come vero e proprio elemento distintivo della cooperazione. Il concetto mutualistico enunciato nel Codice Civile implicava che la cooperativa nascesse nel momento in cui tutti i soci manifestassero la propria volontà di divenirne utenti e che la stessa attività fosse svolta a vantaggio degli stessi cooperatori.

Il tentativo di riordinare tale materia riuscì solo in parte, in quanto disposizioni di portata così generale non tennero conto di esigenze ben diverse da un settore merceologico ad un altro.

Emerse l’esigenza di ritornare su tale materia nel dicembre del 1947 con un disposto normativo conosciuto come legge Basevi, volto a chiarire nuovamente il contenuto dello scopo mutualistico enunciato in precedenza. Questo riconosceva la "funzione sociale della

cooperazione a carattere di mutualità e senza fini di speculazione privata”, ai sensi dell’art. 45 Costituzione, tuttavia, pur dettando una

serie di norme formali per le società cooperative, non affrontava il problema di una definizione nuova e univoca del concetto di mutualità.

Il sogno di una disciplina completa e ordinata ma soprattutto chiarificatrice della definizione di mutualità rimase fino alla riforma del 2003. In tale sede, l’art. 2511 Codice Civile non definisce il temine mutualità ma indica solamente che “le imprese che hanno scopo

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disposizione della suddetta legge si riassumono in due principali innovazioni che comprendono la possibilità di introdurre soggetti non interessati allo scopo mutualistico con la qualifica di soci, e la definizione delle cosiddette clausole mutualistiche volte a delimitare l’area di applicazione delle agevolazioni riconosciute alle cooperative. Viene introdotto cosi il concetto di mutualità pura che gode delle agevolazioni fiscali previste per la cooperativa.

Il quadro normativo si completa con ulteriori disposizioni attinenti il funzionamento della vigilanza amministrativa, l’iscrizione delle cooperative nel registro prefettizio e la conseguente vigilanza delle commissioni provinciali. La restante disciplina verrà poi affidata alle innumerevoli leggi speciali.

Le ultime due tappe fondamentali prima della riforma del 2003 furono, dapprima con la legge 59/1992, la quale introdusse i fondi mutualistici, destinati a promuovere lo sviluppo del movimento cooperativo e i quali obbligano la cooperativa a versare annualmente parte dei propri profitti nella misura del 3%. Vennero inoltre introdotte ulteriori categorie di soci che potevano far parte della compagine societaria: infatti alla tradizionale figura del socio cooperatore, che ha come fine ultimo quello mutualistico, si affiancava il socio sovventore. Questo, come definito nella disciplina propria delle società per capitali, ha finalità lucrativa: al socio sovventore che apporta capitale di rischio spetta un corrispettivo patrimoniale negli utili e un potere di controllo sulla gestione dell’attività. Troviamo poi il socio finanziatore che detiene delle partecipazioni di varia natura

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nella cooperativa: la sua funzione viene detta di patrimonializzazione, e si configura come un semplice prestito che verrà restituito aumentato dei relativi interessi.

Un secondo importante intervento lo abbiamo con la legge delega del 3 ottobre 2001, n.366, la quale dispone il riconoscimento della funzione sociale della cooperativa, distinguendola dal concetto mutualistico: infatti, mentre l’attività esercitata dalla cooperativa ha come fine ultimo quello sociale, la mutualità diviene invece il mezzo per la realizzazione di questo. Dispone inoltre le modalità per l’individuazione delle cooperative costituzionalmente riconosciute, le quali si differenziano dalle altre cooperative per alcuni punti fondamentali. In primo luogo, lo svolgimento di un’attività a favore prevalentemente dei propri soci permette alla cooperativa di realizzare lo scopo mutualistico e la conseguente funzione sociale. Se tali specificità non fossero rispettate, si avrebbe la scomparsa della cooperativa come società rivolta all’interesse dei propri soci, configurandosi invece come una vera e propria impresa a scopo di lucro.

1.4 L’articolo 45 della Costituzione

L’art. 45 Costituzione si sofferma sull’associazione di più persone per lo svolgimento di un’attività economica attraverso la società cooperativa, configurandolo come “strumento ideale di elevazione del soggetto umano”. Se ne deduce che tale articolo dovrebbe avere un

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carattere sovrano rispetto a tutto l’ordinamento Italiano, ma si riduce invece ad un semplice, seppur indispensabile, ruolo rappresentativo. Diviene così deputato al fondamentale compito di descrivere l’unitarietà del fenomeno cooperativo, definendone il carattere mutualistico dell’attività che viene svolta nella cooperativa. Suddetto articolo recita che “la Repubblica riconosce la funzione sociale della

cooperazione a carattere di mutualità e senza fini di speculazione privata. La legge ne promuove e favorisce l'incremento con i mezzi più idonei e ne assicura, con gli opportuni controlli, il carattere e le finalità”.

Questa norma segna lo spartiacque tra due epoche legislative: quella antecedente al 1947, segnata, secondo l’opinione prevalente, da un’impronta dirigistica e autoritaria, tipica del periodo fascista, e quella successiva alla Costituzione, permeata dai principi da questa propugnati.

Alcuni i principali problemi legati a quest’articolo: tale norma preclude forme di cooperazione prive del carattere della mutualità e con fini di speculazione privata? la norma riguarda solo le società cooperative o si riferisce anche ad altre forme di cooperazione? in che rapporti si pone l’art. 45 con le altre norme costituzionali? che tipo di riserva pone il costituente?

Per quanto riguarda il primo problema, la prima parte dell’articolo richiede due elementi: la mutualità e l’assenza di fini di speculazione privata (che è cosa ben diversa dallo scopo di lucro). Secondo l’opinione prevalente, ciò deve essere interpretato nel senso che tra cooperazione e mutualità esiste un rapporto di genere a specie: quindi

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ci potrà essere una cooperazione a carattere mutualistico e una a carattere non mutualistico, o speculativo. Tuttavia solo la cooperazione così come prevista dal citato articolo, è presupposto per i benefici e le agevolazioni previsti dal legislatore.

Con il termine ”La Repubblica”, il costituente ha voluto evidenziare l’importanza della cooperazione e la conseguente funzione sociale “incaricando non solo il potere legislativo bensì tutti e tre i poteri statali alla tutela e promozione della cooperativa”. Si rende necessario valutare la dimensione sociale del fenomeno, infatti il legislatore non ha ignorato l’importanza storica del fenomeno cooperativo, che ha rappresentato un formidabile impulso all’economia nazionale, nel passato come pure nel presente, ma stabilisce e riconosce che il requisito primo di tutte le cooperative si manifesta nel principio mutualistico che caratterizza ciascuna cooperativa. Si sottolinea inoltre l’importanza che la cooperativa, alla stessa maniera della società ordinaria, si formi dalla libera e cosciente associazione di una pluralità di soggetti che perseguono non la realizzazione di un profitto personale, come avviene per le altre società, ma il raggiungimento di un bene economico comune, configurandone così la funzione sociale. La stessa Corte Costituzionale, riconosce la protezione costituzionale della cooperativa, nonostante le si attribuisca una tutela superiore rispetto a quella riservata alle categorie più deboli, le quali invece dovrebbero avere un assistenzialismo maggiore: tale protezione è dovuta al fatto che la cooperativa svolge un’attività organizzativa rivolta alla realizzazione della funzione sociale maggiormente rispetto

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alle altre società ordinarie, anche se appartenenti alle categorie più deboli. La Costituzione rappresenta il presupposto della disciplina della cooperazione e il riconoscimento costituzionale ne attribuisce la massima rilevanza giuridica, ma è anche vero che non dà una definizione completa ed esauriente del concetto di mutualità, come pure non definisce i limiti ed i termini per il quale si possa delineare il confine tra attività speculativa ed attività mutualistica, “lasciando ampi margini a diverse e contrastanti interpretazioni”. Il concetto di mutualità sarà allora “identificabile proprio con la gestione del servizio caratterizzata dal carattere di reciprocità”: sarà attraverso il perseguimento dell’interesse comune che la società presterà servizio ai propri soci e viceversa i soci ad essa.

Con riferimento al secondo problema, invece, la dottrina rimane divisa tra i sostenitori di un’interpretazione estensiva, secondo la quale l’aspetto della forma esteriore è irrilevante, e i sostenitori di un’interpretazione rigida. Questi ultimi si dividono ulteriormente tra chi ritiene che la norma non ponga un problema di forma, e chi sostiene che l’art. 45 si riferisca solo alle società.

Relativamente ai rapporti tra l’art. 45 e le altre norme costituzionali, è innanzitutto importante ricordare che esso si colloca nel titolo dei “Rapporti economici”. Questi vanno coordinati coi principi di cui agli articoli 1 e 3. L’art. 1: “L’Italia è una Repubblica democratica, fondata

sul lavoro. La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”, costituisce il riferimento base per poter

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summenzionato. L’art. 3, invece, sancisce il principio di eguaglianza formale (nel primo comma: “tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e

sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”) e sostanziale (nel secondo comma: “è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”):

alla luce di quest’ultimo concetto si deve ritenere che la cooperazione sia uno dei modi con cui i cittadini partecipano all’organizzazione economica del Paese. Essa contribuisce ad elevare i singoli soggetti e deve perciò considerarsi destinataria di tutte le norme contenute nel Titolo disciplinante i rapporti economici.

Infine, per quanto concerne la riserva di legge: secondo alcuni si tratta di riserva assoluta, cioè solo il legislatore statale può disciplinare tale materia; secondo altri si tratta invece di riserva relativa, quindi il legislatore statale detta semplicemente i criteri guida e l’autorità amministrativa emette i regolamenti disciplinanti la materia.

1.5 Le società cooperative dopo la riforma

Con la legge 366 del 2001 il legislatore ha conferito al Governo la delega per la riforma del diritto societario. I principi generali in tema

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di cooperative sono indicati all’art. 5, che divide essenzialmente tale riforma in tre parti.

Nella prima vengono trattate le cooperative in generale e viene introdotta la distinzione tra le due tipologie di cooperative: quelle «costituzionalmente riconosciute» e quelle «diverse». A tale scopo il legislatore ha distinto tra funzione sociale e scopo mutualistico: la prima costituisce il connotato imprescindibile della cooperazione in generale e si realizza attraverso il secondo. E’ perciò evidente la ratio della legge delega: individuare i connotati di meritevolezza delle cooperative, in contrapposizione alle imprese lucrative.

Nella seconda il legislatore individua una serie di istituti applicabili alle cooperative «diverse».

Nella terza parte, infine, la legge si occupa delle cooperative di credito e dei consorzi agrari, esonerandoli dall’applicazione della riforma (art. 5 comma 3).

Il d.lgs. 6 del 2003 ha dato attuazione alla legge delega, riformando la disciplina codicistica delle società. In particolare, ha introdotto due tipi di governance (cioè norme relative all’amministrazione e al controllo della società): l’uno di derivazione anglosassone, il sistema

monistico; e l’altro tedesca, il sistema dualistico, che si sono affiancati

al nostro tradizionale sistema latino. Le società di capitali sono ora libere di scegliere quale assetto si confà maggiormente alle rispettive caratteristiche ed esigenze.

Per ciò che in questa sede interessa, la riforma ha modificato radicalmente la disciplina delle società cooperative contenuta nel

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Titolo VI del Libro V del Codice Civile, che ora è diventato “delle società

cooperative e delle mutue assicuratrici”, mentre prima era “delle imprese cooperative e delle mutue assicuratrici”. Anche l’intestazione

del Capo I dello stesso Titolo è cambiata: da “delle imprese cooperative” a “delle società cooperative”, a testimonianza del fatto che il legislatore ha voluto legare la forma societaria al fenomeno cooperativo. Un’ulteriore conferma del fatto che la cooperativa è così identificata (come tipologia societaria), è offerta dall’art. 2517, che esclude gli enti mutualistici dalla disciplina delle società cooperative, e dall’art. 2519. Quest’ultimo rinvia alle disposizioni sulle società per azioni per quanto non previsto in materia di cooperative e, ovviamente, in quanto compatibili. La vera novità è però rappresenta dal secondo comma, che prevede la possibilità di adottare le norme della società a responsabilità limitata quando i soci siano meno di venti o l’attivo patrimoniale non superi il milione di euro. Tale previsione è manifestazione, da un lato, del principio di libertà nell’organizzazione interna e, dall’altro, dell’esigenza di consentire alle realtà minori forme organizzative più snelle e, soprattutto, meno costose. Il legislatore, però, non ha preso in considerazione gli aspetti negativi che il secondo comma porta con sé: ci possono essere, infatti, cooperative che optano per il regime delle s.r.l. anche se uno dei due parametri richiesti risulta di fatto essere superato o, peggio ancora, cooperative che superano entrambi i parametri durante la loro vita,

mantenendo comunque la disciplina delle s.r.l. In conclusione

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problematica che vantaggiosa: l’unico pro è che, ricorrendo certe condizioni, le cooperative potranno fare a meno del collegio sindacale e dei relativi costi.

Le linee guida della riforma in esame sono sostanzialmente due: la valorizzazione dell’autonomia privata (ex art. 2 lettera c della legge delega, infatti, la riforma deve ampliare gli ambiti dell’autonomia

statutaria, tenendo conto delle esigenze di tutela dei diversi interessi coinvolti), favorendo il perseguimento dello scopo mutualistico. Per

ciò che concerne questo secondo profilo, il legislatore si è ben guardato dal definire il concetto di mutualità (così come nel Codice del 1942), da un lato per la difficoltà di elaborare una definizione comprensiva di tutti gli aspetti del fenomeno cooperativo; dall’altro per evitare i limiti che una definizione troppo precisa avrebbe potuto incontrare. Esso tuttavia si qualifica come vero e proprio tratto distintivo, elemento essenziale non solo della società, ma anche della partecipazione sociale, che deve essere presente in tutte le cooperative, comprese quelle «diverse»: è ciò che rende le cooperative una categoria autonoma e a sé stante, distinta dalle società di capitali, seppur le rispettive discipline siano in più parti coincidenti. Esso coincide con il concetto di mutualità intesa in senso tradizionale, cioè come reciprocità o vicendevolezza di prestazioni tra l’ente e suoi aderenti.

A testimoniarne la rilevanza, l’art. 2511, che apre il capo dedicato alle cooperative, le definisce: “società a capitale variabile con scopo

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nel Codice di commercio del 1882, che qualificava le cooperative come società proprio per il fatto che, di norma, l’attività si realizzava attraverso un’intermediazione tra la società, i soci e i terzi. La variabilità del capitale è sinonimo di un altro principio fondamentale, quello della porta aperta: in pratica un aumento (o una riduzione) del capitale sociale, conseguente all’entrata (o all’uscita) di un socio, non determina alcun adeguamento dell’atto costitutivo. Tale variabilità rileva sotto un duplice profilo. Il primo riguarda il rapporto tra le cooperative e le categorie sociali di riferimento: sono gli amministratori a decidere l’ammissibilità di un nuovo socio, fatte salve le garanzie contro casi di discriminazione e rigetto immotivato della richiesta (ex artt. 2527 e 2528). Il secondo è relativo al rapporto tra le prestazioni dei soci e i conferimenti in denaro: questi ultimi sono evidentemente secondari rispetto alle prestazioni, che sono finalizzate al conseguimento degli scopi sociali. Quindi la variabilità del capitale può essere considerata mezzo attraverso il quale si promuove la cooperazione a carattere di mutualità voluta dalla Costituzione, che consente che i frutti derivanti dall’attività della cooperativa siano distribuiti a tutti coloro i quali appartengono alla compagine sociale e sono portatori di interessi meritevoli di soddisfazione.

Due sono i tipi di cooperativa individuati dal legislatore: quelle a mutualità prevalente, che godono di agevolazioni fiscali, e quelle a mutualità non prevalente, coerentemente con i principi enunciati dall’art. 45 della Costituzione. Tale distinzione si fonda su una duplice opzione: quella gestionale, che consiste nella prevalenza ex artt. 2512

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e 2513, e quella statutaria, che consiste nell’introduzione delle clausole di non lucratività, ai sensi dell’art. 2514. Quest’impostazione è comunque imperniata su un modello base, a dimostrazione del fatto che il legislatore ne ha mantenuto una visione unitaria in funzione dello scopo mutualistico. Infatti, per tutte le società cooperative si richiede: il perseguimento dello scopo mutualistico, il rispetto del principio democratico e della parità di trattamento, la considerazione del ristorno come tratto distintivo. Con riferimento alla mutualità, la normativa qui ricordata di fatto finisce per agevolare le realtà minori, cioè quelle che lavorano solo con i soci, a scapito della mutualità come fenomeno sociale che riguarda la pubblica utilità.

E’ possibile rinvenire manifestazioni del principio democratico in varie disposizioni della riforma. Innanzitutto il principio del voto capitario, derogabile nel limite di 5 voti per i soci persone giuridiche e nel decimo dei voti per le cooperative consortili. E’stata inoltre prevista (all’art. 2538), la possibilità di esprimere il voto per corrispondenza ed è stato attribuito il diritto di voto in assemblea anche ai possessori di strumenti finanziari, seppur nel limite di un terzo. In più (ai sensi dell’art. 2541), i titolari di strumenti finanziari non partecipativi possono ora organizzarsi in un’assemblea speciale e farsi rappresentare in quella generale da un rappresentante con diritto d’impugnativa. Come si può notare, il legislatore ha voluto tutelare con queste disposizioni il diritto di voto, in quanto diritto di influire direttamente sulle decisioni inerenti alla vita della cooperativa.

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Per quanto concerne il principio della parità di trattamento, l’art. 2516 ne esprime l’inderogabilità sia in relazione al rapporto sociale che a quello mutualistico. Esso è manifestazione della democraticità e solidarietà che caratterizzano la cooperativa. Tale principio riguarda esclusivamente il rapporto mutualistico, cioè il rapporto di scambio tra cooperativa e soci, funzionale al perseguimento dello scopo mutualistico; non invece quello societario e neppure l’attività svolta con i terzi, e che è indipendente dalla sussistenza o meno del requisito della prevalenza. Deve essere rispettato sia nell’esecuzione che nella costituzione dei rapporti mutualistici: le cooperative dovranno perciò applicare condizioni generali nei confronti di tutti i soci e adottare tecniche non discriminatorie nella scelta di questi ultimi. In conclusione il principio della parità di trattamento può essere considerato un utile strumento di tutela giuridica di fronte all’eventuale violazione, da parte dei soci, dei doveri di solidarietà nella partecipazione agli scambi mutualistici.

Una critica che viene da più parti mossa alla riforma è che non ha specificato le leggi speciali che devono considerarsi abrogate. Critica che viene superata dall’art. 2520 comma 1, in base al quale: “le

cooperative regolate da leggi speciali sono soggette alle disposizioni del presente Titolo, in quanto compatibili”. Con esso il legislatore ha

riaffermato la centralità del Codice rispetto alle leggi speciali: quest’ultimo contiene i criteri generali di identificazione della società cooperativa sia da un punto di vista funzionale che organizzativo (voto pro capite, porta aperta,…), quindi la sua supremazia deriva

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soprattutto da un’esigenza di coerenza sistematica dell’ordinamento stesso.

1.6 Tipologie di cooperativa

Le cooperative si distinguono in tre diverse tipologie, in base al tipo di rapporto intrattenuto con i propri soci. Quale prima categoria, individuiamo la cooperativa di utenza, contraddistinta da rapporti di compravendita nei confronti dei propri soci; in tale tipologia rientrano principalmente le cooperative di consumo, come pure le cooperative di abitazione, di acquisti collettivi, di servizi ai soci imprenditori, dei servizi socio-sanitari e scolastiche. In riferimento alla cooperativa di consumo, il socio si rivolge a quest’ultima per acquistare beni o servizi ad un prezzo minore rispetto a quello di mercato, praticato dalle società ordinarie. Il minor prezzo deriva dalla possibilità di eliminare tutte le forme speculazione privata, andando cosi a risparmiare sui costi di acquisto dei beni e servizi.

La seconda principale tipologia è rappresentata dalle cooperative di produzione; qui il socio, che partecipa all’attività mutualistica, si impegna al conferimento di una determinata tipologia di prodotti agricoli, che verranno successivamente lavorati e trasformati in prodotti idonei alla vendita presso il mercato. Tale cooperativa consentirà lo svolgimento di un’attività produttiva qualora i soci non dispongano dei mezzi finanziari e tecnici necessari per la produzione e vendita presso il pubblico in maniera autonoma. La cooperativa

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cercherà di massimizzare il costo d’acquisto del prodotto agricolo acquistato, andando così a remunerare il socio-conferente con un prezzo superiore a quello che percepirebbe nel mercato.

Infine troviamo le cooperative di lavoro, le quali si prefiggono il compito di conferire lavoro ai propri soci, garantendo la continuità lavorativa ed un’equa retribuzione. Il socio apporterà le proprie capacità ed abilità lavorative in cambio di una retribuzione almeno in linea a quelle di mercato; nel caso di avanzo di gestione positivo, la cooperativa potrà decidere in un’integrazione retributiva ulteriore. L’associazione di più lavoratori permetterà di sopprimere l’intermediario del lavoro, comportando così un risparmio di spesa che sarà corrisposto al lavoratore sotto forma di integrazione retributiva, negando così una sua “assimilazione al profitto d’impresa”.

1.7 Inquadramento generale del lavoro all’interno del Terzo Settore

Una delle tante capacità della maggior parte delle organizzazioni non-profit, in particolare di quelle produttive, è quella di contrastare senza troppe difficoltà non solo i fallimenti dello Stato e del mercato, ma anche i fallimenti nei rapporti contrattuali con i lavoratori. Le organizzazioni del Terzo Settore gestiscono i rapporti di lavoro facendo una selezione fra gli aspiranti lavoratori attraverso l’offerta di una serie di incentivi non solo monetari, come invece avviene solitamente nelle imprese tradizionali e negli enti pubblici, bensì di

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diverso tipologia, ossia sia estrinseci e monetari, che intrinseci e relazionali. In questo modo viene assunto solamente (o prevalentemente) personale che, anche in assenza di clausole contrattuali stringenti, fornisce un livello di impegno elevato, e tale caratteristica è di fondamentale importanza soprattutto in un settore come quello dei servizi sociali, dove misurare l’impegno dei lavoratori è particolarmente complicato.

Questa modalità di regolare i rapporti di lavoro adottata dalle organizzazioni non-profit presuppone che il salario non sia l’unica variabile rilevante per i potenziali lavoratori, e che essi valutino positivamente anche altri elementi, legati a motivazioni estrinseche ed intrinseche. Fra le prime ci sono le condizioni di lavoro, la possibilità di partecipare ad attività formative e di lavorare in ambienti in grado di aumentare il capitale umano delle persone; esempi invece di motivazioni intrinseche possono essere la valenza sociale dell’attività svolta, il modo in cui l’organizzazione produce ed eroga il servizio, il desiderio di partecipare direttamente alla definizione degli obiettivi e alla gestione delle attività e l’equità procedurale e distributiva. Il mix di incentivi che viene offerto è diverso da quello utilizzato dalle imprese for-profit e dalle organizzazioni pubbliche che erogano gli stessi servizi, e permette di non impiegare i lavoratori poco sensibili dal punto di vista sociale e che attribuiscono importanza solamente alla retribuzione. Oltre ad assicurarsi i lavoratori che meglio rispondono alle specifiche esigenze lavorative, le organizzazioni non-profit riescono anche a ridurre la possibilità di sfruttamento dei propri

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operatori, grazie alla forma giuridica e ai principi che le caratterizzano. Innanzitutto, il principio della gestione democratica, in secondo luogo vi è l’assenza di proprietari che si impossessano degli utili prodotti ed infine l’organizzazione è nelle mani dei lavoratori. Ne deriva che non c’è, in contesti come questi, la necessità di controllare l’impegno dei lavoratori, in quanto non accade con frequenza che essi assumano comportamenti opportunistici, di conseguenza si ha una riduzione dei costi legati a questo compito. Inoltre, grazie alle peculiarità suddette delle organizzazioni non-profit, anche la soddisfazione dei lavoratori e la loro utilità ne risentono positivamente, per cui queste forme organizzative rappresentano una possibilità occupazionale da incentivare. Tuttavia, nonostante i lati positivi appena citati, gli equilibri raggiunti da tali organizzazioni sono molto fragili perché dipendono dalla capacità dell’organizzazione non-profit di conservare nel tempo una sufficiente equità percepita (sia procedurale che distributiva), dalle caratteristiche soggettive dei lavoratori, e dalle relazioni fiduciarie fra lavoratori ed organizzazione, le quali devono essere forti abbastanza da riuscire a ridurre il più possibile comportamenti opportunistici.

1.8 Le criticità del lavoro nei servizi sociali

Nel settore dei servizi sociali è difficile creare un mercato del lavoro stabile e ben definito perché, innanzitutto, spesso non è possibile

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definire un confine fra offerta di servizi lavorativi a titolo oneroso e non, in quanto c’è “continuità con il lavoro che potrebbe essere definito informale (sia di familiari che di lavoratori regolari) e la diffusione di forme non mercantili di scambio di tempo fra amici e familiari, di forme di auto-aiuto e di lavoro volontario.” Inoltre, essendo servizi con un elevato grado di relazionalità, è complicato organizzare il lavoro, standardizzare i servizi e definire in modo preciso i contenuti delle prestazioni lavorative, perché queste ultime dipendono in gran parte dalle caratteristiche specifiche delle persone che ricevono il servizio. In generale è improbabile, quindi, stabilire a priori i compiti degli operatori, e ne deriva che non è facile stabilire un salario valido per tutti e, soprattutto, coerente con la produttività. Un altro aspetto critico, si riscontra nel monitoraggio dei lavoratori: è infatti molto difficile controllare l’impegno dei lavoratori e la loro produttività, essendo questa legata maggiormente ad aspetti qualitativi e non quantitativi. La conseguenza è che adottare forme di retribuzione capaci di incentivare l’impegno dei lavoratori è molto complicato. Si rilevano dunque elevate difficoltà nella definizione dei contratti di lavoro. Infine, gran parte dei servizi di utilità sociale è accumunata da varie dimensioni qualitative di difficile individuazione e valutazione, come ad esempio la qualità delle prestazioni e delle relazioni e la professionalità degli operatori. La conseguenza di ciò è che è praticamente impossibile valutare la qualità complessiva del servizio offerto, quindi utenti diversi avranno percezioni diverse, e anche le valutazioni saranno tali.

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1.9 Il lavoro nelle cooperative sociali

Una peculiarità delle cooperative sociali è la loro notevole incidenza sul livello di occupazione lavorativa nell’intero Paese; si distinguono infatti dalle altre forme di organizzazioni non-profit per l’elevato utilizzo di lavoratori retribuiti, che rappresentano pressoché la totalità di risorse umane impiegate. Ciò è un’evidente prova del fatto che si è in presenza di una struttura produttiva basata soprattutto sul capitale umano e caratterizzata da un limitato ricorso al volontariato. Distinguendo fra le due principali tipologie di cooperative sociali, ossia le cooperative sociali di tipo A e quelle di tipo B, la maggior parte dei lavoratori retribuiti si trova nella prima tipologia, anche se, sebbene in misura marginale, nelle cooperative di tipo B si riscontra un numero maggiore di dipendenti e minore di collaboratori e lavoratori interinali. Ne deriva dunque che queste ultime tendono ad assumere in maniera più rilevante personale fisso.

Si tratta di una situazione florida, con crescente rilevanza non solo sociale, ma anche occupazionale dell’intero settore dei servizi sociali.

1.10 Il capitale umano: le tipologie di soci

A differenza di quanto accade nelle cooperative tradizionali, la caratteristica principale dei soci nelle cooperative sociali non è quella

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di avere bisogni omogenei, ciò che li lega e li accomuna è infatti lo scopo di soddisfare l’interesse generale della comunità. I soci delle cooperative sociali possono essere di varie categorie: vi è innanzitutto il socio lavoratore, ovvero colui che presta il proprio lavoro all’interno della cooperativa. Tale figura risulta essere abbastanza complicata e si trova tutt’ora al centro di un dibattito fra i sostenitori di due interpretazioni divergenti, perché è una figura che unisce alcune caratteristiche imprenditoriali ad altre tipiche invece dei lavoratori. I sindacati sostengono che il socio lavoratore sia lavoratore dipendente prima di essere socio imprenditore, il che significa che deve essere tutelato attraverso il Contratto Collettivo Nazionale del Lavoro. D’opinione opposta sono le centrali cooperative e la maggior parte delle cooperative stesse, le quali tendono a vedere nel socio lavoratore della cooperativa sociale l’imprenditore di se stesso, senza che ci sia dunque la necessità di seguire le norme sindacali. Un ulteriore elemento da sottolineare è che tale contrasto non si limita solo a questo aspetto, riguarda infatti anche la questione della rappresentanza: da un lato i sindacati intendono rappresentare i soci lavoratori come fanno con i lavoratori del mercato profit, dall’altro lato le centrali cooperative interpretano tale atteggiamento come invasivo, in quanto ritengono che i soci lavoratori siano già sufficientemente rappresentati dagli organi statutari previsti per le imprese cooperative. C’è poi la figura del socio volontario, individuo che si riconosce nella mission e nelle attività portate avanti dalla cooperativa sociale a tal punto da prestare la propria opera senza che

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gli venga riconosciuto alcun tipo di compenso. Nonostante la sua significativa importanza, non è però possibile che i volontari superino numericamente i lavoratori retribuiti, per cui vanno considerati come una risorsa aggiuntiva e non sostitutiva. A qualificare soprattutto le cooperative sociali di tipo B, quelle cioè di inserimento lavorativo, ci sono i soci svantaggiati. Questi devono rappresentare almeno il 30% dei lavoratori impiegati, siano questi soci o non soci, e rappresentano un’agevolazione per la cooperativa, poiché per tali soci vi è l’esenzione totale dai contributi previdenziali. La legge 59/1992 ha introdotto la figura del socio sovventore, la cui presenza è ambigua e può generare un rischio di isomorfismo con le imprese profit sostanzialmente per due motivi: prima di tutto, sono soggetti con esplicite finalità lucrative, che quindi scardinano il principio di mutualità; in secondo luogo hanno il privilegio di esercitare più di un voto in assemblea, e questo va contro i principi di democraticità, che si esplicano in particolare nel principio cardine della forma cooperativa, ossia “una testa, un voto”.

1.11 Il profilo del “lavoratore medio”

Il lavoratore medio che si trova con una maggiore frequenza nelle cooperative sociali è di sesso femminile e generalmente giovane (25-35 anni), e questo dato differenzia ulteriormente le cooperative sociali dalle altre organizzazioni non-profit, in cui l’età media dei lavoratori è pari a 38 anni. Un’altra differenza è che le cooperative sociali sono

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caratterizzate da una percentuale superiore di lavoratori impiegati da solo un anno o con un’esperienza lavorativa non eccessivamente elevata, al massimo quinquennale.

Sebbene nel settore non-profit i lavoratori presentino titoli di studio medio-bassi, nelle cooperative sociali ci sono molti diplomati e laureati, soprattutto fra coloro che offrono servizi assistenziali e infermieristici, ovvero particolari tipologie di servizi che richiedono abilità specifiche e specialistiche. Inoltre agli operatori delle cooperative sociali, specialmente in quelle in cui la presenza di volontari è massiccia, è offerta la possibilità di partecipare molto frequentemente ad attività formative, infatti facendo riferimento a dati raccolti nel 1998, più del 37% del personale ha avuto tale opportunità. Ciò permette di affermare che le cooperative sociali investono molte risorse nella formazione, e questo è un aspetto che nel settore dei servizi sociali assume un’importanza particolare perché rende possibile avere personale qualificato e competente, in grado quindi di garantire servizi di alta qualità.

La maggior parte dei soggetti che presta il proprio servizio all’interno delle cooperative sociali è costituita da donne, che rappresentano il 71,2% del totale. Questo dato, oltre a confermare la situazione dell’intero Terzo Settore, si presta a due diverse interpretazioni: da un lato può essere considerato un aspetto positivo, in quanto significa che nel settore non-profit ci sono meno barriere all’entrata rispetto a quanto avviene nel mercato delle imprese tradizionali o pubbliche. Un altro aspetto positivo del lavoro nel settore non-profit è rintracciabile

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nel fatto che tali istituzioni sono caratterizzate da un’ampia offerta di posizioni contrattuali, inoltre sono in grado di soddisfare l’esigenza di flessibilità dei lavoratori, fattore di fondamentale importanza soprattutto per i lavoratori di sesso femminile, in quanto spesso questi ultimi devono conciliare il proprio lavoro con le varie responsabilità familiari. Questi fattori positivi sono controbilanciati da altri aspetti sfavorevoli riconducibili, in primis, a bassi salari e a limitate prospettive di carriera. Di conseguenza, se da un lato le cooperative sociali offrono maggiori opportunità formative ed elevata flessibilità, dall’altro lato questi stessi aspetti positivi possono trasformarsi in un verosimile rischio di mancanza di sicurezza del posto di lavoro, in probabili retribuzioni non eque ed in ridotte possibilità di avanzamento di carriera. Si nota però che le donne non rivestono all’interno delle cooperative sociali posizioni elevate, c’è una percentuale molto bassa di lavoratrici femminili che ricoprono cariche di presidenti, di conseguenza è come se ci fosse una contraddizione di fondo, in quanto è vero che la presenza delle donne è cospicua in questa tipologia di impresa, ma non si verifica un’equa distribuzione delle responsabilità, dei compiti e delle cariche sociali.

1.12 Le motivazioni e la soddisfazione dei lavoratori

Attenendoci ai risultati di ricerche svolte attraverso la

somministrazione di questionari sia ai dirigenti che ai lavoratori delle cooperative sociali, emerge che coloro che decidono di lavorare in

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questa particolare forma di impresa, sono accomunati da motivazioni specifiche, prima fra tutte l’interesse per l’organizzazione in questione e le attività che essa svolge. La decisione di lavorare nel settore dei servizi sociali, ed in particolare nelle cooperative sociali, può dipendere, alternativamente, da:

- Motivazioni intrinseche, ovvero l’interesse per il settore e la condivisione del modo di lavorare dell’organizzazione

- Motivazioni estrinseche, quali la remunerazione, la necessità di lavorare, la ricerca di un lavoro sicuro e la possibilità di conciliare il lavoro con altri impegni extra lavorativi.

Le motivazioni che prevalgono fra gli operatori delle cooperative sociali sono quelle intrinseche, e questo accredita l’affermazione secondo cui i lavoratori più interessati a lavorare nei servizi sociali sono quelli delle cooperative sociali. Ciò nonostante, non è corretto dichiarare che la scelta di lavorare nel sociale sia legata unicamente a motivazioni ideali: sono presenti anche le motivazioni estrinseche, anche se raramente risultano essere esclusive, soprattutto nelle cooperative sociali di maggiori dimensioni. Infatti per quanto riguarda l’atteggiamento verso il lavoro, non contano soltanto motivazioni idealistiche e astratte: coloro che sono occupati nelle cooperative sociali assegnano molta importanza al lavoro inteso come necessità, come sistema per guadagnarsi da vivere, come modalità di aiuto per la famiglia e, in particolare nelle cooperative sociali con intensi rapporti di rete, come modo per arricchire la società in cui i lavoratori vivono. Inoltre la scelta dell’organizzazione in cui lavorare è influenzata anche

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dal livello di condivisione degli obiettivi dell’organizzazione e del modo di lavorare verso gli utenti, mentre non riveste importanza particolare l’aspetto della sicurezza del lavoro e ancora meno il trattamento economico e la prospettiva di fare carriera. Tali vantaggi economici non influenzano, se non in maniera marginale, la soddisfazione dei lavoratori. In effetti, chi decide di impegnarsi in cooperative sociali dà più peso a trattamenti non economici e non tangibili, come le relazioni con i colleghi ed i superiori, il clima e la gradevolezza del lavoro, e la condivisione di obiettivi. Un’interessante particolarità, propria soprattutto delle cooperative sociali più “vecchie” e di più piccole dimensioni, è che i lavoratori non ritengono fondamentale o prioritaria la corrispondenza del proprio titolo di studio con il ruolo svolto nell’organizzazione, a differenza di ciò che si verifica nelle cooperative di grandi dimensioni e quando si è in presenza di un numero elevato di volontari. In questi ultimi due casi i lavoratori retribuiti tendono non solo a dare più importanza alla coerenza con la formazione, ma anche agli aspetti prettamente economici, e ad aspirare di conseguenza a retribuzioni più elevate. Le motivazioni degli aspiranti lavoratori sono di rilievo anche nel momento della selezione del personale, infatti i dirigenti delle cooperative sociali prestano particolare attenzione a questo aspetto quando devono assumere nuove risorse umane; inoltre cercano di aumentare tali motivazioni durante l’intera durata del rapporto lavorativo, in particolare attraverso l’appagamento dal lavoro e l’aumento della soddisfazione. Si è in presenza di un atteggiamento del

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genere perché assicurare la soddisfazione di coloro che operano nelle cooperative sociali si traduce in una garanzia di benessere di coloro che usufruiscono del lavoro, ovvero degli utenti dei servizi erogati. Inoltre è stato dimostrato che esiste una dipendenza fra impegno dei lavoratori, qualità del lavoro, fedeltà all’organizzazione di appartenenza e tendenza a scioperare da un lato; e soddisfazione complessiva dall’altro. Ciò significa che se i lavoratori sono soddisfatti, gli scioperi sono meno frequenti, dichiarano prospettive di permanenza nell’organizzazione di lungo periodo e la qualità dei servizi è migliore, perché i lavoratori più soddisfatti tendono a considerare come centrali gli utenti del proprio lavoro ed i bisogni di questi ultimi. Considerare la soddisfazione dei lavoratori, significa anche raccogliere informazioni utili riguardo il loro benessere ed alla capacità dell’organizzazione di garantirlo. Influiscono molto sulla soddisfazione degli operatori il loro grado di coinvolgimento e il livello di partecipazione alla vita ed alle decisioni dell’organizzazione. In riferimento a ciò, rispetto sia alla media del settore sia a quella degli enti pubblici e delle imprese profit, nelle cooperative sociali i lavoratori si sentono molto più coinvolti nella vita dell’organizzazione. Il merito di tale elevato grado di coinvolgimento, come si cercherà di argomentare più dettagliatamente nel capitolo successivo del presente elaborato, va soprattutto alla rappresentanza, sia nella base sociale, che negli organi gestionali, che, seppure in misura inferiore, nei sindacati. Questo aspetto contribuisce in maniera significativa alla diffusione di fiducia e fedeltà da parte dei lavoratori, fattori che, a loro

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volta, incentivano i soggetti a rimanere più a lungo nelle organizzazioni in questione. Gli aspetti del lavoro per cui la soddisfazione è più elevata sono la sua utilità sociale e la qualità delle relazioni interne. Da ciò deriva un’ulteriore conferma del fatto che i servizi sociali sono un settore a forte componente altruistica e solidaristica e viene giustificata la grande fedeltà all’organizzazione. La fedeltà è infatti maggiore tra i lavoratori che hanno scelto l’organizzazione in base a motivazioni prevalentemente di tipo intrinseco, mentre ad atteggiamenti più strumentali verso il lavoro è associato un minore attaccamento. Oltre a questi appena citati, ci sono altri aspetti del lavoro che determinano una maggiore soddisfazione e sono legati a fattori quali il riconoscimento da parte degli altri lavoratori per l’attività svolta, l’autonomia decisionale che i lavoratori dispongono, la varietà e la creatività del lavoro svolto e la quantità di tempo trascorsa a contatto con gli utenti dei servizi erogati. Sono proprio questi i fattori che più di altri incidono sulla decisione di cambiare lavoro e impiegarsi in organizzazioni non-profit in generale, e in cooperative sociali in particolare, soprattutto da parte dei lavoratori che avevano già un’occupazione in imprese for-profit operanti anche in settori diversi da quello dei servizi sociali.

1.13 Il Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro per le Cooperative Sociali

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Il Contratto Collettivo Nazionale del Lavoro (d’ora in avanti CCNL) è un documento in cui sono riportati i minimi di trattamento economico e normativo per i lavoratori dipendenti. È un contratto collettivo di categoria e in quanto tale si riferisce ai diversi settori di attività: ad ognuno di questi, infatti, corrisponde un singolo CCNL.

È il frutto dell’accordo fra i rappresentanti dei lavoratori, vale a dire i sindacati, e le associazioni che rappresentano i datori di lavoro. Nel caso specifico delle cooperative sociali, tale accordo intercorre fra le tre Centrali Cooperative, Legacoop, Confcooperative e Agci, ovvero i portavoce dei datori di lavoro, e i tre principali sindacati che tutelano i diritti dei lavoratori, ossia CGIL, CISL e UIL. È da evidenziare quindi un

forte potere di rappresentanza conferito dagli associati

all’associazione all’atto dell’adesione, per cui al momento della stipula del CCNL l’associazione agisce in sostituzione dell’individuo che rappresenta.

Stabilendo i minimi di trattamento economico e normativo, i CCNL lasciano spazio ad integrazioni successive, che possono puntualizzare e precisare con una chiarezza maggiore le varie disposizioni della contrattazione nazionale. Queste integrazioni possono avvenire, in maniera non esclusiva, a livello territoriale o a livello aziendale, e negli ultimi anni hanno rivestito un ruolo sempre più rilevante. In particolare, solitamente la contrattazione integrativa riguarda, fra gli altri, aspetti come le forme di incentivazione economica, la gestione degli orari di lavoro e di assunzioni e licenziamenti, la gestione della sicurezza degli ambienti di lavoro, l’applicazione di diritti di

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partecipazione dei lavoratori alle decisioni aziendali, per cui può capitare che i lavoratori di cooperative sociali che operano nello stesso ambito, abbiano dei contratti diversi.

Infatti i livelli principali della contrattazione sono:

- il livello interconfederale, in cui contrattano i sindacati e le associazioni negoziali delle imprese, le organizzazioni rappresentative dell’artigianato e della cooperazione. A questo livello si producono i protocolli d’intesa sulle relazioni industriali;

- il livello nazionale di categoria, in cui contrattano sindacati nazionali rappresentanti le varie categorie (come ad esempio i cooperatori sociali) e le relative associazioni imprenditoriali. Questo livello produce i contratti collettivi nazionali di lavoro;

- il livello aziendale, che produce un accordo valido per i lavoratori di una determinata impresa, solitamente migliorativo rispetto ai CCNL. Fermo restando che la durata dei CCNL viene decisa dalle parti stipulanti al momento dell’accordo, solitamente tali documenti hanno una validità biennale o triennale. Alla scadenza si procede al rinnovo del contratto stesso mediante un procedimento preciso:

1) preparazione ed elaborazione della proposta contrattuale. Raramente il contratto da rinnovare viene sostituito radicalmente, infatti le nuove trattative si limitano ad aggiornarlo e a modificare le parti che formano oggetto di conflitto. In genere i sindacati, già prima della scadenza del contratto, presentano delle piattaforme rivendicative, che rappresentano la base minima della futura contrattazione. Tali richieste, per la maggior parte delle volte, sono il

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frutto di assemblee di lavoratori, di conseguenza riproducono le esigenze e le pretese di questi ultimi;

2) negoziazione ed eventuale mediazione dei pubblici poteri. Le trattative, che si realizzano attraverso successivi incontri delle delegazioni delle parti interessate, possono essere più o meno laboriose. Se non si riesce a raggiungere un accordo fra le parti, e quindi le trattative si protraggono a lungo nel tempo, può capitare che vengano accompagnate dall’esterno da scioperi.

3) accordo finale. Una volta raggiunto, l’accordo viene sottoposto alle assemblee dei lavoratori per la ratifica o ad un referendum. Ottenuta l’approvazione attraverso il voto espresso dalle assemblee, il contratto collettivo si concretizza nel testo definitivo, a cui dovranno attenersi i futuri contratti individuali.

Il primo contratto collettivo nazionale delle cooperative sociali viene stipulato nel 1992.

1.14 La questione delle retribuzioni

Nonostante possa sembrare paradossale, è provato e avvalorato da varie ricerche che i lavoratori delle cooperative sociali, nonostante i bassi salari che ricevono, sono i più soddisfatti di quelli del settore non-profit e anche degli occupati del settore pubblico, dove invece i livelli di retribuzione sono molto più elevati. Si può affermare che

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nelle cooperative sociali sono maggiormente soddisfatti i bisogni extra-economici dei lavoratori, ed in particolare viene loro garantita un’elevata soddisfazione morale e professionale. Motivazioni intrinseche e valori condivisi acquistano quindi un peso fondamentale, maggiore di quello rivestito nelle organizzazioni pubbliche e for-profit, e a questo proposito è lecito affermare che i soggetti impiegati nelle cooperative sociali sono tanto più appagati quanto meno vedono il lavoro come una mera fonte di guadagno. Si hanno salari inferiori alla media soprattutto nelle piccole cooperative e in quelle di più recente costituzione, nonostante i lavoratori svolgano le stesse funzioni di colleghi impiegati in cooperative di maggiori dimensioni, in particolare qualora operino in qualità di responsabili di settore.

La maggiore soddisfazione a dispetto delle basse retribuzioni può essere spiegata innanzitutto dal grado più alto di motivazione dei lavoratori che trovano qui impiego, la quale funge da compensazione sostitutiva di elevati livelli salariali. Oltre a questa prima giustificazione, è di rilievo anche il fatto che all’interno delle cooperative sociali si tende ad avere una percezione diffusa di una maggiore equità, fattore che più di altri è in grado di misurare la forza e la positività del rapporto fra i lavoratori e l’organizzazione. Questo è vero per quanto riguarda l’equità distributiva, ovvero una percezione di giustizia nei trattamenti economici ricevuti. Si ritiene infatti che nelle cooperative sociali vi sia corrispondenza fra il salario percepito ed alcuni aspetti dell’impiego, quali la responsabilità sul lavoro, la formazione ricevuta, l’esperienza acquisita, l’impegno profuso, la

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qualità del proprio lavoro, lo stress che questo causa, ma anche le disponibilità economiche dell’organizzazione. In effetti è intuitivo che una dispersione salariale possa causare attriti e problemi di vario tipo, soprattutto di tipo relazionale e di scarsa propensione a seguire le regole dell’organizzazione, per cui una diffusa percezione di equità nelle retribuzioni rispetto alle disponibilità dell’organizzazione è sicuramente un aspetto positivo. L’equità va considerata anche in un’altra sua accezione, vale a dire la cosiddetta equità procedurale, termine con cui si fa riferimento ad una serie di variabili fra cui la trasparenza della comunicazione interna, la giustizia nei meccanismi di carriera, l’equilibrio fra impegno profuso e ricompense e la capacità dell’organizzazione di ascoltare i propri dipendenti. Considerare l’equità anche in questo modo rafforza l’idea che i lavoratori delle cooperative sociali accettino retribuzioni inferiori perché ritengono che le strutture in cui sono impiegati diano loro la possibilità e l’opportunità di partecipare attivamente alla vita dell’organizzazione e perché si sentono responsabilizzati e coinvolti. Le considerazioni suddette permettono di evidenziare l’importante interdipendenza fra aspetti economici e non economici che compongono la remunerazione dell’impegno dei lavoratori. I vari fattori che influenzano la soddisfazione dei lavoratori vanno considerati congiuntamente, e risiede qui il vantaggio delle strategie organizzative adottate dalle organizzazioni non-profit e, quindi dalle cooperative sociali. Esse sono riuscite a bilanciare ricompense monetarie e non, attraverso la possibilità offerta ai lavoratori di una maggiore trasparenza e

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partecipazione alla vita dell’organizzazione, fattori in grado di controbilanciare le basse retribuzioni salariali. Per aumentare il livello di soddisfazione dei lavoratori non basta infatti colmare il gap di natura retributiva fra le cooperative sociali e le altre forme giuridiche che operano nel settore dei servizi sociali; occorre invece investire sul sistema complessivo di gestione delle risorse umane e sulla trasparenza delle relazioni lavorative e delle regole che le caratterizzano. Concludendo, si può affermare che retribuzioni inferiori alla media non influiscono negativamente sulla soddisfazione del lavoro, né sul livello di fedeltà all’organizzazione da parte dei lavoratori, né tantomeno sull’impegno del lavoratore e sulla produttività finale, però è necessario che le cooperative sociali garantiscano ai propri lavoratori salari ritenuti sufficienti. Questi sono non inferiori a quel “salario soglia” che fornisce ai lavoratori una percezione positiva di equità di trattamento. Esiste infatti una soglia al di sotto della quale viene dichiarata una scarsa soddisfazione, non solo per il salario stesso, ma per il lavoro in generale

1.15 La legge 381/1991

La legge 381/1991 ha regolamentato le cooperative sociali individuandone due tipologie: le cooperative di solidarietà sociale, di cui alla lettera a) dell’articolo 1, (chiamate comunemente cooperative

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di tipo A), che operano nei settori dei servizi sociali, sanitari ed educativi; e le cooperative di produzione e lavoro integrate, di cui alla lettera b) (tipo B), le quali hanno la funzione di promuovere l’inserimento dei soggetti svantaggiati nell’attività lavorativa.

La legge, essendo il risultato di un lungo e travagliato iter che ha inizio negli anni ottanta, rappresenta un momento di fondamentale importanza per il movimento della cooperazione sociale italiana, uno snodo che sottolinea la specificità di questo fenomeno istituendo una forma giuridica sui generis.

Soltanto nel 1991, dieci anni dopo il primo tentativo di legge, si arriva al disegno definitivo, che rappresenta una via di mezzo fra le due estremità, una proposta abbastanza condivisa sia dalla sinistra che dalla destra politica e, di conseguenza, dalle centrali cooperative Legacoop e Confcooperative.

In base a quanto affermato nell’articolo 98, la legge deve essere recepita dalle regioni italiane attraverso l’emanazione di specifiche leggi regionali, al fine di realizzare a livello locale alcuni importanti aspetti della normativa nazionale. È compito delle regioni innanzitutto istituire un apposito albo regionale a cui devono iscriversi le cooperative sociali; deve poi essere determinata la modalità di raccordo con l’attività dei servizi socio-sanitari e con le attività di formazione professionale e di sviluppo dell’occupazione; deve essere prestata attenzione alla questione delle convenzioni fra cooperative sociali e amministrazioni pubbliche locali; ed infine occorre emanare

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particolari norme per promuovere, sostenere e permettere lo sviluppo della cooperazione.

Oltre alla normativa regionale, assumono una rilevanza particolare le circolari attuative da parte dei diversi uffici competenti, come il Ministero del Lavoro o l’INPS, che chiariscono e precisano i contenuti della legge nazionale.

La principale novità introdotta dalla Disciplina delle cooperative sociali è quella di riconoscere esplicitamente la forma imprenditoriale a istituzioni che svolgono attività solidaristiche: con la legge 381/91 viene legittimata una nuova fattispecie di impresa per la quale lo scopo primario non è il profitto, in cui ciò che è fondamentale è la soddisfazione dei lavoratori, e ciò che va tutelato e migliorato è il benessere della comunità locale di riferimento. Il primo comma dell’articolo 1 riconduce ad un unico soggetto le funzioni imprenditoriale e solidale, per lungo tempo tenute distinte nel nostro ordinamento giuridico, perseguendo quell’importante “funzione

sociale” riconosciuta dall’articolo 45 della Costituzione. Da questa

innovazione discende una prima differenziazione rispetto alle imprese capitalistiche, ovvero nelle cooperative sociali si assiste ad un ribaltamento dei fini e dei mezzi: è l’equilibrio economico che serve per perseguire l’interesse generale della collettività, e non viceversa. La buona gestione economica, fine ultimo dell’impresa ordinaria, per la cooperativa sociale è un elemento strumentale allo scopo di produrre benefici a favore della collettività.

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