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Introduzione

Datazione

Marta la piadosa fu pubblicata per la prima volta nella Quinta parte de Comedias del maestro Tirso de Molina, recogidas por D. Francisco Lucas de Ávila, sobrino del autor, nel 1636, Madrid, Imprenta Real. Ma la data di composizione risale, circa, a un ventennio prima. Grazie all'ampio spazio dato all'elemento storico-contestuale della presa de la Mamora, che avvenne il 6 agosto 1914, risulta facile e immediato pensare che Marta la Piadosa possa essere stata scritta tra la fine del 1614 e l'inizio del 1615. È questa l'opinione della gran parte dei critici1, in quanto una così ampia digressione (circa

280 versi all'inizio del secondo atto sono riservanti a un monologo in cui l' alfiere, di ritorno dalla spedizione, ne racconta i dettagli), unita a altri riferimenti, sporadici ma presenti in tutto il testo, fanno credere che si tratti di un evento fresco, occorso da poco e sfruttato da Tirso per attrarre l'attenzione del pubblico.

Infatti la spedizione alla Mamora è nominata due volte nell'opera (v. 428; vv 462-463) fino a culminare nel lungo racconto dell'alfiere di circa 300 versi, che Vitse2 ordina

secondo lo schema seguente:

A) La impresa di Fajardo (vv. 1145- 1291) 1. Progetti di Fajardo (vv. 1145-1177)

2. Formazione della armada; viaggio e arrivo alla Mamora (vv. 1178- 1202) 3. Lo sbarco, la presa del forte, la sua nuova edificazione la pressione araba.

(vv. 1203- 1291)

B) I soccorsi di Maqueda (vv. 1292-1435)

1. Organizzazione dei soccorsi in Andalusia e a Corte (vv. 1292-1339) 2. I combattimenti: l'episodio del giorno dell'Assunzione (vv. 1340-1419)

1 Pressoché alla medesima conclusione giungono, Juan Eugenio Hartzenbusch nella sua prefazione a

Marta la piadosa “Examen de Marta la piadosa”, in Teatro escogido de Fray Gabriel Téllez, Yenes,

Madrid, 1839 pp. 240-244; Marc Vitse "Introducción a Marta la piadosa", in Criticón, 18, 1982, pp. 61-95 e Ignacio Arellano “Introducción a Marta la piadosa”, in Tirso de Molina, Marta la piadosa ;

Don Gil de las calzas verdes , PPU, Barcellona, 1988, pp. 13-68.

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3. Ritorno in Spagna dei nobili avventurieri; commento degli uditori. (vv. 1420-1435)

Un resoconto prettamente storico della spedizione si trova in Relaciones de las cosas sucedidas en la corte de España desde 1599 hasta 1614 di Luis Cabrera de Córdoba3 e

nel Discurso historial de la presa del puerto de la Mamora di Agustin de Horozco4. È

quest'ultimo documento ad essere, secondo un'ipotesi avanzata da Serge Maurel5 ed

accetta all'unanimità dalla critica posteriore, la fonte di Tirso. Il drammaturgo, però, elimina dal racconto del suo personaggio tutti gli elementi storici che avrebbero potuto compromettere l'entusiasmo per l'eroica impresa: non parla della tempesta che quasi affondò le navi spagnole, né dei precedenti tentativi di conquista del forte tutti falliti; ci dipinge l'arrivo dei soccorsi come fondamentale, mentre fu pressoché inutile e, infine, racconta che ogni partecipante all'impresa ne ebbe un grande guadagno quando invece, secondo Horozco, i soldati furono lasciati senza paga né aiuto. Tirso, attraverso un resoconto altisonante dal tono quasi epico e poco corrispondente alla verità storica, sorvola intenzionalmente tutte le allusioni a una realtà dei fatti poco gloriosa per la Spagna, per salvaguardare, invece, la finzione di un impero forte e saldo.

Abbandonando il contesto extra-testuale per passare a quello scenico, si registra una triplice funzione del “monologo della Mamora”: elevare l'alfiere a personaggio coraggioso e valoroso tanto quanto Felipe; trovare un terreno comune di gioia condivisa tra i giovani e i vecchi che anticiperà, in un certo senso, la riconciliazione finale; e, infine, collocare la vera blasfemia altrove, fuori dalla Spagna. Ovvero, come chiarisce Vitse6,

situar, en fin, a los blasfemas e hipócritas formales y titulares fuera de España, confinar los verdaderos peligros y cosas serias en tierras de Agar y construir de tal modo el marco utópico de las alegres "quimeras" de los tres burladores.

Dunque, per quanto riguarda la questione della datazione l'unica voce fuori dal coro è

3 Luis Cabrera de Córdoba Relaciones de las cosas sucedidas en la corte de España desde 1599 hasta

1614, Madrid, 1857.

4 Agustin de Horozco Discurso historial de la presa del puerto de la Mamora di Agustin de Horozco Contenuto in A. De Castro Curiosidades bibliográficas, B.A.E. XXXVI, Madrid, 1950, pp. 211-224 5 Sergue Maurel, L'univers dramatique de Tirso de Molina, Publications de l’Université de Poitiers,

Poitiers, 1971.

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Blanca de los Ríos7, che posticipa la redazione dell'opera alla fine del 1615. A sostegno

della sua tesi, la studiosa porta le allusioni a Sancho Panza e don Quijote che ricorrono nel testo e, soprattutto, al simbolo del falcone di Juan de la Cuesta, editore del romanzo di Cervantes, dando per scontato che tanto interesse dovesse riferirsi alla sua seconda parte (quella edita nel 1615) e non, come verosimilmente è, alla prima, pubblicata nel 1605.

L'ipotesi che l'opera risalga, comunque, al periodo compreso tra la fine del 1614 e l'inizio del 1615 trova conferma nella comparsa, in anni vicini, di commedie con motivi e personaggi molto simili a quelli di Marta la piadosa. Come si vedrà in seguito, il padre, don Gómez, avido e prepotente, assomiglia molto a don Diego e don Pedro, i due padri presenti in Don Gil de las calzas verdes8, commedia scritta nel 1615 dallo stesso

Tirso. Anche il motivo delle due sorelle che formano, per indole opposta, una coppia antitetica è rintracciabile in opere teatrali pressoché contemporanee a Marta la piadosa. Lo stesso Tirso non ne è nuovo: solo qualche anno prima (tra il 1611 e il 1612) aveva scritto El vergonzoso en palacio9, in cui le protagoniste femminili sono due sorelle:

Madalena e Serafina. Le due giovani mostrano, nei confronti dell'amore, due

atteggiamenti opposti: la prima innamorata follemente di Mireo e disposta a tutto pur di convolarvi a nozze; l'altra fredda e scostante nei confronti del proprio pretendente. È la stessa Lucia a fornire un parallelismo, riferendo come questa caratteristica la differenzi dalla sorella:

Soy yo la misma frialdad

y eres tú el mismo calor (vv. 117-118).

Inoltre, Lope de Vega proprio nel 1614 scrive La dama boba10, in cui due sorelle, una

estremente sciocca e l'altra più che mai colta, sono coinvolte in un quadrato amoroso.

7 Tirso de Molina, Obras dramáticas completas, edición crítica por Blanca de los Ríos, Madrid, Aguilar 1946-1958

8 Tirso de Molina, Don Gil de las calzas verdes,a cura di Erique García Santo-Tomás, Catedra, Madrid, 2009.

9 Tirso de Molina, El vergonzoso en palacio ; estudio preliminar, edición y notas de Francisco Florit Durán, Madrid, Taurus, 1987.

10 Lope de Vega, La dama boba, a cura di Maria Grazia Profeti traduzione con testo a fronte di Rosario Trovato, Marsilio Editori, Venezia, 1996.

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La vicenda

La commedia racconta dell'amore di due giovani, Marta e Felipe, e delle difficoltà che, grazie al loro ingegno e a numerosi stratagemmi, riusciranno ad affrontare e a superare per potersi, finalmente, sposare. Vitse11 individua due tipi di ostacoli; il primo gruppo

rappresenta quelli che chiama temporanei: le richieste di pretendenti che o si arrendono presto, come il vecchio Urbina, o vengono velocemente accantonati da don Gómez (il padre di Marta), è questo il caso dei due fratelli don Diego e don Juan innamorati, rispettivamente, di Marta e di sua sorella Lucia. Nel secondo gruppo sono, invece, gli ostacoli permanenti che rappresenteranno un impedimento all'amore dei giovani fino al termine dell'opera: la gelosia di Lucia, rivale in amore di Marta, e l'irrefrenabile desiderio di vendetta di don Gómez, il cui unico figlio maschio è stato assassinato da Felipe.

La prima giornata della commedia, che si svolge tra Madrid ed Illesca, si apre con due sonetti, rispettivamente di Marta e di Lucia, in cui le due sorelle lamentano in due soliloqui la triste e misera condizione di chi non può più nemmeno sperare. La scelta di utilizzare questa forma metrica per l'inizio di una commedia è secondo, Felipe Pedraza Jiménez, una «original novedad»12, un'anomalia mai vista altrove, in quanto, di norma,

l'azione cominciava con una scena dall'atmosfera violenta o, comunque, molto animata e non intima e malinconica come quella dei due soliloqui. Si tratta di due sonetti strettamente connessi tra loro sia a livello tematico che metrico, in quanto la chiusa del primo (“que no pudo esperar ni aun esperanza”) costituisce l'incipit del secondo. Tuttavia le due battute, che per entrambe sono quelle d'ingresso, evidenziano subito una grande differenza nel caratteri dei due personaggi. Lucia, la boba, travolta dalla passione e dalla sofferenza rivela fin da subito a chiare lettere il motivo del suo dolore: ama l'assassino del fratello; mentre Marta, la engaña bobos (v 2265), discreta e accorta, quasi mai sopraffatta dai sentimenti, ma capace di dominarli con astuzia e prontezza, resta nel suo lamento enigmatica e misteriosa. È Marta stessa a suggerire questa contrapposizione quando, iniziando fin dai primi versi a tessere la sua rete di inganni,

11 Vitse "Introducción..."

12 Felipe B. Pedraza, “Marta la Piadosa. Desequilibrios estructurales y valores escénicos”, in Ignacio Arellano, Blanca Oteiza, M. Carmen Pinillos y Miguel Zucasti (eds), Tirso de Molina: del Siglo de

Oro al siglo XX. Congreso internacional, Pamplona, Univesidad de Navarra 15-17 de diciembre de 1994, Revista Estudios, 190, 1995, pp. 237-250.

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farà credere a Lucia che l'omicida è stato arrestato per poterla smascherare, commenta in questo modo la credulità della sorella:

¡Qué fácil es de engañar, cuando es boba, una mujer! Quise fingir su prisión para saber su amor, cielos, y al fin saqué a luz mis celos

envueltos en su afición. (vv. 199-204)

A questo punto lo spettatore scopre che le sue pene hanno la stessa origine di quelle della sorella: anche lei è innamorata, ma a differenza di quest'ultima ricambiata, di Felipe.

Entra, quindi, in scena un altro personaggio: don Gómez, il padre delle ragazze. Anch'esso si presenta con un monologo che ne sottolinea la caratteristica principale: l'avidità. Il vecchio ha ricevuto una lettera da un suo amico e coetaneo, il capitano Urbina, tornato dalle Indie con molte ricchezze, che gli chiede la mano della figlia Marta, invitandoli tutti a Illesca, dove troveranno feste e corride. Don Gómez, deciso a far sposare la ragazza nonostante la differenza d'età, chiama a raccolta le figlie e, nascondendo il vero motivo della spedizione, comunica loro che partiranno immediatamente da Madrid, dove vivono, per recarsi in visita del capitano. Egli non sente ragioni nemmeno quando Marta prova a obbiettare che un tale comportamene non si addice al lutto (in realtà è solo preoccupata perché sa che anche Felipe si troverà là.)

Infatti il giovane fuggitivo si sta recando proprio a Illesca, accompagnato da Pastrana, il gracioso, che cerca in tutti i modi di esortarlo a scappare lontano, cogliendo, per esempio, l'opportunità di partecipare alla spedizione alla Mamora:

Había ocasión agora a medida del deseo; pues toda la corte veo que se parte a la Mamora y con cualquier capitán pudieras ir disfrazado;

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que a un distraído soldado

no le conoce Galván. (vv. 425-432)

Ma i timori e la codardia di Pastrana non riescono a convincere il valoroso e innamorato Felipe, che non si limita ad osservare i festeggiamenti e le corride, ma vi prende parte per salvare la vita al nipote di Urbina, l'alfiere. Costui scopre di essere un suo vecchio amico e gli racconta, tra mille ringraziamenti, dell'arrivo delle due sorelle, del suo amore a prima vista per Lucia e delle nozze tra suo zio e Marta, che si terranno la notte stessa.

Disperato, il fuggiasco, decide comunque di restare e spiare la celebrazione del matrimonio; assiste, invece, a un imbroglio di Marta. Venuta a conoscenza dei piani del padre, costei riesce a trovare una via di fuga fingendo di aver fatto voto di castità. Tra la perplessità e il disorientamento di tutti i personaggi, il primo atto si chiude con i preparativi per il ritorno a Madrid.

A Madrid si svolge tutta la seconda giornata, che si apre con un dialogo tra i due vecchi che commentano i grandi cambiamenti di Marta, soprannominata la piadosa dopo il voto di castità, che lei sostiene di aver fatto e la cui notizia è giunta fino a corte. È passato circa un mese tra i due atti e la giovane ha abbandonato tutti i consueti lussi e sfarzi nell'abbigliamento in nome di una tenuta umile: viste de anacoste; non partecipa più a feste e a celebrazioni, ma passa il tempo visitando i poveri. Unica ambiguità nel suo comportamento, consiste nel fatto che non si decide a diventare monaca, come riferisce preoccupato don Gómez

Dice que no ha de casarse por el voto y devoción, ni admitir dispensación aunque puede dispensarse, ni tomar nunca otro estado

sino sólo el de doncella.( vv. 1097-1102)

Altro argomento di conversazione tra i due è il ritorno del nipote del capitano e la possibilità di combinargli un matrimonio con Lucia. A questo punto, quasi come se l'avessero chiamato, fa il suo ingresso sulla scena l'alfiere di ritorno dalla Mamora di

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cui, con un lungo monologo digressivo, narra la presa. Ma è quando i tre lasciano il palcoscenico che l'intrigo può continuare e farsi ancora più complesso. Ad ordirlo sono Marta, che è effettivamente agghindata come l'avevano descritta i vecchi, e Pastrana, arrivato appositamente a Madrid con don Felipe, con l'aiuto, di un personaggio secondario: Inés, la corrispondente femminile del gracioso, con il quale farà coppia sia nello scambio di battute comiche, che, alla fine, nelle nozze. L'obbiettivo dei giovani è quello di formare le giuste coppie (Marta con Felipe; Inés con Pastrana e, pur se all'oscuro di tutto, Lucia col'alfiere). Per questo allestiscono un piano che prevede un doppio imbroglio (triplo se si considera anche la finta devozione di Marta): Pastrana si fingerà un sivigliano proveniente da una nobile casata, don Juan Hurtado de Mendoza, giunto a Madrid per portare a don Gómez la notizia dell'arresto e di un possibile processo a Siviglia dell'assassino del figlio e convincerlo, così, ad allontanarsi dalla capitale; in tal modo Felipe, mascherato, potrà introdursi in casa del vecchio. Il padre si lascia facilmente abbindolare: crede nelle informazioni di Pastrana\don Juan Hurtado, e si fa convincere da Marta a dare ospitalità a Felipe, sotto le mentite spoglie del povero e malato maestro Berrío che, in cambio, insegnerà il latino alla figlia.

La terza giornata si apre con la dimostrazione del mutamento di atteggiamento di Urbina: il suo amore per Marta non è più passionale, ma quasi paterno e accetta di darle ugualmente la dote per le sue opere di carità.

El amor que os tengo es tal, ya no humano, mas divino, que por seros liberal daros luego determino para ayuda al hospital que hacéis ocho mil ducados

que en vos son bien empleados.(1995-2002)

Sono trascorse alcune settimane tra i due atti e, in questo periodo, Felipe\Berrío ha finto di insegnare latino alla sua complice, tanto che, adesso, don Gómez vuole dalla figlia una prova di ciò che ha imparato. Marta è spaventata e teme che saranno scoperti, ma il finto precettore inscena prontamente una lezione sulla declinazione di quis putas, che la ragazza si rifiuta di declinare perché sostiene che "...es lascivo/ aquesta arte, y no

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concierta/ con la vida que yo vivo." (vv 2085-2087), dando ai presenti un'ulteriore, ironica prova della sua castità. Una volta rimasti soli i due innamorati si lasciano andare a dichiarazioni del reciproco amore. Lucia, che senza essere vista li stava ascoltando, scopre il loro piano; così, in preda alla gelosia, facendo allontanare con una scusa la sorella, minaccia Felipe di rivelare chi egli sia. Ma, ancora una volta, il giovane si rivela molto scaltro e le fa credere che è lei quella che ama, quella con cui vuole sposarsi e quella per cui ha messo a punto l'intero imbroglio. Questa volta è Marta ad origliare da dietro le quinte e, rimasta sola con Felipe, a farsi prendere dalla collera tanto che solo l'ennesimo ingegnoso stratagemma evita ai due di essere scoperti dai vecchi, in partenza per Siviglia per assistere al falso processo. Restano alla Corte soltanto i giovani che si recano alla Huerta del duca di Lerna, dove hanno intenzione di celebrare il triplice matrimonio: Pastrana con Inés, Marta con Felipe e Lucia con l'alfiere. Quest'ultimo, infatti, ha scoperto la vera identità del precettore, ma spinto dalla lealtà nei confronti dell'amico e dalla possibilità di sposare l'amata Lucia, ignara di tutto, prende parte all'inganno. I sei devono escogitare una nuova mascherata e fingersi dei nobili portoghesi, poiché, mentre stanno entrando nel parco, rischiano di essere riconosciuti da don Diego e don Juan, due pretendenti delle sorelle liquidati in modo sbrigativo dal padre nel primo atto. Arrivano a questo punto don Gómez e Urbina, tornati in tutta fretta dalla spedizione dopo essere stati informati da un amico del piano che si andava ordendo alla loro spalle. Le cose sembrano mettersi per il peggio per Felipe, ma, come spesso nel teatro del siglo de oro, il lieto fine arriva improvvisamente e sotto forma di un'eredità che il giovane scopre di aver ricevuto da un lontano parente. Incoraggiato anche da Urbina, il vecchio padre acconsente alle triplici nozze.

I personaggi

Marta

Marta è, come suggerisce il titolo, la protagonista e, insieme a Felipe e Pastrana, l'artefice dell'enredo, su cui si basa l'intera opera. Appare, fin dalle prime battute, come un personaggio misterioso, ambiguo ed enigmatico: lo spettatore intuisce che nasconde

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un segreto, ma solo dopo un centinaio di versi ne sarà messo al corrente. La maggior parte dei suoi interventi, dei suoi atteggiamenti e delle sue movenze sottendono una bugia, un travestimento, un secondo fine. Si finge devota per evitare un matrimonio, e in questa finzione, è così convincente e accorta da meritarsi il nome di piadosa. Non lascia niente al caso: abbigliamento ed occupazioni sono attentamente studiate e conformi al suo nuovo stato; anche il linguaggio che adotta è ascetico e religioso. Ma in questa trasformazione non risulta essere del tutto coerente: certo ha fatto voto di castità, ma non si decide ad entrare in convento, tanto che appare, come la definisce Urbina, «ni carne...ni pescado» (v.1104), o, agli occhi di don Juan «...mujer/ que uno reza y otro canta» (vv. 1698-1699).

Probabilmente per questo, Marta, è stata vista da parte della critica, fin da Hartzenbusch13 come un tentativo di Tirso di incarnare l'ipocrisia. Questa

interpretazione del personaggio deriva da una visione morale e psicologica della commedia. Marta diventa, quindi, l'emblema stesso dell'ipocrita, e Marta la piadosa una commedia di carattere: è di questa idea Blanca de los Ríos, che sostiene che l'opera sia una «de las mejores porque contiene un cáracter; es [..] la primera dramatizacíón de la hipocresía»14. Questo punto di vista è, tuttavia, apparso forzato: la psicologia dei

personaggi e la veridicità non sono certo priorità di Tirso, basti pensare alla velocità con cui i protagonisti fanno e disfano matrimoni, accettano condizioni che fino a pochi versi prima li facevano disperare15, senza grandi moralismi o esistenzialismi, o , ancora, alle

incongruenze spazio temporali16.

A questa teoria si contrappone l'interpretazione di Vitse17 secondo cui l'ipocrisia non

è che un tema collaterale e secondario dell'opera (tanto da non essere neppure presente nel primo atto, riservato, secondo le regole del tempo, a dichiarare il tema)18 e non è,

comunque, Marta ad esserne la personificazione, o per lo meno non ne è la rappresentate esclusiva. È ipocrita la società, disposta a concederle una libertà totale,

13 Hartzenbusch , “Examen de Marta la piadosa,”, cit. p. 240. 14 Blanca de los Rios, Obras dramáticas completas... cit. p. 329.

15 Nel caso particolare di Marta la piadosa, si pensi alla velocità con cui, nei versi finali Lucia accetta il matrimonio con l'alfiere, don Diego e don Juan acconsentono a fare da testimoni alle nozze delle donne che amano e don Gómez supera la morte del figlio e permette all'assassino di sposare la figlia. 16 Per un elenco di tali incongruenze si veda Arellano“Introducción a Marta la piadosa”, pp 20-21. 17 Vitse, "Introducción...".

18 «En el acto primero ponga el caso» è la regola teorizzata da Lope de Vegna in Arte nuevo de hacer

comedias en este tiempo (1609), edición y estudio preliminar de Juana de José Prades, Madrid,

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che le sarebbe altrimenti negata, attraverso il suo travestimento. È la stessa Marta a motivare, rivolgendosi a Pastrana, la sua scelta con le proibizioni di una società maschilista:

Linda sangre y humor cría, Pastrana, la hipocresía. Nunca tuve libertad mientras que viví a lo damo como agora. Si intentaba salir fuera, me costaba una riña; ya no llamo a la dueña, al escudero, ni aguardo la silla y coche, ni me riñen si a la noche

vuelvo. Voy a donde quiero.(vv. 1572-1582)

È ipocrita lo stesso don Gómez pronto, prima ad accettare per interesse un matrimonio inadatto per la figlia e, successivamente, ad assecondare il voto della ragazza purché questo non leda la sua reputazione.

Hazte beata y después haz, Marta, lo que gustares; pero así es bien que repares en lo que dirá después la gente. (vv. 1491- 1495)

Sono ipocriti, né più né meno di Marta, don Felipe e Pastrana, che, come lei si mascherano e fingono di essere chi non sono. Insomma come afferma Vitse «Si Tirso quiso decirnos algo, es que entre las máscaras que cada uno lleva puestas las más perniciosas no son las más visibles.»19. La stessa teoria sostiene anche María D Rajoy

Feijóo, in un articolo successivo, in cui evidenzia come «[...] el ambiente general de hipocresía lleva a unos y a otros personajes a entrar en el equívoco de la apariencia y de

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la realidad.»20.

Secondo questa visione, il travestimento di Marta non è da condannare: la giovane non è ipocrita, ma sta fingendo solo per poter evitare un matrimonio e sposare l'uomo che ama: la falsità, le menzogne non fanno parte sostanziale del suo carattere, ma sono solamente uno strumento, un accidente temporaneo. Sempre María D Rajoy Feijóo ritiene che «El mundo de las apariencias es utilizado como un medio para escapar a las exigencias de la autoridad y obtener algún beneficio.»21. Quello che è da condannare è,

perciò, l'autoritarismo rappresentato dal padre. La vera ipocrisia è

en las obras de los que llevan una máscara invisible pero lo bastante opaca y eficaz para que aparenten virtud o bondad que no tienen. Se trata de don Gómez y de los hermanos Diego y Juan.22

Marta, come Felipe, consegue il suo intento burlandosi di tutti, non perché è più falsa e opportunista degli altri, ma perché è più brava a dire bugie. È la parola la chiave dell'imbroglio: riesce a vincere e a perseguire i propri scopi chi la domina, soccombe e cade vittima delle trappole chi non ne è capace.

In questa opposizione è da identificarsi il tema principale dell'opera. Uso arguto del linguaggio, controllo dei propri sentimenti, ingegno e capacità di improvvisazione sono le caratteristiche, positive, che permettono a Marta di non essere scoperta. L'essenza di Marta non è, dunque, l'ipocrisia, bensì la discreción, valore tipico del secolo XVII, ovvero, come la definisce María Rajoy Feijóo, «la capacidad para acomodarse exteriormente a una sociedad rígida y que se inscribe en una moral egoísta y de supervivencia.»23. E come discreta verrà appellata Marta da Pastrana:

De discreta el premio lleves; hagas en el mundo raya pues tan de veras me mueves que he de asirte de la saya

20 María D Rajoy Feijóo . “La figura del falso devoto: itinerario y adaptación cultural”, in Traducción y adaptación cultural: España-Francia, M. Luisa Donaire, Francisco Lafarga (eds.), Oviedo,

Universidad de Oviedo, Servicio de Publicaciones, 1991, pp. 411-422, cit. p .416. 21 Rajoy Feijóocit., “La figura del falso devoto...”, cit. p .415.

22 Vitse, "Introducción...", cit. p.72.

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pues que no te me eleves. (vv. 2565-2569)

Caso emblematico di questa non comune capacità di controllo è il momento in cui Marta sta, per un attimo, cedendo all'ira e alla gelosia dopo aver sentito Felipe dichiarare il suo amore per Lucia, cosa che il giovane aveva fatto solo per evitare di essere denunciato. Ma Marta non gli crede, e i due rischiano di essere scoperti da Urbina e don Gómez, richiamati dalle grida della fanciulla. È a questo punto che la protagonista rivela la sua bravura nel non farsi accecare dalla collera; essa riesce comunque a inventare una scusa per le sue grida (dice che il maestro ha giurato invano), dimostrandosi una donna la cui volontà è capace, secondo Vitse, di vincere «las pasiones del amor loco (o "romántico" a lo Lucía) o del temor paralizador.»24

Felipe

Corrispettivo maschile di Marta è Felipe. L'assassino fuggiasco dimostra, fin dal suo ingresso in scena, uno straordinario valore e coraggio, una desatinada temeraridad, come la chiama, ironicamente, Pastrana (vv. 736-737). Affronta i tori per salvare l'alfiere, affronta il rischio di incappare nella giustizia pur di poter restare vicino alla propria amata. Come Marta è, dunque, capace di dominare sentimenti a cui, di solito, è facile soccombere: ha il completo controllo del timore e della paura che «como el amor, los celos, la codicia o el orgullo, engendran pronto la perturbación que acarrea la pérdida del dominio de sí mismo y conduce al fracaso.»25. Il suo ruolo, nell'inganno

come nella commedia, risulta essere perfettamente complementare a quello di Marta. Davanti, per esempio, all'improvvisata richiesta di don Gómez di sentir declinare la figlia e al conseguente terrore paralizzante di quest'ultima, è il finto maestro, dimostra, come nota Arellano nella sua introduzione all'opera, «dominio de la pasión, dominio del lenguaje, dominio, en suma, del enredo»26 che, come si vedrà, gli permette di inscenare

una finta lezione di latino. Anche in questa situazione, non a caso, è il linguaggio e la capacità di saperlo utilizzare risolvere il problema; è proprio grazie a un sapiente uso della parola che i due riescono a farla franca.

24 Vitse, "Introducción...", cit. p. 70. 25 Vitse, "Introducción...", cit. p. 69.

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Lucia

Lucia rappresenta, fin da subito, un ostacolo all'amore dei due giovani. Innamorata di Felipe, che però non la ricambia, ed essendo colei che meglio conosce Marta, è la più restia a credere alla sua devozione. I suoi sospetti e la sua gelosia la portano molto vicina a scoprire l'imbroglio, ma Lucia «aunque es muy celosa, es ruda» (v 2619) e la sua potenziale pericolosità è smorzata proprio dalla sua stupidità. Il motivo di Lucia come boba è costante e sistematico in tutto il testo; è proprio questo il termine usato a più riprese nella commedia per indicare la sua ingenua credulità.

¡Qué fácil es de engañar,

cuando es boba, una mujer! (vv. 199-200)

Esclama Marta dopo averle mentito circa l'arresto di Felipe. E ancora:

¡Qué bien a esta boba engaño! (v 348)

«Linda boba»(v 2791), la chiama Felipe quando, dopo averla ben bene raggirata, le fa credere di essere innamorato di lei.

Lucia, infatti, alla fine, si lascia convincere delle buone intenzioni dei due amanti e prende parte al loro piano, pensando che l'obbiettivo di tutto l'enredo sia il suo matrimonio con Felipe e che il fingersi pubblicamente la sposa dell'alfiere sia uno stratagemma per conseguirlo. Il punto debole di Lucia è che, a differenza dei due protagonisti, manca totalmente di controllo e di sicurezza: è impulsiva, eccessiva, come nota Vitse

no tiene más que extremos: finge excesivo rigor hacia Felipe, amenaza dos veces suicidarse si su padre satisface su venganza, se entrega con demasía a su hermana o a Felipe después de sospecharlos27.

Ha sempre bisogno di consigli e di aiuto, e, soprattutto, è estremamente propensa alla confidenza; in sostanza, è l'alter ego della sorella, la quale non si fa scrupolo a

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sottolineare la sua mancanza di discreción: «No es muy discreta Lucía» sottolinea al verso 1831.

Dire tutto e subito equivale a non possedere quell'abilità linguistica ironica e arguta, quell'equilibrio tra il detto e il sotteso che, come si è già visto, è l'unica via di salvezza, Luicia «es incapaz de desentreñar los sentidos irónico del lenguaje»28. Un esempio

lampante di questa mancanza si avverte quando Felipe, dopo essere stato riconosciuto, cerca di rassicurarla dicendole che l'intero inganno l'ha fatto per lei e non per Marta che chiama, «hipocritona, engaña bobos» (vv. 2264-2265): Lucia, accecata dall'amore non si rende conto dell'ironia di questo epiteto, in quanto uno dei bobos ingannati è proprio lei stessa.

Pastrana

Il principale aiutante della coppia di protagonisti è Pastrana, amico e compagno di avventure di Felipe. Le sue caratteristiche sono tutte riconducibile al ruolo che svolge nella commedia il gracioso29: è realista, pratico, codardo, ma molto astuto e parte attiva

e fondamentale dell'imbroglio. La sua funzione principale è rallegrare e divertire con il suo «humor siempre entretenido» (vv. 376); è il personaggio che, per antonomasia, utilizza in modo burlesco il linguaggio con chistes, neologismi e modi di dire. È colui che si prende gioco di tutto, che svolge una «función desvalorizadora cómica [...] respecto a los temas del valor heroico y del amor»30: antitesi ironica di Felipe, ma anche

dell'alfiere, oppone al loro valore una «cobardía muy discreta» (vv. 661), alla loro retorica amorosa un corteggiamento molto più veloce e sbrigativo.

Tuttavia le sue burle hanno un limite: mai si azzarda a prendersi gioco della vicenda della Mamora e dei suoi eroi, che anzi, elogia senza riserve e senza sarcasmo.

L' alfiere

Il nipote di Urbina fa parte della schiera dei personaggi positivi, secondo lo schema

28 Arellano “Introducción a Marta la piadosa”, cit. p.30

29 La bibliografia che tratta del ruolo del gracioso nel teatro di Triso e, in generale del siglo de oro, è molto vasta, si veda, ad esempio, María Santomauro El gracioso en el teatro de Tirso de Molina, Revista "Estudios", Madrid 1984 oppure Manuel Antonio Aranco L “El gracioso sus cualidades y rasgos distintivos en cuatro dramaturgos del siglo XVII: Lope de Vega, Tirso de Molina, Juan Ruiz de Alarcón y Pedro Calderón de la Barca”, Thesaurus, XXXV num 2, 1980.

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descritto da Vitse per cui

«los personajes de la comedia se repartirían útilmente en dos grupos : los timoratos (don Diego, don Juan, don Gómez y Lucía) y los valientes (el Alférez, Felipe, Marta y hasta Pastrana). Las victimas de la burla vengadora son los hipo'critas y los timoratos, o sea los novidentes, los vencedores son los valientes y los ingeniosos, o sea los clarividentes. Y la osadía —en ningún caso pecaminosa, inconveniente ni escandalosa— de estos audentes inocentes constituye uno de los valores fundamentales del "universo dramático" de fray Gabriel Téllez, de un universo tan de buena ley como su "risa".»31

Pur se di importanza minore rispetto agli artefici dell'imbroglio, l'alfiere introduce alcuni temi fondamentali nella commedia de capa y espada: quello dell'amicizia e del coraggio, e, soprattutto, è il narratore, attraverso un lungo monologo, delle eroiche imprese del popolo spagnolo di cui è stato testimone nella spedizione alla Mamora.

Don Diego e don Juan

I due fratelli sono personaggi estremamente marginali a livello di trama, tanto da essere definiti da Pedraza «personajes parasitarios»32 la loro unica funzione è informare

Felipe del grande patrimonio ereditato, così da convincere don Gómez ad accettare le nozze. Ecco come l'inaspettata buona notizia viene, sul finire del terzo atto, riferita da Juan:

¿Vos, señor, sois don Felipe? ¡Jesús! Fuera de mí estaba pues, viéndoos, no os conocí. En Valladolid os guarda vuestra madre, por ser muerto don Pedro Gómez de Ayala,

diez mil ducados de renta. (vv. 2990-2996)

È un ruolo infimo, che Tirso avrebbe potuto affidare a un qualunque messaggero e che, di per sé, non giustifica la quantità di uscite sulla scena dei due. Vitse, infatti, sostiene

31 Vitse, "Introducción...", cit. p. 77.

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che «El por qué de sus múltiples salidas al escenario se buscará pues fuera del argumento, en el nivel del asunto o tema de la obra.»33. Don Diego e don Juan formano

una coppia, opposta e simmetrica, agli altri due giovani innamorati delle sorelle: Felipe e l'alfiere, di cui sono, in tutto e per tutto, l'antitesi. Se gli ultimi sono coraggiosi, valorosi e decisi, i primi sono impotenti, vili, sottomessi e insicuri: non partono per la Mamora, non si ribellano alla decisione di don Gómez di rifiutar loro la mano delle figlie. Sono «narcisos hipócritas»34, che hanno una visione totalmente distorta degli altri

e di loro stessi: si credono amanti perfetti e valorosi, ma quando hanno la possibilità di scontrarsi con i loro rivali, si lasciano facilmente distogliere dal proposito.35

Don Gómez

Se Lucia è accecata dalla gelosia e dall'amore, don Gómez lo è dalla vendette e, soprattutto, dalla sete di denaro. La sua avidità è smodata: accetta di interrompere il lutto per la morte del figlio per recarsi in visita al ricco amico al quale, nonostante la differenza di età, è intenzionato a concedere la mano della figlia, dato che «no es viejo el interés» (v. 216), ed è, alla fine, l'eredità di don Felipe che lo convince a trasformare l'odio per l'assassino in amore. Insomma, a ben vedere, assomiglia molto ad altri padri presenti nelle commedie di Tirso. Si, veda per esempio, la commedia Don Gil de las calzas verdes36 (praticamente contemporanea a Marta la piadosa), in cui i due vecchi

don Pedro e don Diego, padri rispettivamente di donna Inés e don Martín, sono disposti a sacrificare i reali interessi dei figli, decidendo del loro destino e facendo dell'interesse economico il movente delle unioni matrimoniali.

Ma, in Marta la piadosa, chi non ha il controllo sui proprio impulsi è destinato a soccombere. Infatti, Marta e Felipe sfruttano proprio questa cieca sete di denaro del vecchio ai fini del loro imbroglio: con una promessa di vendetta e soprattutto di ricompensa Pastrana\Juan de Mendoza lo convince ad allontanarsi da Madrid alla volta di Siviglia. Le caratteristiche negative di don Gómez non si fermano, comunque, alla cupidigia: è dispotico, tiranno, severo, estremamente preoccupato del giudizio altrui.

33 Vitse, "Introducción...", cit. p. 75. 34 Vitse, "Introducción...", cit. p. 75.

35 Si veda l'episodio in cui don Juan vedendo l'alfiere, suo rivale per l'amore di Lucia, lo vorrebbe sfidare, ma sono sufficienti pochi gesti e parole del fratello per farlo desistere.

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Cerca costantemente di nascondere questi difetti sotto una «capa de virtud»37: definisce

un giusto castigo la sua sete di vendetta, mostra di volere il bene delle proprie figlie quando, in realtà, mira solo ai propri interessi. La sua ipocrisia nel simulare un ruolo che non gli appartiene, quello di severo ma giusto e rispettabile padre e guida della famiglia, è talmente smisurata che egli stesso cade vittima delle sue menzogne e perde di vista la realtà delle cose: crede davvero nella sua autorità paterna e nella obbedienza delle sue figlie, ma il più delle volte si ritrova ad accettare come proprie decisione ciò che non può evitare (il voto di castità di Marta, l'ingresso in casa di Berrío), con il risultato di essere costantemente messo in ridicolo.

Il capitano Urbina

Nelle coppie antitetiche che formano lo schema dei personaggi dell'opera (Marta vs Lucia, Felipe e l'alfiere vs don Juan e don Diego), il vecchio Urbina, risulta, senz'altro, essere l'opposto di don Gómez. Il capitano è, infatti, generoso; caratteristica che sorprende doppiamente se si pensa che contrasta con due topoi del teatro del siglo de oro: l'avarizia dei vecchi e quella degli indiani38: Urbina fa, all'inizio dell'opera, ritorno

dalle Indie, dove ha accumulato grandi ricchezze.

Inoltre, se l'avaro padre resta identico e fedele a se stesso dall'inizio alla fine, risultando senza dubbio un personaggio statico, Urbina compie una notevole evoluzione: passa da essere un viejo verde, che pretende di sposare la giovane Marta, a provare per lei un amore «ya no humano, mas divino» (vv. 1196); è lui a dimostrare alla ragazza l'affetto paterno che ci si aspetta dal genitore: la incoraggia con sincerità nelle sue decisioni, la aiuta economicamente per le sue opere di bene e, alla fine, la perdona perfino di aver mentito, suggerendo a don Gómez di acconsentire alla nozze con don Felipe e svolgendo, quasi, la funzione di un deus ex machina.

37 Vitse, "Introducción...", cit. p. 73.

38 Secondo quanto illustra Miguel Herrero García in Ideas de los españoles del siglo XVII, Madrid, Gredos, 1966, 312-317.

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La ricezione

La storia della ricezione39 di Marta la piadosa si può articolare in due fasi, legate alla

doppia interpretazione dell'ipocrisia della protagonista. In un primo momento è stata considerata dalla critica una «comedia agridulce y más bien ácida»40, appartenente al

sub-genere delle commedie di carattere o di satira. Successivamente, solo a partire dagli anni '70, si è decretato il suo annoveramento tra le così dette commedie de capa y espada,41 genere, così definito da Arellano:

una commedia de tema amoroso, que pone en escena los amores de damas y caballeros particulares, es decir, que tiene personajes de clase media, no grandes príncipes, como la tragedia, ni tampoco plebeyos, como el entremés; personajes de la misma época que el dramaturgo y el público, que visten las ropas del tiempo y que viven unas aventuras bastante enredadas, llenas de engaños, errores de personajes, persecuciones de padres enfadados, desafíos y duelos de honor, etcétera.42

I numerosi studi che sostengono il fine severo, moralizzante e critico nei confronti della società di Tirso insistono, essenzialmente, sulla finta devozione e la tercería. Ma, come sostiene Vitse, «no en la materia de las acciones representadas reside el principio clasificador, sino en la naturaleza del efecto dominante producido sobre el público »43,

nell'orizzonte di aspettativa dello spettatore.

Che l'obbiettivo di Tirso sia apertamente ludico e giocoso lo dimostrano i frequenti giochi di parole e doppi sensi. Intento confermato sia nel titolo (tratto da un modo di dire registrato da Correas44), che nella battuta di commiato della commedia. In essa,

39 Ignacio Arllano in “Tragicidad y comicidad en la comedia de capa y espada : Marta la piadosa de Tirso de Molina”, Bulletin Hispanique. 91, 2, 1989. pp. 279-294, offre un esaustivo e preciso resoconto delle varie posizioni in merito.

40 Ducan Moir, Histoira de la literatura española, 3, Madrid, Ariel, 1974, pp. 159, citato da Arellano, “Indroducción a Marta la piadosa”, op. Cit. pp. 26.

41 Dette anche comedia de enredo o de intriga, in riferimento alla tecnica costruttiva.

Sulle caratteristiche della commedia de capa y espada si vedano i due studi di Ignacio Arellano, "La comdia de capa y espada (el género y su interpretación)", in Obligados y ofendidos, Francisco de

Rojas Zorrillas, Madrid, Editorial Fundamentos, 2000 pp.11-36 e "La comedia de capa y espada de

Tirso o el dominio del ingenio", in Tirso en el siglo XXI , Insula 681, settembre 2003, pp. 14-17. 42 Arellano, "La comdia de capa y espada ...", cit, p.13.

43 Vitse, «Notas sobre la tragedia áurea », Criticón, 23, 1983, 15-33 citato da Arellano, cit.. p 294. 44 Gonzalo Correas Vocabulario de refranes y frases proverbiales (1627) ; edición de Louis Combet

revisada por Robert Jammes y Maïté Mir-Andreu, Castalla, Madrid, 2000: «Marta la piadosa. (Dícese á personas piadosas, y á veces con ironía, y reprende imprudencias y blanduras dañosas.) ».

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Felipe l'assassino, rivela di essersi inventato la malattia con cui è riuscito ad entrare in casa di Marta e chiede, con una formula topica e per nulla tragica, la comprensione dello spettatore per le mancanze dell'autore.

Con la comedia se acaba de mi Marta la piadosa

mi mal, si no nuestras faltas. (vv. 3045-3047)

Nel sistema convenzionale della commedia de enredo, (definizione che Arellano utilizza indistintamente da quella di capa y espada) la morte, la religione, la tirannia del padre, il tradimento, il rifiuto dell'amata prescindono da ogni implicazione personale, psicologica ed emotiva; sono solamente una «estructura matemática que no tiene nada que ver con la naturaleza, ni con la "vida"»45.

In questo contesto l'omicidio del fratello, considerato da J. W. Albrecht un fatto che getta una luce truce e grave su tutta la rappresentazione, poiché «for a sister, to marry her brother's murderer is unacceptable»46, non è altro che un espediente teatrale, il punto

di partenza della tensione scenica e degli inganni che rendono la trama avvincente e interessante, «lances que permiten y facilitan la composición de tramas ingeniosas.»47.

Non ha nessun altra funzione se non quella di «imprescindible recurso teatral que permite mantener vivos la suspensión del interés y el ritmo de la obra.»48. Il fatto che

Felipe abbia assassinato don Antonio, il fratello di Marta, rappresenta un ostacolo al loro amore, una complicazione, forse più difficile da aggirare di altre a livello scenico, ma non psicologico. Numerosi elementi, infatti, attenuano la potenziale drammaticità dell'evento: Tirso omette una qualunque spiegazione del fatto, non fa mai trapelare un reale conflitto interiore nelle giovani, comunque innamorate del colpevole del loro lutto. Persino don Gómez si consola facilmente, dimenticando per interesse e denaro la triste fine del figlio; in sostanza, come sostiene Casal, «disminuye la importancia de la muerte del hermano al trasladar la atención del espectador a otros asuntos.»49

45 Arellano “Tragicidad y comicidad en la comedia de capa y espada...”, cit. p. 294.

46 Jane White Albrecht “The Satiric Irony of Marta la piadosa”, Bulletin of the Comediantes 39,1, Summer 1987, pp. 37-45.

47 Arellano “Tragicidad y comicidad en la comedia de capa y espada...”, cit. p. 287. 48 Vitse, "Introducción...", cit. p. 287.

49 Frank P. CasaI, "Marta la piadosa y la comedia de carácter”, Oteiza, B. y Zugasti, M. (eds.), El

ingenio cómico de Tirso de Molina : Actas del Congreso Internacional, Pamplona, Universidad de

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Anche il tema della tercería, in qualche modo presente nell'opera, non è da intendersi come una severa critica morale ai costumi sociali. Quando Pastrana dice:

[…] Y yo soy ya

Celestino de Calisto(vv. 1629-1630).

la sua battuta va intesa per quella che è, ovvero la burla e il gioco di un gracioso. Il suo identificarsi con un mezzano è niente più di un chiste, in quanto, come asserisce Arellano, «la tercería difícilmente puede contribuir a la tragedia o a la condena moral en este tipo de teatro »50.

Condanna morale che non riguarda, neppure, la finta devozione di Marta, presentata come una delle tante astuzie ingegnose per poter raggiungere il proprio scopo, che si differenzia da altri disfraces solo a livello di efficacia, perché contro un voto «ni el padre ni la sociedad se atreven a luchar».51 In questo senso, come si è già accennato, sia

la definizione di comedia de carácter, quanto quella di satira moralizzante o addirittura di tragicommedia, non si può applicare a Marta la piadosa: i protagonisti di questo genere di drammi sono individui accecati e ossessionati da una mania o da un aspetto del loro carattere: nulla di più lontano dalla protagonista dell'opera. A confermare questa posizione, Pedraza definisce Marta la piadosa un «acabado ejemplo de la inverosimilitud moral»52.

Appare, in conclusione, chiaro, come evidenzia Casal, che gli aspetti considerati, spesso, come anomali «no están presentes para llevarnos a una reflexión sobre la moralidad y la religión sino para construir el andamiaje teatral necesario»53 e che l'opera

è, a tutti gli effetti, una commedia, di cui presenta motivi e personaggi codificati:

el padre autoritario y fácilmente engañado, el conflicto entre el amante y el padre, las astucias del gracioso, la rebelión de la joven, el amor desigual entre joven y viejo, los amoríos de los jóvenes ante los ojos del padre, la introducción del amante por medio de una astucia en la casa de la amada, la cómica lección de gramática latina y la derrota final del elemento tradicionalista

cit. p. 67.

50 Arellano “Tragicidad y comicidad en la comedia de capa y espada...”, cit. p. 290. 51 Frank P. CasaI, «"Marta la piadosa" y la comedia de carácter», cit. p. 67. 52 Pedraza, F., B., “Marta la Piadosa. Desequilibrios estructurales...”, cit, p. 248. 53 CasaI, "Marta la piadosa y la comedia de carácter”, cit. p. 68.

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utilizando sus propias armas.54

L'ingegno

Il principio fondatore della trama di questa commedia non è, quindi la critica all'ipocrisia religiosa ma, come afferma in maniera convincente Vitse e conferma, tra gli atri, Arellano, l'esaltazione dell'ingegno: «es el ingenio el principio rector que diseña el proceso de la acción»55, l'unica arma capace di salvare i protagonisti dalle situazione di

pericolo.

Ma non tutto l'ingegno (o meglio il presunto tale) trionfa; alcuni piani non sono altro che vili bugie, come la menzogna che don Gómez racconta alle figlie per recarsi a Illesca e non svelare i propri intenti. In questo caso non c'entra l'acutezza, non c'entra l'intelligenza e l'imbroglio è destinato a fallire.

Perché l'ingegno abbia successo deve essere legittimato, ovvero, possedere due caratteristiche: avere uno scopo accettabile ed essere una vera dimostrazione di arguzia. Nel genere della commedia di capa y espada è ammissibile ciò che porta al trionfo della gioventù sulla vecchiaia, dell'amore sull'interesse: vecchi e avidi non hanno diritto all'ingegno, mezzo utile esclusivamente al ricambio generazionale. Al tempo stesso, perché un intrigo riesca deve tener conto delle circostanze non previste adottando la tecnica della improvisación ingeniosa, molto coerente con le esigenze di una comedia de enredoe. È la stessa Marta a sostenere che tutto sia un gioco uguale a quello delle carte, in cui la pazienza e la sorte rivestono un ruolo fondamentale:

No se puede remediar todo en una coyuntura. Remítase a la ventura

como el juego del parar. (vv. 1827-1830)

54 CasaI, "Marta la piadosa y la comedia de carácter”, cit. p. 64.

55 Ignacio Arellano, “La fuerza del ingenio en la comedia de capa y espada de Tirso”, in Felipe B. Pedraza Jiménez, Rafael González Cañal y Elena Marcello (eds.). Tirso, de capa y espada. Actas de

las XXVI Jornadas de Teatro Clásico, Almagro, Universidad de Castilla-La Mancha, 2004: pp. 55-81;

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Non è casuale il doppio senso del termine parar. Esso indica sia l'infinito del verbo, che ci rimanda direttamente sia al tema dell'attesa già presente nei sonetti iniziali, sia a un gioco di carte così spiegato dal Diccionario de autoridades

Juego de naipes, que se hace entre muchas personas, sacando el que le lleva una carta de la baraja, a la qual apuestan lo que quieren los demás (que si es encuentro como de Rey y Rey, gana el que lleva el náipe) y si sale primero la de este, gana la parada, y la pierde si sale el de los paradores.56.

Un gioco collettivo, che è una vera e propria prova di intelligenza, di cui solo Marta, Felipe e Pastrana conoscono le regole e che consiste nello sfruttare le complicazioni della sorte a proprio vantaggio senza esserne travolti. Complicazioni che si fanno via via più frequenti portando a una rapida accelerazione del ritmo e degli espedienti per superarle.

La comicità e il linguaggio

Se l'ingegno è un gioco, la sua messa in atto non può portare che ad un universo totalmente pacificato, ossia, come lo definisce Vitse un universo lúdico57, di cui la

conciliazione finale è solo un aspetto. Il clima generale dell'opera è leggero, disimpegnato e giocoso grazie alla risata, che, come si è detto, annulla sistematicamente ogni implicazione potenzialmente tragica. L'ambiente è reso allegro non solo dalla presenza di motivi tipici della commedia (il padre avaro, gli scherzi del gracioso, il progettato matrimonio tra un vecchio e una giovane), ma, soprattutto, dall'uso arguto e ludico del linguaggio. Come afferma Arellano in Marta la piadosa «la riqueza de los medios lingüísticos que llegan al malabarismo verbal conforman un universo de plenitud lúdica»58

56 Real Academia Española Diccionario de autoridades, Madrid, Gredos, 1963. 57 Vitse, “Introducción...”, cit, p. 83.

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Il dominio del linguaggio spicca nei personaggi ingegnosi come Marta, Felipe, Pastrana (soprattutto), e si manifesta con giochi di parole, proverbi, uso delle lingue straniere. Sempre a questo proposito asserisce Arellano: «La comedia de capa y espada es el teritorio de la liberdad de acción y de la libertad lingüística. Una de la manifestaciones del ingenio consiste en el dominio del lenguaje.»59 Di seguito si

cercherà di riportare un elenco degli aspetti linguistici che più contribuiscono a creare la aptitud al juego, caratterizzante dell'opera e, più in generale, del genere della comedia de enredo.

Proverbi

La scelta di un nome (Marta) con un così grande potenziale paremiologico e di un titolo (Marta la piadosa) che ricorre in numerosi proverbi, è senza dubbio significativa: permette a Tirso di anticipare il reale carattere della protagonista. Si suppone che all'epoca anche uno spettatore poco attento e non molto istruito fosse a conoscenza dei numerosi modi di dire connessi con Marta, tutti legati alla sua connotazione ambigua ed ipocrita e che, dunque, l'orizzonte di attesa fosse quello di trovarsi davanti un personaggio non proprio piadoso.

L'origine del trattamento poco nobile riservato nella tradizione popolare al nome Marta va rintracciata nel Vangelo. Maria e Marta, le sorelle dell'infermo Lazzaro, accolgono Gesù chiedendogli di guarirlo. La prima dimostra un'indole contemplativa, mentre l'altra svolge il ruolo di vera padrona di casa: attiva e affaccendata nei compiti domestici, ma al tempo stesso distratta e poco attenta ai racconti del Messia:

Mentre erano in cammino, entrò in un villaggio e una donna, di nome Marta, lo accolse

nella sua casa. Essa aveva una sorella, di nome Maria, la quale, sedutasi ai piedi di Gesù, ascoltava la sua parola; Marta invece era tutta presa dai molti servizi. Pertanto, fattasi avanti, disse: «Signore, non ti curi che mia sorella mi ha lasciata sola a servire? Dille dunque che mi aiuti». Ma Gesù le rispose: «Marta, Marta, tu ti preoccupi e ti agiti per molte cose, ma una sola è la cosa di cui c'è bisogno. Maria si è scelta la parte migliore, che non le sarà tolta».60

Nell'immaginario collettivo e folclorico l'immagine evangelica è degradata ed

59 Arellano “La fuerza del ingenio...”, cit., p. 74. 60 Luca 10,38-42.

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esasperata e Marta diventa poco più di una locandiera, connessa con tutto ciò che è materiale, volgare, edonista: è una donna viziosa, golosa, lussuriosa e, contemporaneamente, attenta a nascondere tutto ciò fingendo ipocritamente di occuparsi dei bisogni altrui. Succede che, come afferma Iglesias Ovejero in un articolo dedicato alla presenza di nomi propri nei proverbi, «Se invierten los modelos culturales, evangélicos o coránicos, de María, Marta o Aja, y en su vision diabólica»61. L'attività

della padrona di casa è trasformata nella «cobertura hipócrita de una realidad de mujeres viejas y malignas en el dominio del saber, putas y voraces sexuales en el amar.»62

Sbarbi nel Diccionario de Refranes, Adagios, Proverbios Modismos, Locuciones y Frases Proverbiales de la Lengua Española spiega cosi l'espressione “Parecerse a Marta la piadosa”.

Frase con que se apellida irónicamente a la persona, especialmente si es mujer hipócrita y gazmoña, que, aparentando interesarse por los duelos ajenos, busca realmente su conveniencia. Es muy probable que haya existido con este nombre alguna de tantas beatas hipócritas y farsantes, como no han faltado, ni faltan por desgracia, haciendo su negocio so capa de religión; pues en manera alguna debe referirse el signi- ficado de esta frase a Marta la hermana de María y Lázaro, la cual, ejerciendo el hospedaje más desinteresado y caritativo con Jesús, y siendo el tipo de la vida activa en sentir de los Santos Padres,así como su hermana de la contemplativa, mereció ser elevada a los altares.63

Da questa definizione, poi, derivano numerose varianti in cui il nome di Marta è personificazione di una pietà apparente, di un finto interesse per i deboli, utilizzato come copertura per poter soddisfare un'avidità di cibo smodata e animalesca. Emblematico, a questo riguardo, che marta significhi anche «Mamífero carnicero»64 .

Registra Correas:

Marta la piadosa que mascaba el miel a los dolientes. (p.442)

Marta la piadosa que daba el caldo a los ahorcados (p.442)

61 Ángel Iglesias Ovejero “Figuración proverbial e inversión en los nombres propios del refranero antiguo : figurillas populares”, Criticón, num. 35, 1986, cit. p. 87.

62 Ovejero “Figuración proverbial...”, cit. p. 87.

63 José María Sbarbi Diccionario de refranes, adagios, proverbios, modismos, locuciones, y frases

proverbiales de la lengua española.(1891), tomo II, Madrid, 1922. cit. pag. 41.

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Marta la piadosa que daba el vino a los enfermos (p.442)

Beffati dalla finta attenzione di Marta sono anche i suoi polli poiché: «Los pollos de Marta piden pan y danles agua». Gli avicoli sono attributo che compare spesso vicino al nome della donna: l'allevamento è una tipica occupazione pratica e domestica, vicina a tutto ciò che il nome Marta suggerisce, ma assume in questo caso una connotazione negativa.

Marta, la que los pollos harta. (A desdén de la impertinente.) 65

Allá se lo haya Marta con sus pollos. Modo de dejar al cuidado ajeno lo- que no nos atañe o

importa.66

Altro animale accostato al nome della donna è la scimmia, forse per la sua proverbiale capacità di fingere e fare smorfie o forse perché il termine mona si lega alla vera devozione della Marta proverbiale: quella verso il vino. Infatti così (mona) si chiama «En estilo jocoso y familiar [...] la embriaguez o borrachera. Y tambien se llama assí al que la padece o está borracho»67 .

A questo proposito è particolarmente interessante l'uso che Tirso fa del verbo cocar, che significa fare moine e smancerie per dimostrare il proprio affetto all'innamorato. L'espressione ricorre due volte: una all'inizio e l'altra alla fine dell'opera, come se segnasse il percorso «desde unos cocos imposibilitados hasta otros cocos logrados»68.

Ma tra questi due momenti appaiono altre accezioni del termine cocos, riferito al materiale con cui si fanno i rosari e al detto onomatopeico relativo al verso che fa la scimmia per spaventare i bambini “Cócale, Marta. (Marta por monas)”; così spiegato da Sbarbi:

Del griego coccuzo, que significa lo mesmo; mas cocar la mona, del co, que suena cuando lo

65 Gonzalo Correas Vocabulario de refranes y frases proverbiales (1627) ; edición de Louis Combet revisada por Robert Jammes y Maïté Mir-Andreu, Castalla, Madrid, 2000.

66 José María Sbarbi Diccionario de refranes.., cit. pag. 40.

67 Diccionario de autoridades, por la Real Academia Española, ed. facsimil, Madrid, Gredos, 1963-1964.

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hace.69

Con queste poche ricorrenze Tirso riesce a sviluppare l'opposizione tra devozione e intenti amorosi e tra realtà e apparenza, in modo comico e per nulla moralistico, giocando, appunto, con l'ambiguità linguistica di una frase proverbiale. La Marta della commedia è un personaggio più complesso e articolato di quella dei proverbi: non è la personificazione appiattita e ridicola dell'ipocrisia, ma una giovane intelligente e astuta che sa difendere con ogni mezzo (anche quello dell'imbroglio) la propria libertà di scelta di fronte a una società arcaica e opprimente. A tal riguardo sostiene Marta Aznar:

El discurso lingüístico de refrán no determina en sí mismo y por completo el discurso abierto de la comedia, que engloba aún más. La hipocresía no es el tema esencial que aquí se plantea sino que éste se centra en el triunfo de una joven frente a una sociedad arcaica y opresora, ante la que no queda más remedio que hacer uso del disfraz70.

In questo modo la vicenda di Marta che, innamorata di Felipe, fa il verso alle donne pie per poter evitare gli ostacoli che la separano dal giovane, assume toni ironici e divertenti.

L'imitazione della ragazza appare grottesca anche ai due vecchi: commentando tra loro i vari cambiamenti di Marta, essi si meravigliano del suo ostinarsi a restare casta pur senza prendere i voti restando, secondo Urbina ni carne ni pescado; modo di dire così spiegato da Sbarbi «No tener carácter determinado, o no ser útil para nada»71. Ciò

che soprattutto turba il vecchio padre è che Marta «mientras hay perdiz no come/ vaca» (vv. 1059-1060). Con riferimento da una parte alla carne deliziosa della pernice a cui la ragazza non ha rinunciato, dall'altra a un proverbio (o perdiz o no comerla), che, secondo Sbarbi,

Expresa que para sacarle el gusto a dicho delicado manjar, es preciso comerse una perdiz entera, pues de no ser así, no vale la pena tomar un pedazo. Más claro: que no se debe repartir con nadie.

69 Sbarbi Diccionario de Refranes...

70 Marta Muñoz Aznar, “Textos literarios y personajes paremiológicos”, Paremia, 5, Madrid, 1996, pp. 193-198, cit. pp. 195-196.

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Così come Marta non vuole dividere con Lucia l'innamorato.

L'elemento animalesco è richiamato, in tutt'altra situazione, da Pastrana, che cerca di convincere Felipe a scappare lontano da don Gómez per non fare la fine delle vacas de bodas, per indicare le paura che tutti se la rifacciano con loro. Sbarbi, infatti, spiega questo modo di dire come riferito «la persona a quien todos acuden en sus urgencias72

I giochi di parole

I giochi di parole costituiscono uno dei campi di elaborazione comica più proficuo e abbondante in Tirso, il quale spesso sembra condurre «la elaboración artística a partir de una palabra, expresión, imagen»73. Senza dubbio questo ambito è dominio del gracioso,74 principale creatore dell'ambiente leggero tipico della commedia, ma come

già detto, anche Marta e Felipe con la loro arguzia e velocità di reazione nel creare un intrigo che parte dalla parola, sono depositari di questa attitudine ludica. Numerosi sono gli esempi che lo dimostrano, ma fornire un elenco completo di tutte le ambiguità linguistiche dell'opera non sembra molto fruttuoso. Sarà, piuttosto, utile notare come Vitse che «equívocos y gracias adquieren una virtud reveladora de la personalidad de los protagonistas»75. Si prenda ad esempio don Gómez che, pieno di gioia, commenta

scherzosamente l'auspicabile matrimonio della figlia con il capitano:

pero bien podrá pasar con tanta ropa este invierno mi hija; que de ella fío que ha de hacer el gusto mío y de el que escribe esta carta; que es viejo, y compra esta marta para remediar su frío. (vv. 223-229).

Nel doppio senso del termine marta (nome proprio e “martora”, animale da pelliccia ) si manifesta, in modo sempre ironico, la disumanizzazione della giovane, la

72 Sbarbi Diccionario de Refranes... cit. pag 526 (tomo II). 73 Vitse, “Introducción...”, cit, p. 86.

74 Sul ruolo comico del gracioso si veda Barbara von Kinter, Die Figur des Gracioso im spanischen

Theater des 17° Jahrhunderts. München, Fink, 1978.

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sua degradazione, la subordinazione dell'affetto paterno all'interesse.76 Il nome di Marta

appare particolarmente adatto a ironiche assonanze. Don Juan, per convincere l'amico che amare la protagonista gli porterà solo guai, gli ricorda che «va muy poco de Marta a martes.»(vv. 1717- 1718); giocando sulla tradizione popolare che vede nel martedì e nel venerdì due giorni funesti.77

Qualche anno dopo ne El amor médico78, sarà ancora il nome Marta ad offrire a Tirso

la possibilità di esprimere quella che Nougué chiama «liberdad lingüística»79; in questo

caso attraverso la creazione di un neologismo: il verbo desenmartar. Non sorprende che questo termine inventato esca dalla bocca del gracioso, Tello. Esso suggerisce al padrone Gaspar di allontanarsi da Marta, la donna che ama (che, in realtà, altri non è che la protagonista Jerónima travestita) con questa parole:

Por mí vaya, mientras pasa otra que en todo distinta e pique por despicarte destotra y nos desenmarte;

vendrá a ser la dama quinta (vv. 2774-2767).80

Tirso, con il suo gusto per il neologismo, adotta la strategia di creare un verbo a partire dal nome di un personaggio. Nel caso specifico desenmartar è così spiegato da Nuogué:

Formado con el nombre Marta. El gracioso Tello quiere decir: y nos aleje de Marta.81

Ma la tendenza di Tirso a giocare con i nomi propri riguarda anche gli altri personaggi: l'alfiere dà «alferecía» (v. 2536), Florín è un uomo il cui «nombre florece» (vv.471-472, l'illustre Fajardo è una «faja» (v. 1158) che avvolge il cielo e Lucia è

76 È forse opportuno sottolineare, ancora una volta, che questi temi non vanno inteso in chiave psicologica, ma ludica e chistosa.

77 Questa credenza è diffusa anche in Italia, si pensi al proverbio “ne di venere ne di marte ci si sposa o si parte”.

78 Come afferma Arellano nella sua introduzione a El amor médico in Tirso de Molina, Obras

completas, cuarta parte de comedia, Madrid, revista Estudio, Pamplona, Griso, 1999, pp.651-685, pur

se il dibattito sulla datazione esatta di questa commedia è ancora aperto, essa è, certamente, successiva al 1616.

79 André Nougué, “La liberdad lingüística en el teatro de Tirso de Molina: el Verbo”, in Homenaje a

Tirso, Madrid, revista Estudios, 1981, pp. 239-267.

80 Tirso de Molina, “El amor médico” in Obras completas... 81 André Nougué, “La liberdad lingüística...”, cit. p. 249.

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sistematicamente accostata alla luce:

Si es ésta doña Lucía,

a su luz soy mariposa (vv. 586-587).

Lucía, luz de mis ojos (v.2225).

Engaña a este majadero que cual mariposa llega,

Lucía, a tu luz hermosa (vv. 2527-2529).

¡Que el nombre merecí de vuestro amante y ver la luz, Lucía, que lucía

desde que os vio mi alma el primer día

más que el sol en su esfera radiante (vv. 2541-2544)!

que sin Lucía,

iba sin luz, y sin día (vv. 2856-2857).

La messa in risalto dell'etimologia del nome Lucia, derivante, appunto dal latino lux, risulta essere fortemente ridicola se si considera che la ragazza è, invece, annebbiata dalla gelosia e dall'amore. La sorella di Marta, incapace fino all'ultimo di vedere chiaramente l'imbroglio dei due innamorati in cui era stata coinvolta, richiama alla mente, piuttosto, Santa Lucia, la patrona dei ciechi.

Anche la toponomastica offre spunti per ironiche assonanze: il Manzanarre, fiume madrileno oggetto di burle e satire dell'epoca per la tendenza a seccarsi completamente durante l'estate, con un gioco antifrastico diventa «mar, que esas letras tiene en sí» (vv. 2580-2581), poiché del mare ha, se non l'abbondanza di acque, le lettere.

Altre volte l'ambiguità del linguaggio ha il compito di coprire l'imbroglio e, al tempo stesso, di ridicolizzare le vittime; si pensi al finto precettore e alla finta devota che, davanti a Lucia, coniugano amor amoris, o a Marta, fintamente casta, decisa a rimanere tale «hasta que en la virgen tierra/ me entierren a la vejez» (vv. 1003-1004). Altre ancora hanno una funzione scenica, come quando Marta mal interpreta l'appellativo

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prenda e crede di dover sposare l'alfiere. Ma in tutti i casi rivela, come sottolinea Arellano, «la dimensión esencialmente lúdica y entretenida del artificio ingenioso (nada más, pero nada menos) que con tanta perfección ha construido Tirso.»82

Svalutazione, parodia e abbassamento

Abito non solo privilegiato, ma addirittura esclusivo del gracioso è la svalutazione ironica di valori considerati alti, primo fra tutti quello dell'onore.

Pur se Pastrana non si azzarda mai a ironizzare sul grande atto eroico della Spagna dell'epoca (la presa della Mamora), la sua parodia nei confronti della gloria è costante. Egli incita Felipe a «tomar los sabios consejos/ que al prudente da el temor» (vv. 391, 392); di fronte al suo nobile salvataggio dell'alfiere parla di «desatinada temeridad» (vv. 736-737) e ridicolizza Felipe chiamandolo matatoros:

Pues, matatoros, locura

ha sido aquesta extremada (vv. 820-821),

e questo solo per fare alcuni esempi. Lontano da qualsiasi intento sovversivo, tale scherzoso e sminuente appellativo ha la funzione, oltre che ovviamente di divertire, di mettere ancor più in evidenza il vero coraggio di Felipe confrontandolo con la vera codardia di Pastrana.

Altro aspetto che il gracioso prende di mira è l'amore romantico e i suoi topici comportamenti, sia maschili che femminili. Pastrana prima chiama il suo padrone, con una metafora di origine petrarchesca, «ciega mariposa»83 (vv. 394), e dopo lo motteggia

paragonandolo a un torrone:

quedó en turrón trasformado, alajú por lo picado,

por lo dulce, de Alicante. (vv. 1583-1586).

Il parallelismo grottesco tra la sfera culinaria e quella amorosa continua quando

82 Arellano, “Tragicidad y comicidad en la comedia de capa y espada...” , cit. p. 294.

83 Sulla genesi e l'evoluzione della metafora della farfalla bruciata e accecata dal fuoco dell'amore si veda l'articolo di José Manuel Pedrosa, “La mariposa, el amor y el fuego: de Petrarca y Lope a Dostoievski y Argullol”, Criticón, 87-88-89, 2003, pp. 649-660.

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Pastrana propone la sua personale visione dell'amore e del corteggiamento a donna Inés, dicendole che non si accontenterà degli avanzi, ma vorrà l'intera porzione.

Estando en folla,

no me alumbro a luz de pajas. Ni como las zarandajas

si no es tumbando la olla. (vv. 1643- 1646)

Alla stessa donna Inés si era rivolto, poco prima, parodizzando le ripulse schifiltose delle donne alle avances maschili:

«Estése quedo.»

«Aparte, que me da miedo.» «No pellizque, mal haya él.» «Sea cortés, si tiene amor. «¿Mas que este chapín le arrojo? «No chéo.» «A fe, si me enojo!»

«Mire que vendrá señor.» (vv. 1636-1642).

Il linguaggio svalutativo di Pastrana registra, anche, numerosi neologismi: è così non parla di cavalieri ma di damos (vv. 420), non di gelosia ma di celambre (vv. 505), burlandosi del parlare appassionato e altisonante degli altri personaggi.

Giochi intertestuali.

Altro elemento interessante è la presenza di rimandi, più o meno burleschi, ad altre opere, alcune delle quasi contemporanee (come il Quijote), altre precedenti, come i romance e la Celestina.

Nella commedia si fa riferimento a Galván e Galalón, personaggi rispettivamente del Romances de Gaiferos e della Chanson de Roland84. Al primo si allude in due occasioni:

quando Pastrana suggerisce a Felipe di mascherarsi e partire per la Mamora

que a un distraído soldado

84 La canzone di Rolando, traduzione, a cura di Mario Bensi, introduzione di Cesare Segre, traduzione di Renzo lo Cascio, Milano, BUR, 1985.

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