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Capitolo II Dall’essenza all’esistenza

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Capitolo II

Dall’essenza all’esistenza

1. «Che la mia umanità sia la verità».Il confronto con Heidegger

Il merito fondamentale di Heidegger, secondo Lévinas, è stato quello di «educare il nostro orecchio» a un nuovo concetto filosofico che spicca per la sua indimenticabile «sonorità verbale»1.

Con Essere e tempo si è «risvegliata la “verbalità” nella parola essere, ciò che in essa è evento, l’“accadere” dell’essere, come se le cose e tutto ciò che è “conducessero un treno d’essere”, “facessero un mestiere di essere”»2. Heidegger ha contribuito a creare un alone poetico attorno a questa nozione, presentandola come originaria e pre-teoretica, avvolta dall’enigma: «Il fatto è che già sempre viviamo in una comprensione dell’essere e che, nel contempo, il senso dell’essere continua a restare avvolto nell’oscurità»3.

Si tratta di un’intuizione ovvia, ma allo stesso tempo misteriosa, che deve essere tradotta a livello concettuale. «Non sappiamo che cosa significa “essere”. Ma per il solo fatto di chiedere “Che cos’è ‘essere’?” ci manteniamo in una comprensione dell’ “è”, anche se non siamo in grado di stabilire concettualmente il significato di questo “è”»4. Heidegger definisce «comprensione media e vaga» dell’essere questo approccio preliminare, che «può risultare fluttuante ed evanescente fin che si vuole, e rasentare i confini di una semplice nozione verbale, ma tale indeterminatezza della 1 EI, p. 60. 2 Ibid. 3 ET, § 1, p. 15. 4 ET, § 2, p. 17.

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67 comprensione dell’essere già sempre disponibile è essa stessa un fenomeno positivo che richiede una spiegazione»5.

Lévinas è attratto dalla dimensione implicita e opaca della verità che si deve portare alla luce, ciò che lo colpisce è il rivelarsi dell’essere nell’ente, nell’uomo; il bisogno di interrogare la propria esistenza, poiché «ogni elemento dell’essenza dell’uomo è un modo di esistere»6.

L’essere diviene accessibile tramite la condizione umana. Scrive il nostro filosofo: «Che il mio qui, che il mio Da sia l’evento stesso della rivelazione dell’essere, che la mia umanità sia la verità, costituisce l’apporto principale del pensiero heideggeriano. L’essenza dell’uomo è in quest’opera di verità; l’uomo non è dunque un sostantivo, ma è inizialmente verbo»7.

L’essere come verbo, come sonorità ed evento evoca un’immagine dinamica della sua manifestazione. L’Esserci, «ciò che noi sempre siamo»8, accade nel Tempo, che è «l’orizzonte di ogni comprensione e di ogni interpretazione dell’essere»9 ed è originariamente in relazione con il Mondo. Heidegger rifiuta la concezione metafisica del soggetto, «l’ingenua convinzione che l’uomo sia innanzi tutto una cosa spirituale, la quale successivamente “è” posta in uno spazio»10. Nell’«ente che io sempre sono», «l’espressione “bin”, “sono”, è connessa a “bei”, “presso”. “Io sono” significa», dunque, «abito, soggiorno presso [...] il mondo, come qualcosa che mi è familiare»11. 5 Ibid. 6 EDE, p. 66. 7 EDE, p. 67. 8 ET, § 2, p. 19. 9 ET, § 5, p. 31. 10 ET, § 12, p. 77. 11 ET, § 12, p.75.

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68 Entrare in relazione con il mondo non è solo un «essere presenti», ma un «prendersi cura», che vuol dire: «condurre a termine, concludere, “venire a capo” di qualcosa», o ancora «procurarsi qualcosa»12. Si intravede il richiamo esplicito al concetto di intenzionalità: i modi di riferirsi ad altro dell’intenzione husserliana erano plurimi, così, numerosi e differenti sono i modi della cura rispetto ai mezzi intramondani: «avere a che fare con qualcosa, approntare qualcosa, ordinare o curare qualcosa, impiegare qualcosa, abbandonare o lasciar perdere qualcosa, intraprendere, imporre, ricercare, interrogare, considerare, discutere, determinare...»13.

Il mondo non è dato esclusivamente dall’atto della conoscenza, ma dal «prendersi cura maneggiante e usante»14. Non ci si limita a contemplare l’oggetto: «il solo guardare alle cose nel loro rispettivo “aspetto”, anche se acutissimo, non può scoprire l’utilizzabile. Lo sguardo che guarda alle cose solo “teoreticamente” è estraneo alla comprensione dell’utilizzabilità»15.

Lévinas apprezza l’atteggiamento «pratico» di Heidegger, che radicalizza l’idea husserliana di un’intenzionalità non solo teoretica, superando il primato che il filosofo della fenomenologia accordava alla rappresentazione. «La manipolazione», sviluppata in Essere e tempo come modalità privilegiata di esperienza, scrive il nostro autore, «non è successiva a una rappresentazione. È per questo innanzitutto che Heidegger si oppone all’opinione corrente - opinione condivisa ancora da Husserl - secondo cui prima di manipolare qualcosa è necessario rappresentarselo»16. 12 ET, § 12, p. 78. 13 ET, § 12, p. 77. 14 ET, § 15, p. 89. 15 ET, § 15, p. 92. 16 EDE, p. 71.

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69 La novità di Essere e tempo consiste, agli occhi del filosofo lituano, nell’«abbandono della nozione tradizionale della coscienza come punto di partenza, con la decisione di cercare nell’evento fondamentale dell’essere – dell’esistenza del Dasein – la base della coscienza stessa».

Il percorso di Heidegger appare più ampio rispetto a quello husserliano, che ha il suo inizio e la sua fine nel soggetto trascendentale. Lévinas sembra riscontrare il valore, per lui imprescindibile, della trascendenza, nella proiezione dell’ente verso l’essere. «È a questo salto al di là dell’ente verso l’essere – che è l’ontologia stessa, la comprensione dell’essere – che Heidegger riserva il termine di trascendenza [...]. Il problema dell’ontologia, per Heidegger, è trascendentale in questo nuovo senso»17. Lévinas apprezza la novità di Essere e Tempo, a tal punto da estenderla allo stesso Husserl: in un articolo intitolato Fribourg, Husserl et la phénoménologie, scritto nel 1931 e pubblicato nella raccolta Les imprévus de l’histoire del 1994, il nostro autore descrive il compito della fenomenologia attraverso echi heideggeriani, orientando la ricerca husserliana in senso trascendente, tramite l’apertura al Mondo e la scoperta della centralità dell’uomo:

Déterminer la nature véritable de l’Humain, l’essence propre de la conscience – voilà ce qui s’est imposé comme première tâche aux phénoménologues [...]. Tout ce qui est conscience n’est pas replié sur soi-même, comme une chose, mais tend vers le Monde. Le concret suprême dans l’homme, c’est sa transcendance par rapport à lui-même18.

17 EDE, p. 74. 18 IH, p. 98.

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70 Si può notare il singolare intreccio del pensiero dei due filosofi tedeschi nell’eclettismo del giovane filosofo, come scrive Salvarezza:

È come se Lévinas agisse in certo modo su due livelli: da un lato, ricorre ad Heidegger per correggere il residuo teoreticismo che legge in Husserl, dall’altro lato si serve della heideggeriana nozione di essere per imprimervi un movimento che è di tipo fenomenologico, nella misura in cui entra in gioco la questione del soggetto, secondo un’accezione non logica, ma fattuale ed esistenziale19.

L’interpretazione fortemente antropocentrica della fenomenologia e dell’ “esistenzialismo” heideggeriano da parte di Lévinas, emerge nel saggio Martin Heidegger et l’ontologie, pubblicato per la prima volta nel 1932 in «Revue Philosophique de la France et de l’Étranger», poi riproposto, con alcune modifiche nella raccolta di saggi En découvrant l’existence avec Husserl et Heidegger del 1949. I toni dell’opera sono appassionati, come se si volessero rivelare ai lettori le conseguenze di un pensiero ancora sconosciuto, ma carico di fascino e di promesse:

Il problema dell’essere che Heidegger ci pone riporta all’uomo, poiché l’uomo è un ente che comprende l’essere. Ma, d’altra parte, questa comprensione dell’essere è essa stessa l’essere; non è un attributo, ma il modo di esistenza dell’uomo. Non si tratta di un’estensione puramente convenzionale della parola essere a una facoltà umana - in questo caso alla comprensione dell’essere -, ma della messa in rilievo della specificità dell’uomo i cui “atti” e le cui “proprietà” sono altrettanti “modi di essere”20.

19 F. Salvarezza, Emmanuel Lévinas, op. cit., p. 24. 20 ET, § 12, p. 78.

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71 Lévinas propone di «ritornare all’uomo» come Husserl andava «alle cose stesse». La comprensione dell’essere mette il soggetto a confronto con le sue possibilità: l’uomo infatti «non è caratterizzato dal fatto di avere delle possibilità, ma dal fatto di essere le proprie possibilità»21.

«”Essere nel mondo”», scrive il nostro autore, «è un modo di esistenza dinamico. Dinamico, in un senso molto preciso. Si tratta della δύναµις, della possibilità»22. Il filosofo lituano caldeggia un approccio «concreto e positivo»23 che si misuri nei modi dell’esistenza, nel rapporto con i mezzi del mondo, nella capacità, colta o mancata, di manipolarli e soprattutto, nella possibilità fondamentale di ritornare a noi stessi.

In questa nuova ottica, come scrive Esposito, «la fenomenologia deve pervenire ad un’autocomprensione, cioè deve diventare propriamente, autenticamente se stessa, per attingere a quel livello originario della “realtà” che ci appare come un dato talmente evidente - meglio: talmente evidente da sfuggire come ovvio presupposto ad ogni indagine»24. Schillaci considera la scelta di Lévinas, un approdo alla vita non più esclusivamente intellettuale, ma allo stesso tempo concreto e originario:

La comprensione implica, dunque, l’esistenza umana e la sua drammaticità. Il problema dell’essere si riconduce, secondo il nostro autore, all’uomo e al suo modo di esistere, poiché «l’uomo è un ente che comprende l’essere». La filosofia heideggeriana consente, quindi, di approfondire l’analisi fenomenologica sempre più legata alla vita e non ad un puro esercizio teorico. Lévinas coglie in fondo nel tentativo fenomenologico di Heidegger, il

21

EDE, p. 76.

22 EDE, p. 75. 23 Ibid.

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distanziamento dalla coscienza rappresentativa, per raggiungere attraverso l’interrogazione ontologica dell’essere (la domanda dell’essere) il mondo vitale dell’uomo25.

Il nostro autore orienta la fenomenologia attraverso l’analisi heideggeriana, giungendo a una scienza dell’essere, che fa a meno dell’accanimento teoretico: «l’esistenza dell’uomo è compresa da questa stessa esistenza, e non attraverso un atto di contemplazione, che si aggiungerebbe all’esistenza»26.

Emerge la prospettiva dell’effettività, introdotta da Heidegger: «la filosofia non si fa in abstracto», commenta Lévinas, «ma è possibile unicamente come possibilità concreta di un’esistenza»27. Secondo il punto di vista del filosofo tedesco, «l’essenza dell’uomo è nello stesso tempo la sua esistenza»28, «l’uomo esiste in modo tale che per lui ne va sempre della sua esistenza»29.

L’approccio del pensatore lituano alla filosofia heideggeriana non ignora toni esistenzialistici; egli è consapevole che l’autore di Essere e tempo «non amava che si attribuisse al suo libro questo significato esistenzialista. L’esistenza umana lo interessava in quanto “luogo” dell’ontologia fondamentale»; ma è anche vero, ricorda Lévinas, che «l’analisi dell’esistenza contenuta in questa opera ha segnato e determinato le analisi chiamate successivamente “esistenzialiste”»30.

Il filosofo lituano confessa di aver amato le pagine di Essere e tempo dedicate all’affettività: esse rischiarano «l’intenzionalità che anima lo stesso esistere e tutta

25 G. Schillaci, «Relazione senza relazione», op. cit., pp. 52-53. 26 EDE, p. 81. 27 Ibid. 28 Ibid. 29 EDE, p. 68, 30 EI, p. 61.

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73 una serie di “stati d’animo” i quali, prima della fenomenologia heideggeriana, erano considerati “ciechi”, semplici contenuti»31.

La Befindlichkeit o situazione emotiva ha un ruolo centrale nella teoria di Heidegger: rispolvera, in una veste ontologica, lo studio di «quella dimensione umana che nell’antropologia tradizionale è trattata dalla dottrina delle passioni»32. Gli “stati d’animo” acquisiscono un valore paradigmatico, in quanto determinazioni fondamentali dell’esistenza.

In questo modo si mette in questione il «privilegio accordato dall’antropologia tradizionale agli atti intellettivi superiori della razionalità», e si «suggerisce l’idea che anche quelli “inferiori” della sensibilità e dell’emotività siano essenziali per la comprensione della vita umana»33.

La situazione emotiva in cui l’Esserci si trova è l’essere «situato», l’«essere- gettato» nell’esistenza, che Lévinas descrive come condizione emblematica dell’uomo: l’«essere abbandonati e consegnati a noi stessi»34.

Il Dasein è destinato a muoversi in mezzo alle possibilità che gli sono state imposte. «L’esistenza si sa prima di ogni riflessione introspettiva», è già definita: non è possibile liberarsi dal peso dell’essere, dalla «derelizione»35, sebbene essa si trovi spesso dissimulata e dimenticata: «l’Esserci è già sempre emotivamente aperto», anche quando il soggetto non riconosce questo stato. «Che l’Esserci non “si ceda” quotidianamente a queste tonalità emotive, cioè non le segua in ciò che esse aprono e non si lasci condurre in cospetto di ciò che è in tal modo aperto», scrive

31 EI, p. 62. 32 In Glossario, ET, p. 584. 33 Ibid. 34 EDE, p. 78.

35 Lévinas usa la parola «Déreliction» per tradurre il termine tedesco «Geworfenheit» di Heidegger,

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74 Heidegger, «non costituisce una prova contro il dato fenomenico dell’apertura emotiva», «ma ne è piuttosto una conferma»36.

Il Dasein è «aperto» su se stesso anche nella «diversione evasiva»37: quando evita di venire in contatto con il suo “qui”, quando si disperde nella quotidianità anonima. La tendenza alla fuga e all’inautenticità appartiene alla dinamica dell’esistenza. Si arriva al paradosso di riuscire trovare se stessi attraverso un sentimento passivo, indeterminato e minaccioso, le cui prime avvisaglie si hanno nella scoperta di sentirsi «spaesati»: l’angoscia.

«Nell’angoscia il Dasein si comprende in modo autentico poiché è riportato alla nuda possibilità della sua esistenza, alla pura e semplice effettività, svuotata di ogni contenuto, al nulla di tutte le cose»38.

Questo porsi di fronte al proprio nulla somiglia all’atteggiamento di «curiosità inumana», che Kierkegaard attribuiva al vero cristiano: «osare di essere interamente se stesso, un singolo uomo, questo singolo uomo determinato, solo di fronte a Dio, solo in questo immenso sforzo, in questa immensa responsabilità»39.

Il filosofo danese, nelle sue «ricerche psicologiche all’ennesima potenza»40, come amava definirle, aveva avuto l’intuizione di una dialettica della disperazione, in cui era compresa una lotta titanica, per lo più inconsapevole, da parte dell’uomo, per essere ciò che non si è, per mantenere viva l’illusione dell’inautenticità.

36 ET,§ 29, p. 168.

37 Ibid. Scrive Heidegger a p. 169: «La situazione emotiva apre l’Esserci nel suo essere-gettato e,

innanzitutto e per lo più, nella forma della diversione evasiva».

38 EDE, p. 84.

39 S. Kierkegaard, La malattia mortale, Oscar Mondadori, Milano 2006, p. 4. Heidegger riconosceva

Kierkegaard tra i suoi maestri: «Compagno nel mio cercare fu il giovane Lutero e modello Aristotele, che quello odiava. Alcuni impulsi me li diede Kierkegaard, e gli occhi me li ha aperti Husserl», cit. da F. Volpi, Prefazione, in Guida a Heidegger, Laterza, Roma-Bari 1997, p. XIII.

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75 Secondo la sua visione, ciò che il singolo tentava con tutte le sue forze di nascondere alla propria consapevolezza, era «il tormento di non potersi liberare da se stesso»41. Kierkegaard considerava l’evasione come un espediente, come una finzione; scriveva infatti: «è proprio una forma di disperazione quella di non essere disperato, di non essere consapevole di esserlo»42: «la disperazione stessa è una negazione, l’ignorarla è una nuova negazione»43.

L’unica via d’uscita legittima, agli occhi del filosofo danese, era la fede: la certezza che a Dio fosse possibile ogni cosa, anche sciogliere le contraddizioni dell’uomo. La filosofia di Heidegger sembra riproporre la stessa dialettica: il concetto di angoscia è l’antidoto contro la disperazione kierkegaardiana: «la libertà di scegliere e possedere se stesso»44, non tanto di fronte a Dio, ma presso il mondo.

Nell’angoscia, scrive il filosofo tedesco, «l’Esserci resta isolato, spaesato, ma lo è come essere-nel-mondo»45. L’uomo scopre «l’autenticità del suo essere in quanto possibilità che esso è già sempre. Ma questo essere è in pari tempo quello a cui l’Esserci è consegnato in quanto essere-nel-mondo»46. L’apertura dell’Esserci verso la propria esistenza, l’«aperturalità» come dimensione dell’essere esposti al mondo, elogiata dal giovane Lévinas e paragonata a una forma di trascendenza, rivela a tratti in Heidegger, le caratteristiche di un circolo chiuso.

41 Ibid., p. 20.

42 Ibid., p. 24. Con toni da poeta romantico, che si lamenta per la condizione derelitta dell’umanità,

Kierkegaard scrive (p. 29): «Mi sembra di poter piangere per un’eternità pensando che esiste questa miseria! Ah, e poi si presenta al mio pensiero un altro aspetto orrendo di questa malattia e miseria, la più terribile di tutte: la sua occultezza; non solo per il fatto che chi ne soffre possa desiderare di nasconderla e anche riuscirci, possa essa abitare in tale forma che nessuno, nessuno lo scopra, no, che essa possa essere talmente nascosta in un uomo che egli stesso non ne sappia niente!».

43

Ibid., p. 49.

44 ET, pp. 229. 45 Ibid., p. 230. 46 Ibid., p. 229.

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76 Il Dasein, come scrive Ciglia, si colloca «in una posizione fondante rispetto al mondo [...] e alla totalità degli utensili» che rinviano ad esso e che non hanno «alcuna consistenza ed alcun senso all’infuori di questo rinvio»47. L’uomo è il fine in vista di cui i mezzi esistono e in vista di cui sono anche lo spazio e il tempo.

Nel saggio di Lévinas del ‘32 non è ancora presente una critica a questo aspetto autoreferenziale e non è affrontato il tema dell’intersoggettività, che costituirà, in seguito, la via scelta da Lévinas per abbandonare l’esistenzialismo heideggeriano. In Essere e Tempo, il rapporto con gli altri uomini si situa nella cornice del mondo inautentico: il tempo dell’autenticità è sempre il tempo dell’individuo isolato.

A questa visione il nostro autore riuscirà a contrapporre in seguito, Il tempo e l’Altro, un’opera che forse non sarebbe stata possibile, se non come ribellione di un discepolo verso un maestro un tempo stimato, il cui pensiero annunciava l’apertura e la responsabilità verso l’essere e verso se stessi, ma il cui grande acume non era servito a evadere da una filosofia egologica, né a rispondere della sorte tragica dell’altro uomo48.

2. Nell’“incrocio teoretico” tra Husserl e Heidegger: la questione dell’intersoggettività

Lévinas può essere considerato nel novero di quei pensatori che si sono formati, come scrive Cristin, «all’ombra dell’incrocio teoretico»49 tra Husserl e Heidegger.

47 F.P. Ciglia, Un passo fuori dall’uomo, op. cit., p. 36.

48 Cfr. EI, p. 63. Nell’intervista, Lévinas dice di considerare Heidegger responsabile delle sue scelte

politiche. Ritiene Essere e Tempo un’opera valida e il suo autore un grande filosofo, benché «secondo me», scrive, «non si sia mai discolpato dalla sua partecipazione al nazionalsocialismo».

49 E. Husserl, M. Heidegger, Fenomenologia. Storia di un dissidio, a cura di R. Cristin, Unicopli,

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77 Nel ricostruire la storia del dissidio tra i due filosofi sono state privilegiate diverse tematiche di confronto: tra queste, la più carica di conseguenze è la critica al soggetto trascendentale.

Il contrasto tra l’intellettuale maturo, all’apice della carriera accademica e il suo discepolo più brillante si consuma nel 1927, anno della pubblicazione di Essere e Tempo e dell’ultimo episodio di collaborazione, la redazione della voce «Fenomenologia» per l’Encyclopaedia Britannica. Dopo questi eventi, la collisione di idee non sembrò più sanabile: Husserl si rese conto che era ormai inutile considerare Heidegger l’erede del suo pensiero, sebbene quest’ultimo fosse destinato a sostituirlo, due anni dopo, nella cattedra a Friburgo.

Le accuse più frequenti che Heidegger muoveva al suo maestro erano quelle che anche Lévinas prende in prestito, di «teoreticismo» e di «trascendentalismo», mentre Husserl, da parte sua, accusava il discepolo di «antropologismo».

Cristin ha ripercorso la vicenda, evidenziando come non sia mai avvenuta tra i due filosofi una rottura definitiva, ma neanche un dialogo esaustivo e risolutore.

Il fulcro attorno a cui ruotavano le polemiche era il procedimento dell’epoché: l’intento da parte dell’inventore della fenomenologia di approdare a una soggettività pura, «demondificata», mentre l’autore di Essere e Tempo incentrava la sua ricerca proprio sull’«essere-nel-mondo».

Il mondo per Heidegger era il presupposto della comprensione del Dasein: «L’Esserci è ciò che è in quanto essere-nel-mondo»50; la riduzione trascendentale descritta da Husserl prevedeva, invece, una programmatica esclusione dell’atteggiamento naturale:

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L’epoché universale [...] esclude dal campo fenomenologico il mondo semplicemente essente per il soggetto in questione, e al suo posto subentra il mondo presente alla coscienza in maniera determinata «come tale», il «mondo fra parentesi» (il mondo percepito, ricordato, giudicato, pensato, valutato, ecc.) o, il che è lo stesso, al posto del mondo (ovvero della singola cosa meramente mondana) subentra il singolo senso della coscienza nei suoi diversi modi (senso della percezione, senso del ricordo, ecc.)51.

Il filosofo di Essere e tempo non condivideva il bisogno di astrarre, di mettere il soggetto “sotto vetro”, di analizzarlo “chirurgicamente”, al di là delle sue determinazioni esistenziali; non riconosceva all’ego puro ricavato attraverso il procedimento fenomenologico alcun elemento che potesse rendere conto di ciò che l’uomo è nella sua concretezza.

Nella lettera indirizzata a Husserl, datata 22 ottobre 1927, nel tentativo ancora aperto di portare a buon fine la collaborazione per la stesura della voce «Fenomenologia», Heidegger ricorda al maestro, che l’uomo «non è mai solo semplicemente presente, ma esiste»52 e che quindi, non si può prescindere dalla sua esistenza. Essa non è un semplice sfondo in cui il soggetto si muove, ma è ciò di cui e per cui l’io vive, in cui è coinvolto. L’Esserci è «l’ente che io stesso sempre sono»53, e come tale deve divenire la nuova finalità della ricerca fenomenologica. «Cartesio, a cui si attribuisce con la scoperta del cogito sum l’avvio della problematica filosofica moderna, indagò entro certi limiti il cogitare dell’ego. Per

51 E. Husserl, Fenomenologia, in Fenomenologia. Storia di un dissidio (1927), op. cit. p. 86. Si tratta

del testo per la voce «Fenomenologia», inviata da Husserl nel febbraio 1928 a Salmon, curatore per conto dell’Encyclopaedia Britannica. La traduzione del testo in inglese non è molto fedele.

52 Ibid., p. 76. 53 ET, § 12, p. 73.

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79 contro», scrive il pensatore tedesco, «lasciò del tutto indiscusso il sum, benché lo presenti non meno originario del cogito»54.

Lévinas, nel saggio del ’32, afferma che Essere e Tempo si colloca «in modo molto caratteristico in rapporto alle due possibilità [...] di comprendere il soggetto, quella gnoseologica e quella ontologica»55; secondo il nostro autore questo testo assume un compito centrale nella storia del pensiero: «In un certo senso, Heidegger prosegue l’opera di Platone cercando il fondamento ontologico della verità e della soggettività, ma tenendo conto, in modo dettagliato, di tutto ciò che la filosofia, a partire da Descartes, ci ha insegnato sul posto eccezionale occupato dalla soggettività nell’economia dell’essere»56.

La questione che il filosofo tedesco ha posto ai pensatori del suo tempo è stata: «La teoria della conoscenza non rientra nell’ontologia?», la conoscenza non fa parte della categoria più ampia dell’esistenza?57. Non si può mettere “tra parentesi” l’esistenza dell’uomo, né il suo coinvolgimento nel mondo, ai fini di ottenere una conoscenza assoluta, senza il rischio di perdere l’uomo stesso.

Husserl, invece, riteneva che Heidegger avesse sopravvalutato gli elementi mondani, nella sua ricerca delle “origini”, dimenticando la priorità delle essenze: a suo giudizio, il discepolo aveva svilito il valore teoretico della fenomenologia, definendo l’ente attraverso tratti antropologici troppo marcati e concetti filosoficamente oscuri, che non consentivano di portare avanti una descrizione della coscienza rigorosamente scientifica. Il filosofo delle Ideen non negava l’importanza della sfera umana storicamente determinata: riconosceva l’importanza della 54 ET, § 10, p. 65. 55 EDE, pp. 61-62. 56 Ibid. 57 Cfr. Ibid.

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80 dimensione naturale in cui l’uomo è destinato a vivere. Scriveva: «Io trovo costantemente alla mano, di fronte a me, l’unica realtà spazio-temporale, a cui appartengo io stesso e appartengono tutti gli altri uomini, che si trovano in essa e a essa si riferiscono nel mio medesimo modo. Io trovo la «realtà» [...] come esistente e la assumo come esistente, così come essa mi si offre»58.

Ma la «porta d’ingresso della fenomenologia» è situata da un’altra parte, oltre questa dimensione ovvia e conosciuta: «Invece di rimanere in questo atteggiamento, noi vogliamo mutarlo radicalmente»59. Husserl riteneva che il modo di esperire facile e originario dovesse essere superato. «Si tratta ora di persuadersi della possibilità di principio di questo mutamento»60.

«Nella riflessione naturale della vita comune [...] noi stiamo sul piano del mondo dato come esistente», mentre «nella riflessione fenomenologico-trascendentale noi abbandoniamo questo piano in virtù della universale epoché sull’esistenza o non-esistenza di questo mondo»61. Se Heidegger non accettava il ribaltamento operato dal dubbio, la possibilità di revocare la certezza dell’esistenza, annullava il presupposto stesso della fenomenologia.

«Chi tenta di dubitare cerca di mettere in dubbio ogni “essere”»62, scriveva l’autore delle Ideen. Secondo il principio di non-contraddizione, «non possiamo nello stesso tempo mettere in dubbio e tenere per certa la medesima materia di essere»63. Questo non significava, da parte di Husserl, rifiutare l’esistenza: «essa sussiste sempre, come ciò che è stato messo tra parentesi sussiste ancora dentro le parentesi,

58 Ideen I, § 30, p. 67. 59 Ideen I, § 31, p. 67. 60 Ibid. 61 MC, § 15, p. 64. 62 Ideen I, § 31, p. 68. 63 Ideen I, § 31, p. 69.

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81 o come ciò che è stato messo fuori circuito sussiste ancora fuori del circuito»64. Si può scegliere se decidere di entrare attraverso la porta stretta della fenomenologia, o se rimanere fuori da questo metodo.

Lévinas, arrivato al bivio, non compie la scelta definitiva per l’uno o per l’altro filosofo. Sebbene nel suo orientamento sembrino prevalere i motivi heideggeriani, egli mantiene una viva ammirazione per la prospettiva fenomenologica, per il suo taglio unico e rigoroso. Nell’intervista di Etica e infinito, egli la descrive in questi termini:

Una riflessione radicale, centrata su di sé, un cogito che si cerca e si descrive senza farsi ingannare da nessuna forma di spontaneità, da nessuna presenza già data; con una diffidenza ancora maggiore nei confronti di ciò che si impone naturalmente al sapere [...]. Bisogna sempre risalire all’intero orizzonte dei pensieri e delle intenzioni che mirano all’oggettività, ma che sono da essa offuscati e fatti dimenticare. La fenomenologia è il richiamo a questi pensieri, a queste intenzioni scordate; piena coscienza, ritorno alle intenzioni sottointese - fraintese – del pensiero che è al mondo. Riflessione completa necessaria alla verità, anche se il suo esercizio concreto significava farne emergere i limiti65.

In un’intervista dell’87, ricostruendo il suo percorso, Lévinas ridimensiona l’importanza degli scritti accademici, incentrati sul commento e sulla interpretazione delle teorie di Husserl e di Heidegger66. Tuttavia numerose sono le eredità che il

64 Ibid.

65 EI, pp. 55-56.

66 Cfr. Poiré, p. 100-101. Lévinas afferma che il suo pensiero è connotato da un interesse prevalente

verso la socialità e riduce il valore della tematica fenomenologica: «Je ne pense pas que mes réflexions aient pu jamais s’éloigner de l’humain essentiel et, sous un vocabulaire différent, traiter d’autre chose que du social. Tant pis pour l’accueil de la presse. Mais les gens se souvenaient toujours de ma spécialité phenomenologique, attestée par ce petit livre, la Théorie de l’intuition dans la

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82 nostro autore riceve dai suoi maestri, anche inconsapevolmente. Confrontando le argomentazioni dei due filosofi tedeschi sul tema dell’intersoggettività, ci si rende conto che il concetto dell’alterità come trascendenza è un retaggio più husserliano che heideggeriano.

Nella visione di Husserl, come si evince dalla quinta Meditazione cartesiana, di cui, come abbiamo ricordato, Lévinas fu il traduttore, l’«altro uomo» si mostra fenomenologicamente come analogo del mio io, ma conserva, nonostante le sembianze di alter ego, la sua «irraggiungibile originalità»67. Nelle Ideen gli altri sono concepiti come «soggetti egologici», «monadici», pensabili attraverso il paragone con la «monade» che io sono, ma si differenziano dall’io perché hanno un altro punto di vista da cui guardare il mondo:

Ciascuno ha il suo luogo da cui vede le cose alla mano e conformemente al quale ciascuno ha manifestazioni diverse delle cose. Allo stesso modo, diversi sono per ciascuno gli attuali campi percettivi, memorativi, ecc., prescindendo poi dal fatto che anche ciò di cui si ha intersoggettivamente una coscienza comune è dato alla coscienza secondo modalità diverse, secondo diversi modi di apprensione, secondo diversi gradi di chiarezza68.

Il soggetto si trova definito dal suo orizzonte egocentrico, ma in un certo senso l’io è anche «relativizzato», dal momento che l’altro uomo si caratterizza come diverso angolo di orientazione rispetto a me; ha un suo modo peculiare di guardare il mio ego e di considerarlo.

67 MC, p. 134. 68 Ideen I, § 29, p. 66.

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83 Nonostante le differenze, ammette Husserl: «Noi ci intendiamo con i nostri simili e poniamo insieme una realtà oggettiva spazio-temporale, quale mondo circostante che esiste per tutti e a cui noi stessi apparteniamo»69. Scrive ancora: «Concepisco il loro e il mio mondo circostante come un solo e medesimo mondo oggettivo, che si diversifica soltanto nel modo con cui giunge alla coscienza di ciascuno di noi»70. La posizione di Heidegger sull’argomento è per certi versi, opposta: gli altri sono coloro da cui «non ci si distingue»71. Inoltre, il con-Esserci, l’essere insieme agli altri, è una situazione originaria, e non frutto di una scoperta fenomenologica: non è dato un soggetto senza mondo e non esiste un soggetto isolato; «il mondo è già sempre quello che io con-divido con gli altri. Il mondo dell’Esserci è con-mondo»72. L’alterità è una struttura esistenziale; a causa del nostro essere immersi nel mondo ci troviamo a condividere con altri la spazialità. «Il con-essere determina esistenzialmente l’Esserci anche qualora, di fatto, l’altro non sia né presente né percepito. Anche l’esser-solo dell’Esserci è un modo di con-Essere nel mondo»73. Sia dato un uomo su un’isola deserta, o si faccia l’ipotesi della distruzione del mondo e di un unico individuo sopravvissuto, anche per lui, anche in questo caso, varrebbe il con-esserci come dimensione originaria.

La nostra esistenza è condizionata dall’esistenza degli altri, incontrati anche e per lo più, nella forma difettiva dell’indifferenza.

L’abitudine a vivere insieme si manifesta nei caratteri della «non-sorpresa» e nell’«ovvietà»74, scrive Heidegger: il rapporto intersoggettivo appare una realtà

69 Ibid. 70 Ibid. 71 ET, § 26, p. 149. 72 Ibid. 73 ET, § 26, p. 151. 74 ET, § 26, p. 153.

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84 risaputa e priva di novità. A questo aspetto, Lévinas, nella sua opera matura, opporrà l’epifania del volto altrui, come mistero e luogo di rivelazione, evento metafisico che domina il soggetto, lo risveglia e mette alla prova la sua responsabilità.

Anche il filosofo di Essere e Tempo parlava di dominio dell’altro, ma a suo avviso si trattava di una condizione negativa, in quanto essere «in vista di» qualcun altro significava non essere più se stessi: «L’Esserci, immedesimato col mondo di cui si prende cura e rapportantesi agli altri su questa base, non è se stesso»75.

Il mondo condiviso, secondo la prospettiva di Heidegger, è un orizzonte spersonalizzante; come lasciar decidere del proprio destino alle folle e alle masse anonime, prevalgono il «si fa», il «si dice», i giudizi del senso comune, dimensioni che l’autore definisce «mondo inautentico del Si»: un «livellamento di tutte le possibilità di essere»76.

Il filosofo tedesco descrive questa «medietà» che rende conto «di ciò che si conviene, di ciò che si accetta e di ciò che si rifiuta, di ciò a cui si concede credito e di ciò a cui lo si nega»77. Essa «sorveglia ogni eccezione che si fa innanzi. Ogni primato è silenziosamente livellato. Ogni originalità è subito dissolta nel risaputo, ogni grande impresa diviene oggetto di transazione, ogni segreto perde la sua forza»78.

La potenzialità minacciosa di questa voce anonima consiste nel fatto che «essa regola innanzi tutto ogni interpretazione del mondo e dell’Esserci», 79 pretende di aver sempre ragione, si autolegittima con l’argomento tautologico del consenso: «le

75 ET, § 26, p. 157. 76 ET, § 27, p. 159. 77 Ibid. 78 Ibid. 79 Ibid.

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85 cose stanno così, perché così si dice»80: lo dicono tutti in generale e nessuno in particolare. L’individuo è sovrastato e stordito dalla chiacchiera, dalla curiosità e dall’equivoco, che lo privano del peso dell’Essere e lo legano a una condizione di «decadimento»: l’Esserci, dimenticando se stesso, tende «a perdersi in ciò che incontra nel mondo-ambiente di cui si prende cura o nel mondo degli altri di cui ha cura»81. Il Si che «ha sempre anticipato ogni giudizio e ogni decisione, sottrae ai singoli Esserci ogni responsabilità»82.

La filosofia matura di Lévinas, al contrario, demanda alla chiamata dell’altro uomo l’inizio di ogni responsabilità. La teoria dell’intersoggettività del nostro autore può essere considerata un ribaltamento della versione heideggeriana in chiave etica: l’altro non mi priva del mio io, ma è capace di destarlo.

«Il legame con altri si stringe» secondo il filosofo lituano, «soltanto come responsabilità, sia che essa venga accettata o rifiutata, sia che si sappia o no come assumerla, sia che si possa fare o no qualcosa di concreto per altri»83. La soggettività consiste nell’essere preda, ostaggio di altri.

«Sono io a sopportare altri, ad esserne responsabile»84: questa «soggezione totale», questo «aver cura» incondizionato è un’elezione, che Lévinas paragona alla primo-genitura: significa essere responsabili per primi e per nascita, senza poter cedere questo diritto. «Di fatto si tratta di dire l’identità stessa dell’io umano a partire dalla responsabilità, cioè a partire da questa posizione o da questa deposizione dell’io

80 ET, § 35, p. 207.

81Glossario in ET, p. 608. La traduzione di Chiodi preferisce rendere il termine tedesco «Verfallen»

con «deiezione», anche se in italiano è più chiara l’espressione «decadimento».

82 Ibid. 83 EI, p. 97. 84 EI, p. 99.

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86 sovrano nella coscienza di sé: deposizione che è proprio la sua responsabilità per altri»85.

La «deiezione», lo stato di caduta dal proprio Essere, secondo il nostro autore, avviene, non tanto a causa di altri, ma per gli altri, che privandomi di un ego totalizzante, mi restituiscono la dimensione della mia umanità. «La responsabilità è ciò che mi incombe in modo esclusivo e che, umanamente, io non posso rifiutare»86. Rinunciare al predominio del cogito, in questa ottica, non è una perdita, ma diviene un guadagno di Essere. Mentre Heidegger riferiva la responsabilità esclusivamente al proprio Esserci, Lévinas la orienta come «risposta» a autrui: come intenzionalità rivolta all’altro uomo, che, portatore di una domanda di aiuto a cui solo io posso rispondere, non è d’ostacolo alla mia autenticità, ma ne diviene la sola condizione. «Io sono io soltanto nella misura in cui sono responsabile. Io posso sostituirmi a tutti, ma nessuno può sostituirsi a me: è questa la mia inalienabile identità di soggetto»87: nessuno può sostituirsi a me nel sostenere lo sguardo che l’altro mi rivolge.

La filosofia di Husserl può aver influenzato, attraverso gli elementi dello sguardo e del punto di vista, la teoria lévinassiana dell’intersoggettività.

I protagonisti dello sguardo, nelle Meditazioni cartesiane, sono determinati dalla localizzazione che assumono: il mio «qui» non coinciderà mai con la posizione dell’«essere là», da cui l’altro uomo mi guarda.

Ognuno mantiene il suo punto di vista: «Se dirigo la mia comprensione verso l’altro uomo e mi addentro nel suo orizzonte di proprietà, [...] mi accorgo del fatto che egli in generale mi esperisce come un altro per lui, così come io lo esperisco

85 Ibid. 86 Ibid. 87 Ibid.

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87 come altro per me»88. Secondo l’inventore della fenomenologia vi è sempre uno scarto che impedisce l’identificazione completa dell’altro con lo stesso, sebbene il rapporto sia dato a partire da una familiarità, da un’associazione che si produce «entro la mia sfera di appartenenza»89, «come se» io fossi l’altro.

Vincenzo Costa spiega bene questo passaggio: «Che l’altro sia come me non significa che vive ciò che vivo io, ma che è analogo a me, che posso trasferire il termine ego da me a lui» attraverso un’analogia di tipo trascendentale: «Le espressioni della sua corporeità sono per me segni della sua vita di coscienza, ma questa mi resta inaccessibile e – per principio – non intuibile: se lo fosse, non sarebbe più alterità, ma parte del mio flusso di coscienza»90.

La monadologia husserliana evidenzia la separazione psicofisica del mio io da quello altrui: gli altri «sono per sé proprio come io sono per me»91, ciò che essi hanno in comune con me è il fatto di esperire in prima persona, di essere menti, ma io ignoro i loro contenuti di pensiero: sono coscienze che percepisco solo dall’esterno e non dall’interno. Secondo Costa, Husserl mantiene una separazione netta tra il cogito del mio ego e quello altrui: cerca di «tracciare una differenza di struttura tra ciò che è vissuto in prima persona e ciò che viviamo in maniera indiretta, non originaria, e cioè il vissuto dell’alter ego»92.

Lévinas va a fondo in questa direzione, radicalizzando il motivo dell’estraneità e negando anche la possibilità dell’appresentazione analogica, teorizzata da Husserl:

88 MC, § 56, p. 148. 89 MC, § 55, p. 143.

90 V. Costa, L’esperienza dell’altro: per una fenomenologia della separazione, in Passive Synthesis

and Life-world. Sintesi passiva e mondo della vita, a cura di A. Ferrarin, ETS, Pisa, 2006, pp.

109-125, cit. p. 121.

91 MC, § 56, p. 147.

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88 non è concesso percepire l’altro come se io fossi al suo posto, poiché l’alterità è incolmabile e assoluta.

Il rapporto intersoggettivo si fonda sull’asimmetria: «Altri resta infinitamente trascendente, infinitamente estraneo»93. Il nostro autore rifiuta «l’armonia prestabilita» tra le monadi, non prevede che l’io e l’altro siano integrati attraverso il pensiero. Autrui non può essere inquadrato come punto di vista; ciò che manca nel rapporto a due è proprio la presenza di un punto di vista, perché viene meno il cogito stesso che la rende possibile.

Lo sguardo, in Lévinas, è un orizzonte di disuguaglianza: «La parola non si instaura in un ambiente omogeneo ed astratto», scrive l’autore in Totalità e Infinito, «ma in un mondo in cui bisogna soccorrere e dare»94, in uno spazio di squilibri, e non di conciliazioni teoretiche; l’altro è sempre colui che comanda, e io sono sempre colui che è comandato.

«La sporgenza inesauribile dell’infinito eccede l’attualità della coscienza»95, il volto altrui è molto più forte di un pensiero e sfugge all’impostazione trascendentale; «questo scintillio dell’infinito o volto non può più essere detto in termini di coscienza, in metafore che si riferiscono alla luce o al sensibile»96, non può essere inquadrato in termini di rappresentazione. L’esigenza etica del volto «mette in questione la coscienza che l’accoglie [...]. Strappa la coscienza dal suo centro, sottomettendola ad Altri»97.

93 TI, p. 199.

94 TI, p. 221. «La molteplicità nell’essere che sfugge alla totalizzazione, ma si delinea come fraternità

e discorso, si situa in uno “spazio” essenzialmente asimmetrico».

95 TI, p. 212. 96 Ibid. 97 Ibid.

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89 Lo stesso Husserl aveva previsto che l’esperienza trascendentale potesse avere dei limiti, che si potesse verificare, nella percezione del mondo esterno, il caso di intenzionalità non riempite dall’evidenza, ma non era arrivato a sconfessare la prospettiva dell’io puro, che rimaneva il cardine della sua filosofia: il senso dell’oggetto è dato come possibilità, in quanto sorge e si costituisce nell’ego98. L’autore della fenomenologia arrivò a confrontarsi con il tema dell’intersoggettività per difendersi dall’accusa di solipsismo, ma, in fondo, non rinunciò mai alla prospettiva del solus ipse.

Anche nel tracciare un percorso che va oltre il soggetto, la sua ricerca si sviluppa come possibilità di pervenire agli altri a partire dall’ego assoluto99:

La fenomenologia universale si dà come una autoesplicazione sistematica che mostra in maniera sistematica come l’ego si costituisca come l’essere in sé e per sé della sua propria essenza. In secondo luogo, poi, la fenomenologia universale si presenta come autoesplicazione in un senso ampliato, per cui si vede come l’ego, in virtù della sua propria essenza costituisca in sé anche un altro, un essere oggettivo e anche tutto ciò che per lui ha mai valore d’essere come non-io posto nell’io100.

Il percorso husserliano si differenzia da quello di Heidegger in quanto l’essere-con gli altri non è una struttura preliminare, ma una conquista a cui si accede in seguito

98 Cfr. MC, § 41, p. 107. «Ogni senso, ogni essere immaginabile, che si dica immanente o

trascendente, cade entro la cerchia della soggettività trascendentale come quella che costituisce il senso e l’essere».

99 L’ego rimane la premessa assoluta della filosofia husserliana. A. Ferrarin scrive nell’Introduzione a

Passive Synthesis and Life-world, op. cit., p. 17: «It seems to me that Husserl’s position on

intersubjectivity does not change. In the fifth Cartesian Meditation I arrive at other egos like me through analogical appresentation; here, too the absolute premise is an original I, and not an original we».

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90 all’astrazione filosofica compiuta dalla coscienza: l’intersoggettività si svela solo alla fine. Occorre perdere il resto del mondo per poi guadagnarlo.

Nel passo finale delle Meditazioni cartesiane, Husserl cita Agostino: «Noli foras ire, in te redi, in interiore homine habitat veritas»101: non andare fuori, rientra in te stesso, nell’intimo dell’uomo risiede la verità. Sono parole che traggono ispirazione dal Vangelo di Matteo: «Qual vantaggio infatti avrà l’uomo se guadagnerà il mondo intero, e poi perderà la propria anima?»102. Per il filosofo cristiano si trattava di dare il primato all’interiorità dell’uomo, mentre per l’autore della fenomenologia questa citazione serviva a ribadire la priorità del cogito.

«La scienza positiva è scienza nell’abbandono al mondo», scrive ancora Husserl. «Si deve prima perdere il mondo mediante l’epoché per riottenerlo poi con l’autoriflessione universale»103: la fenomenologia è un esperimento mentale che tenta di comprendere, attraverso l’ottica trascendentale, la coscienza dell’altro: astrarre dagli altri, da tutto ciò che appartiene alla soggettività altrui, per studiare la «possibilità per il mio ego, di costituire, al di dentro della sua appartenenza qualcosa di veramente estraneo»104.

Per trovare l’estraneo occorre prima, paradossalmente, ritrarsi in se stessi, «delimitare la sfera del mio proprio»105. La riduzione non è intesa come un restringimento; il termine deriva dal latino reduco e suggerisce l’atto del ricondurre, del riferire tutti i vissuti all’unità della coscienza.

Il campo si fa più nitido e l’attenzione si concentra sull’orizzonte del mio proprio: attraverso l’epoché scopro il Leib, il corpo organico, quello su cui ho potere, non il

101 Agostino, De vera religione, XXXIX, 72. 102

Mt, 16, 26.

103 MC, § 64, p. 172. 104 MC, § 44, p. 117. 105 MC, § 44, p. 118.

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91 corpo fisico (Körper) che sfugge al mio controllo, ma «la sola e unica cosa in cui io direttamente governo e impero, dominando singolarmente in ciascuno dei suoi organi»106, la determinazione interna attraverso cui percepisco le mie possibilità: l’io posso.

Conscio di me stesso, come ego trascendentale universale e assoluto, in un secondo momento scopro l’intenzionalità e la trascendenza, che è «una parte determinante del mio proprio essere concreto»107. Il fatto di non poter approdare immediatamente alla comprensione dell’altro accresce la consapevolezza della sua estraneità: se «il proprio essenziale dell’altro si potesse attingere in maniera immediata e diretta, egli allora non sarebbe che un momento della mia propria essenza e in conclusione egli stesso e io saremmo un’unica cosa»108.

L’estraneo non è esperito immediatamente come uomo, egli dev’essere prima “addomesticato”, reso presente in quanto «altro corpo» simile al mio. Viene approntata un’«appercezione di rassomiglianza» dalla mia monade a un’altra monade, un trasferimento di senso dall’ego all’alter ego. «L’atto dell’identificazione consiste nello spostare il senso tra i dati accoppiati, cioè nell’appercepire l’uno secondo il senso dell’altro»109.

L’analogia riscontrata tra il mio corpo e l’altrui non è frutto di un ragionamento, si tratta di un’attività elementare della coscienza. Consiste nel richiamare «l’aspetto che avrebbe il mio corpo, se io fossi là»110, nel luogo dell’altro. L’intenzionalità dell’altro si forma nella mia sfera di appartenenza, ma trascende la mia proprietà. Percepisco

106 MC, § 44, p. 119. 107 MC, § 48, p. 127. 108 MC, § 50, p. 129. 109 MC, § 51, p. 133. 110 MC, § 54, p. 137.

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92 l’estraneo a partire da me, ma esso non mi appartiene111: posso associarlo al mio ego, appresentare me stesso «come se fossi là»112, ma mi è impossibile prendere il suo posto.

L’interiorità altrui mi è ignota, mi trovo davanti al «corpo di un’anima che non posso per principio cogliere originaliter»113, a un’unità psicofisica che non è sotto il mio dominio.

Lévinas nell’approdare al tema dell’etica, tenderà a ribadire l’impermeabilità dell’altro al mio volere, dualità che rimane imprescindibile, ad esempio nel rapporto tra padre e figlio: «l’alterità del figlio non è quella di un alter ego. La paternità non è una simpatia grazie alla quale io posso mettermi al posto del figlio»114. Prevale il principio di distinzione, piuttosto che quello di identificazione. La separazione diviene il presupposto di un radicale essere-per-l’altro.

L’altro, secondo Husserl, è innanzitutto, un punto di vista diverso sul mondo, non occupa lo spazio dell’io, ma è in contatto con le altre monadi in quanto abitano un orizzonte temporale comune, «l’insieme delle monadi, il loro “mero essere in pari tempo” significa una contemporaneità essenziale e quindi anche la loro realizzazione temporale sotto la forma della temporalità reale»115.

Lévinas coglie l’intuizione husserliana del tempo condiviso e porta alle estreme conseguenze l’intuizione dell’alterità: «La relazione con l’altro non è un’idillica ed armoniosa relazione di comunione, né una simpatia grazie alla quale, mettendoci al

111 Cfr., MC, § 55, p. 143. 112 MC, § 54, p. 138. 113 MC, § 55, p. 143. 114

E. Lévinas, Temps et l’Autre, in AA.VV., Le Choix, Le Monde, L’existence, «Cahiers du Collège Philosophique», B. Arthaud, Paris-Grenoble 1947, pp. 125-196, tr. it. Il tempo e l’Altro, a cura di F.P. Ciglia, Il melangolo, Genova 2001, cit. p. 60; d’ora in poi TA.

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93 suo posto, lo riconosciamo come simile a noi ma esterno a noi; la relazione con l’altro è una relazione con un Mistero»116.

Il nostro autore segue Husserl iniziando il suo percorso dalla solitudine dell’io per approdare alla socialità. Con la differenza di un approccio non più trascendentale, né teoretico. Nella «filosofia della comunione» di Heidegger, invece, come riconosce Lévinas, si procede in modo inverso: la socialità è un punto di partenza, da cui si perviene alla solitudine. «È in termini di solitudine che viene condotta l’analisi del Dasein»117. Il nostro filosofo, dunque, accetta l’orientamento husserliano, «a partire da sé, verso altri»118 e raccoglie l’idea di una condivisione, che si realizza attraverso il tempo.

Un tempo che non è quello inautentico del Si, caratterizzato dall’ovvietà e dall’irresponsabilità, ma la proiezione «assolutamente sorprendente» dell’avvenire119.

Non si tratta di una temporalità accessibile all’individuo isolato; «la relazione con l’avvenire è la relazione stessa con l’altro. Parlare di tempo in un soggetto solo», scrive Lévinas nell’opera Il tempo e l’altro, «parlare di una durata puramente individuale ci sembra impossibile»120. L’avvenire è la misura dell’infinito, del trascendente, dell’alterità: «Ciò di cui non è possibile appropriarsi in nessun modo»121. «Abbiamo caratterizzato questo evento come mistero», scrive l’autore,

116 AT, p. 46. 117 P. 62. 118 TI, p. 220. 119 Cfr. p. 46. 120 Ibid. 121 Ibid.

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94 «proprio perché non era possibile anticiparlo, cioè impadronirsene»122, neanche con il pensiero.

L’esperienza intersoggettiva, nella fase matura del pensiero di Lévinas, non si qualifica come esperienza rassicurante che gratifica il potere dell’io di controllare i suoi vissuti, non si arresta alla coscienza che io ho dell’altro, ma intacca il cogito stesso. L’apparizione dell’alter ego decentra il soggetto, secondo conseguenze già prevedibili e latenti nella filosofia di Husserl.

Si comprende bene l’appunto che il filosofo lituano fa spesso all’inventore della fenomenologia, di non aver sviluppato fino in fondo le sue preziose intuizioni. Anche Costa accenna al potenziale nascosto nella teoria dell’intersoggettività di Husserl: «Nella misura in cui si costituisce un alter ego si modifica quindi anche la coscienza che ho di me. Il mio “qui” cessa di essere il luogo privilegiato dello spazio, il suo punto-zero. Il mio “qui-ora” si costituisce adesso a partire da e insieme a un “ora-là”»123. La sfera del mio proprio si dis-orienta a favore di un altro centro di orientazione. Nascono le premesse per un io diverso, che in Lévinas non è più un cogito ma un sum, secondo le indicazioni di Heidegger e che, a differenza di Heidegger, non esisterà più per se stesso, ma per gli altri.

3. L’opera di Edmund Husserl come filosofia della libertà

Ritornando al percorso di Lévinas scandito in modo cronologico, in un saggio del ’40, intitolato L’opera di Edmund Husserl, si percepisce la necessità di valutare positivamente gli esiti della fenomenologia, al di là delle carenze messe in rilievo da

122 AT, p. 47.

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95 Heidegger. Questo testo è interessante perché dietro a ciò che viene celebrato con slancio, la speculazione husserliana come filosofia della libertà, si nasconde l’ombra di un dubbio o di una polemica: le argomentazioni a favore del pensatore tedesco sono le stesse che in seguito verranno usate contro di lui.

Non si tratta di uno stratagemma socratico, anche se, leggendo le opere successive, non si può non sospettare che Lévinas abbia adoperato una certa ironia. Egli persegue il proposito di dare lustro ai suoi predecessori, anche quando non ne condivide in pieno le idee. Questo atteggiamento di riverenza rende talvolta ambiguo il suo pensiero, ma la cautela nell’emettere giudizi potrebbe essere intesa anche nei termini di un’apertura al confronto, di una cura nel vagliare le diverse angolature dei problemi, prima di prendere posizione.

Questa dialettica continuamente aperta tra ciò che si lascia e ciò che si assume del pensiero dei maestri, fa di Lévinas un testimone della filosofia del suo tempo che sperimenta su se stesso, sulla propria onestà intellettuale, la possibilità di guardare il mondo attraverso le prospettive heideggeriane e husserliane, mettendone in dubbio la validità non solo teoretica, ma anche morale ed esistenziale.

Lévinas, nell’intervista di Etica e infinito, confessa di apprezzare della fenomenologia soprattutto il metodo124, ma nel saggio del ’40, questo aspetto diviene secondario e si privilegia una visione globale. Afferma il nostro autore: «Noi non pensiamo che l’unità della fenomenologia husserliana derivi semplicemente dal suo metodo»125: «Husserl vuole pervenire a una filosofia generale dell’essere e dello spirito»126. La fenomenologia «si ricollega alle grandi correnti dell’idealismo occidentale», ed esprime «un modo di esistere», in quanto «fornisce una disciplina

124 Cfr. EI, p. 55. 125 EDE, p. 6. 126 Ibid.

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96 attraverso la quale lo spirito prende coscienza di sé [...], assume la responsabilità di sé»127 e consegue la libertà.

Nelle pagine successive, questa libertà si caratterizza come conquista teoretica. Salta subito alla mente il confronto con La teoria dell’intuizione, l’opera che Lévinas aveva scritto su Husserl negli anni ‘30, dove il primato del teoretico era soggetto a critiche e non figurava come elemento positivo, ma come paradigma della «vita solipsista di una coscienza chiusa su se stessa»128.

La nozione di libertà connessa all’esercizio dell’epoché è presente già nelle Idee e nel modello cartesiano: «Il tentativo di dubbio universale rientra nel campo della nostra completa libertà: noi possiamo tentare di dubitare di tutto e di ogni cosa, anche se ne siamo fermamente certi in base a una evidenza pienamente adeguata»129. Il dubbio rivolto a ciò che esiste, al di là dell’atteggiamento naturale, ritaglia un mondo autonomo di verità, che dipende solo dal mio cogito.

«La fenomenologia è in primo luogo il fatto di considerare la vita dello spirito come dotata di pensiero»130. Lévinas, in questo contesto, non rinnova l’obiezione al teoreticismo, ma mostra di apprezzarne alcuni aspetti, secondo nuovi parametri di giudizio.

L’intenzionalità rimane il fulcro della filosofia husserliana, ma essa non è avvertita come trascendenza, ma come una dialettica di esteriorità e interiorità, dove «l’esteriorità di questo qualcosa è imposta dall’interiorità del senso»131. Lévinas esalta, in modo inaspettato, il privilegio dell’interiorità e la libertà dell’io che si impone sul mondo. Questa posizione è quanto di più distante possa esserci dal 127 EDE, p. 5. 128 THI, p. 167. 129 Ideen I, § 31, p. 68. 130 EDE, p. 11. 131 EDE, p. 12.

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97 risvolto successivo del pensiero dell’autore, dove l’esteriorità diventerà talmente predominante da prevaricare il soggetto.

Il procedimento fenomenologico è descritto, in questo saggio, attraverso passaggi che in seguito saranno stigmatizzati come negativi, ma che qui sono accompagnati da un’opinione favorevole: «Sarebbe sbagliato qualificare la filosofia husserliana come intellettualistica», scrive il nostro autore. «Il primato accordato alla nozione di senso rispetto alla nozione di oggetto per caratterizzare il pensiero ci impedisce di farlo. È Husserl ad aver introdotto nella filosofia l’idea secondo cui il pensiero può avere un senso, mirare a qualcosa anche quando questo qualcosa è assolutamente indeterminato».

Lévinas accomuna «coscienza, sapere e libertà»132 come una triade in grado di fornire un senso a ciò che si presenta indefinito, incompiuto. La conoscenza sensibile ha dei limiti oggettivi. «La percezione della cosa è un processo infinito. Noi accediamo alla cosa solo attraverso gli infiniti aspetti che essa ci offre. Bisogna girare intorno ad essa. La coscienza del fatto che “posso girare intorno” [...] preannuncia il carattere eternamente incompiuto della percezione»133. A questa sintesi incompleta e insufficiente approntata dall’esterno, si contrappone la coscienza interna, che è il regno dell’evidenza, dove «il contatto stesso con le cose» è dato dalla loro «intellezione»134.

È sorprendente scoprire che i concetti principali di questo scritto saranno ribaltati e marchiati con il segno opposto in Totalità e infinito: l’incompiuto, l’infinito che qui è considerato un limite, diverrà l’idea propulsiva della filosofia matura di Lévinas, mentre la comprensione totale, la pienezza intuitiva, rischiarante come luce, che qui è

132 EDE, p. 25. 133 EDE, p. 29. 134 EDE, p. 33.

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98 il presupposto della libertà, nell’opera successiva del nostro autore, rappresenterà una minaccia da allontanare.

Anche l’opposizione al carattere astratto della filosofia di Husserl, già lieve nella Teoria dell’intuizione, viene ridimensionata in questo testo: si sostiene che il filosofo tedesco lascia spazio al concreto, pur prefiggendosi di conoscere la realtà a priori, prima che sia data135. L’unica critica che Lévinas manifesta apertis verbis riguarda la diffidenza husserliana nei confronti della storia136.

A partire dalla reazione contro l’antistoricismo della fenomenologia si aprono altri spiragli che rivelano il pensiero nascosto del filosofo lituano. La coscienza è descritta come «irreale, pura, trascendentale»137: essa «non è in alcun modo impegnata nella realtà, e non è nemmeno compromessa dalle cose o dalla storia»138.

«La riduzione fenomenologica», afferma il nostro autore, «è una violenza che l’uomo – essere tra altri esseri – fa a se stesso per potersi ritrovare in quanto pensiero puro»139. Quest’idea della «violenza a se stessi» in un certo modo collima con la definizione precedentemente fornita di libertà.

La libertà fenomenologica non è la pienezza dell’essere umano, ma l’autonomia del pensiero che non è «una parte del mondo, ma viene prima del mondo»140: è la certezza di possedere un senso, mentre nel mondo tutto è relativo.

Il mondo viene ricostruito per intero dopo la riduzione fenomenologica, come «mondo costituito da un pensiero»141: non è recuperato, al modo di Cartesio, ma rifondato:

135

Cfr. EDE, p. 30. «Ciò che è intellettuale non potrebbe mai essere preso come assoluto. È incomprensibile senza la base concreta con cui, certo, non si confonde, ma su cui poggia».

136 Cfr. EDE, p. 36. 137 Ibid. 138 Ibid. 139 EDE, p. 38. 140 EDE, p. 39.

(34)

99

La “messa tra parentesi” del mondo non è una procedura provvisoria che deve permettere di raggiungere poi con certezza la realtà, ma un atteggiamento definitivo. Più che essere una ricerca di certezze, la riduzione è qui una rivoluzione interna, un modo in cui lo spirito esiste conformemente alla propria vocazione e in cui gli viene ingiunto di essere libero rispetto al mondo142.

Un altro passaggio che si realizza nello scritto del ‘40 è il cambiamento di atteggiamento nei confronti del pensiero husserliano: esso viene distinto dalla teoria di Heidegger, è valutato nella sua specificità e non è più concepito in termini esistenziali: «L’io è una forma e un modo d’essere e non un esistente»143.

A partire da questa scissione di fenomenologia e esistenzialismo, si genera la presa di distanza di Lévinas dai suoi maestri. Essi saranno talvolta inglobati in un’unica prospettiva, quella filosofica, in quanto la filosofia tutta intera verrà intesa dal nostro autore come esercizio totalizzante, come tensione alla libertà, aspirazione dell’uomo «a liberarsi mediante la ragione»144.

3.1. Postilla: Sulla concezione della libertà: Lévinas e Rousseau

Già nel Settecento illuminista era in voga il connubio tra sapere e libertà: «La filosofia, in quanto teoria, non rende libero soltanto il filosofo, ma rende libero anche qualsiasi uomo»145 che ad essa si affidi. «L’unico mezzo per lo spirito di essere se

141 EDE, p. 40. 142 Ibid. 143 EDE, p. 43. 144 EDE, p. 47. 145 Ibid.

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100 stesso, di essere libero rispetto al mondo», scrive Lévinas, «è un sapere che non lasci nulla al di fuori della ragione, un sapere universale»146.

La filosofia, e «soprattutto la fenomenologia» realizza la «“lotta dell’umanità” per comprendere se stessa, la rivelazione della “ragione universale”, ‘innata’ come tale nell’umanità»147. La monadologia di Husserl diviene così, l’emblema del trionfo della razionalità sull’irrazionale148, la celebrazione della certezza del cogito sull’incompiutezza delle percezioni esterne.

Si tratta di una libertà tutta interiore, circoscritta all’io e per questo, assoluta. L’idealismo husserliano «cerca di definire il soggetto in quanto origine, in quanto luogo in cui ogni cosa risponde di se stessa. Il soggetto è assoluto non perché sia indubitabile, ma è indubitabile proprio perché risponde sempre di se stesso e a se stesso. Questo essere sufficiente a se stesso caratterizza il suo assoluto»149.

Quasi in conclusione del suo lavoro, Lévinas apre una breve parentesi sulle Meditazioni cartesiane, sollecitata dal discorso sulla monadologia, e affronta il tema del solipsismo husserliano che, a suo avviso, rimane un dato insuperabile.

L’interesse per l’esperienza dell’altro non corregge l’impostazione di Husserl: egli «mostra come l’intersoggettività si costituisca a partire dal solipsismo della monade. Solipsismo che non nega l’esistenza d’altri, ma descrive un’esistenza che, in linea di massima, può considerare se stessa come se fosse sola»150. Lo sguardo del nostro autore sulla questione dell’intersoggettività non nasce dall’intento di criticare la

146 Ibid. 147 Ibid. 148

Cfr. EDE, p. 51. «Affermare che il soggetto è una monade significa, in definitiva, negare l’esistenza dell’irrazionale».

149 Ibid. 150 EDE, p. 52.

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101 nozione di socialità portata avanti dalla fenomenologia151, ma dalla necessità di mostrare la differenza con il pensiero di Heidegger.

Secondo Lévinas, l’inventore della fenomenologia concepisce l’io, l’«uomo concreto, storico» come «personaggio di un dramma che si costituisce per il pensiero»152, mentre nella visione heideggeriana, «la mia vita non è semplicemente un gioco che, in ultima analisi, si gioca per un pensiero. Il modo in cui io sono impegnato nell’esistenza ha un senso originario, irriducibile a quello di un noema per una noesi»153.

La questione del senso in Essere e tempo non è un fatto intellettuale. Il soggetto descritto da Heidegger è sottoposto al mondo, alla storia ed è dominato dalla dimensione degli altri. La filosofia di Husserl, invece, esprime la libertà di un io che costituisce un senso interno a se stesso, con il quale può dominare il mondo prima di rapportarsi ad esso154.

Sul concetto di libertà nell’opera husserliana aleggia un’ombra, una perplessità: la possibilità e il valore di essere liberi in una dimensione solipsistica, un dubbio che si situa dietro le parole di Lévinas: il cogito di Husserl è in fin dei conti, «trincerato»155 nel suo pensiero; da una tale posizione di supremazia, non riesce a estendere lo sguardo a ciò che si trova fuori dalla sua mente, a un modo di comprendere diverso da quello teoretico e alla coscienza degli altri, appresi secondo un criterio che non sia un paragone mentale autofondato e autosufficiente.

151 Ibid. «Non riassumeremo né criticheremo le analisi di Husserl che gli permettono di seguire la

costituzione della relazione sociale in quanto senso della monade».

152

Ibid.

153 EDE, p. 53. 154 Cfr. EDE, p. 55. 155 EDE, p. 52.

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