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2) PREMESSE TEORICHE: INNOVAZIONE E SUE MISURE, IL SETTORE SOFTWARE, IL FENOMENO OPEN SOURCE

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2) PREMESSE TEORICHE: INNOVAZIONE E SUE MISURE, IL SETTORE

SOFTWARE, IL FENOMENO OPEN SOURCE

2.1 Introduzione

La tematica dell’innovazione, pur essendo materia di studio da ormai molti anni, continua ad essere accanitamente discussa a causa di più di un aspetto ancora controverso. Le maggiori difficoltà che si riscontrano nel comparare lavori anche analoghi stanno nei differenti usi di termini come “innovazione” e “innovatività”, nelle differenti definizioni di cosa sia un’innovazione radicale piuttosto che incrementale: ne conseguono risultati non sempre concordi pur su campioni analoghi. Il presente capitolo si pone, dunque, l’obiettivo di offrire una visione d’insieme delle più diffuse convenzioni, cercando di porre luce sui punti maggiormente controversi e sulle differenti prospettive da cui il problema dell’innovazione può essere studiato.

Dopo aver fornito le iniziali definizioni, vengono proposte differenti classificazioni per l’innovazione e, a seguire, le principali categorie di indicatori attualmente utilizzati. Pur fornendo informazioni esaustive su ciascuna di esse, sono due in particolare ad essere approfondite in specifici paragrafi: una tradizionale, ovvero le proprietà intellettuali e, in particolare, i brevetti (l’indicatore che vanta più profondità storica ma che negli anni passati ha subito più di una critica), e una più recente (le pubblicazioni in riviste di settore intese come indice di propensione all’innovazione). La scelta di questi due metodi in particolare è stata dettata non solo dalla loro importanza e diffusione, ma anche dal fatto che entrambi saranno utilizzati all’interno del presente lavoro: ne saranno dimostrate le lacune per lo specifico caso in esame e la conseguente necessità di nuove soluzioni più specifiche.

Viene analizzato successivamente il processo innovativo all’interno del settore dei servizi e di quello del software. In entrambi i casi vengono proposti nuovi indicatori più funzionali e sono evidenziate alcune caratteristiche ed esigenze in comune tra i due ambiti. Prima di passare al fenomeno dell’Open Source viene riservato un paragrafo per affrontare le problematiche relative all’utilizzo del sistema dei diritti d’autore all’interno del settore software: vengono così forniti i differenti punti di vista a favore e a sfavore di questa soluzione.

Successivamente, il capitolo si concentra sull’Open Source: vengono evidenziate le caratteristiche delle comunità, nel tentativo di comprendere le dinamiche e gli sviluppi generali del settore, così come i tipi di licenze disponibili e il tipo di innovazione perseguita. Successivamente, l’analisi si conclude soffermandosi sui rapporti che le imprese possono instaurare con i progetti Open Source,

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sulle motivazioni che possono spingerle a prendere simili decisioni e sui meccanismi che si vengono ad instaurare, anche da un punto di vista puramente organizzativo. Saranno queste alcune delle tematiche che il presente lavoro cercherà di affrontare nei successivi capitoli.

2.2 Innovazione: definizioni e classificazioni

Il primo problema da affrontare, per chi decide di occuparsi di innovazione, è definire correttamente termini come prodotto veramente nuovo, innovativo, innovazione radicale e discontinua. In molti casi le definizioni sono in gran parte coincidenti e generano confusione nel mettere a confronto i risultati di lavori che utilizzano terminologie differenti. Una possibile motivazione risiede nel fatto che un numero consistente di lavori sono portati avanti da comunità accademiche, all’interno di ciascuna della quali esiste una convenzione che può non coincidere con quella utilizzata altrove. I problemi sono molteplici, non per ultimo il fatto che in alcuni studi non si vadano a scoprire nuove verità, quanto piuttosto a riscoprirne di già evidenziate, proprio a causa della difficoltà di fare comparazioni tra lavori. Dall’altro lato, poter avere un’informazione precisa sulla tipologia di innovazione da perseguire sarebbe utile per un manager che deve prendere decisioni anticipate in merito.

Prima di cominciare a definire le varie classificazioni è opportuno distinguere tra innovazione tecnologica e innovatività, due concetti spesso assimilati ma che al contrario nascondono differenti sfumature (Garcia e Calantone evidenziano questo specifico problema, con particolare riferimento alle definizioni presenti nell’OECD). Pur nella difficoltà di offrire una definizione che copra opportunamente settori tanto differenti (in particolare quelli della new economy, per la quale mal si adattano molti dei vecchi paradigmi), uno spunto interessante viene dall’OECD del 1991 dove si indica che “l’innovazione è un processo iterativo che inizia con la percezione di un nuovo mercato e/o di una nuova opportunità di servizio per un’invenzione basata sulla tecnologia che porta allo sviluppo, produzione e commercializzazione nell’ottica di un successo commerciale dell’innovazione stessa”. Gli aspetti interessanti da evidenziare sono due: l’iterazione del processo (alludendo dunque al concetto di alternanza tra nuove innovazioni e reintroduzione di miglioramenti) e l’importanza sia dell’aspetto tecnologico sia di quello commerciale. L’ampiezza stessa della definizione lascia spazio all’identificazione di più tipologie e gradazioni di innovazione, come anche l’accezione di “invenzione basata sulla tecnologia” lascia sottendere i casi di spunti provenienti dai campi dell’industria, dell’ingegneria, delle scienze pure ed applicate (comprendendo quindi pressoché tutti i campi di interesse, dall’industria farmaceutica a quella elettronica e dei

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sistemi informativi). Lo spunto offerto dall’OECD porta con sé anche la distinzione tra invenzione e innovazione, dove la prima può trasformarsi nella seconda solo dopo il processo di produzione e commercializzazione (senza dunque fermarsi alle fasi di studio in laboratorio).

Il continuo evolversi dello scenario costringe ad aggiustare la definizione stessa di innovazione: uno spunto interessante, per quanto emerso quasi trenta anni fa, viene da Utterback e Abernathy, che così descrivono il processo iterativo: “un’idea base che sottintende il modello proposto di innovazione di prodotto è quella i cui prodotti saranno sviluppati nel tempo in una modalità che si può prevedere con un’enfasi iniziale sulle performance del prodotto, poi sulla varietà e più tardi sulla standardizzazione e sui costi”. Questa definizione, per altro, introduce già l’importante distinzione tra innovazioni radicali (caratteristica della fase di introduzione iniziale) e incrementali (proprie delle fasi più avanzate di vita di un prodotto, prima che una nuova innovazione radicale non ne introduca un altro). Un altro punto di vista è quello di Kline e Rosenberg, che identificano tre caratteristiche principali dell’innovazione: non è un processo lineare, ma coinvolge molti collegamenti e feedback; è un processo di apprendimento che coinvolge molteplici input; non dipende dalla scoperta di nuovi principi. Un’altra definizione che riprende la componente commerciale insita nel concetto è fornita da Malerba, che sostiene: “da Schumpeter in poi, la distinzione tra invenzione ed innovazione è legata alla realizzazione tecnica e al conseguente sfruttamento commerciale di una nuova idea. In questa prospettiva, l’invenzione è una nuova idea, un nuovo sviluppo scientifico oppure una novità tecnologica che non è stata ancora realizzata tecnicamente e materialmente. La nascita di un’invenzione è spesso casuale e non indotta da motivazioni economiche o competitive. L’innovazione, al contrario, è la realizzazione dell’invenzione in un nuovo prodotto o processo produttivo ed il suo sfruttamento commerciale”. La trattazione prosegue, citando anche Freeman, con l’enunciazione che “l’innovazione comprende, dunque, la progettazione (design), la realizzazione fisica (manufacturing) e la commercializzazione (marketing) dell’invenzione. Non tutte le invenzioni si trasformano in innovazioni, e molte innovazioni non derivano direttamente da invenzioni”. Un ultimo spunto è quello offerto da Verganti, Calderini, Garrone e Palmieri, che nel loro “L’impresa dell’innovazione” analizzano in particolare i modelli aziendali ed organizzativi per perseguire l’innovazione, sostenendo che “l’innovazione è un’impresa, una sfida da affrontare con capacità per conseguire risultati economici e competitivi significativi. Un passaggio ineludibile per il successo ma anche – e sempre più, oggi – per la semplice sopravvivenza. Se l’innovazione è un’impresa, non c’è impresa senza innovazione”. Come accennato in precedenza, è da chiarire cosa si intenda con innovatività (termine poco elegante nella traduzione italiana dell’originale “innovativeness”) e in che cosa si differenzi dall’innovazione (innovation). L’innovatività, in generale, è vista come una misura del grado di novità di una

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determinata innovazione: esistono però innumerevoli interpretazioni sulla prospettiva da cui osservare il grado di novità e su cosa possa essere definito come realmente nuovo. Si potrà parlare, quindi, di nuovo per l’impresa, per l’unità produttiva, per il settore, per l’utente finale. Due prospettive generali possono essere evidenziate: una macro (intesa come capacità dell’innovazione di creare un nuovo paradigma per la scienza, la tecnologia o il mercato) e una micro (capacità di influenzare le esistenti risorse tecnologiche e commerciali, le conoscenze, le capacità o la strategia). È importante distinguere anche tra innovatività di prodotto e d’impresa: ci sono infatti casi di imprese che decidono di adottare una strategia imitativa, andando a migliorare le tecnologie e i prodotti introdotti da altri (un esempio è quello di Microsoft).

Definito dunque cosa possa essere interpretato come innovazione e cosa no, il passo successivo è quello di identificare le varie tipologie e caratterizzazioni in cui il problema può essere scomposto. Le categorie identificabili sono molteplici; Garcia e Calantone ne offrono un elenco, da cui possono essere estrapolate le più ricorrenti: incrementale/ modulare/ architetturale/ radicale, incrementale/ evoluzione di mercato/ evoluzione tecnologica/ radicale, continua/ discontinua, originale/ riformulata, radicale/ incrementale, sistematica/ maggiore/ minore/ incrementale/ non registrata, incrementale/ nuova generazione/ radicalmente nuova. Nuovamente emerge una mancanza di standardizzazione e una difficoltà nel comparare lavori che utilizzano etichette differenti per le medesime categorie di analisi (nel caso del lavoro appena citato, la suddivisione che emerge è quella tra innovazioni radicali, realmente nuove, discontinue ed imitative). Per chiarire meglio il problema può essere interessante osservare, nel dettaglio, le definizioni fornite da alcuni studi. Utterback identifica l’innovazione radicale o discontinua come quel “cambiamento che porta via buona parte dell’esistente investimento dell’impresa in capacità e conoscenza tecniche, design, tecnica produttiva, disposizione ed equipaggiamento”. Kleinschmidt e Cooper identificano tre livelli di innovazione: alta (prodotti e linee nuove per l’impresa e per il settore), moderata (nuove linee per l’impresa ma meno innovative e nuovi prodotti per le linee esistenti) e bassa (modifiche, riduzioni di costo, riposizionamenti). Rothwell e Gardiner si concentrano invece sulla distinzione tra innovazione e rinnovamento, fornendo per altro ulteriori sottocategorie che vanno a dettagliare i differenti impatti di tecnologia e materiali sui prodotti. Ad ulteriore riprova della mancanza di chiarezza su queste tematiche, Garcia e Calantone rilevano come applicando queste varie metodologie ad alcuni casi studio (un esempio portato è quello di una fotocopiatrice laser della Canon) si ottengono risultati tra loro discordanti. Nel medesimo articolo viene fornita una comparazione delle differenti prospettive da cui l’innovazione può essere studiata: macro/micro, ambito tecnologico o di marketing, fattori singoli o multipli, misurazioni per categorie o continue (generalmente con l’utilizzo di scale di Likert). Il lavoro sviluppato nel capitolo 4 si concentra su

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aspetti tecnologici (risiedendo in quell’ambito le informazioni a disposizione) con l’utilizzo di molteplici indicatori (in particolare ne sono individuati cinque), pur cercando di conservare per gli altri punti di vista la maggior possibile ampiezza di veduta: per informazioni specifiche e risultati si rimanda a quella sede.

È inoltre possibile affiancare la distinzione tra innovazione radicale e incrementale alle curve tecnologiche ad S introdotte da Foster, che rapportano la performance tecnologica con gli sforzi in ricerca e marketing: la prima risulta caratteristica delle prime fasi, la seconda della parte terminale del ciclo evolutivo. Identiche considerazioni potrebbero essere fatte se si costruisse una curva ad S per il marketing.

2.3 Misurare l’innovazione: classificazione degli indicatori

Il problema di misurare l’innovazione, data la sua natura prettamente qualitativa, è stato a lungo dibattuto, nel tentativo di trovare una metodologia che risultasse valida ed esaustiva al variare dei tempi (in particolare con l’introduzione della new economy), delle dimensioni di riferimento (imprese piccole o grandi), dei paesi e dei settori. Non esiste un metodo principe utilizzabile in ogni caso: ciascuno di essi ha dei punti di forza e dei limiti, così come dei contesti in cui più proficuamente può essere applicato. Il tentativo di questo paragrafo è dunque quello di identificare le caratteristiche dei principali, sia quelli più tradizionali (come i brevetti, con una storia secolare alle spalle), sia quelli di più recente introduzione, come l’indagine CIS (Community Innovation Survey), studio nato nella Comunità Europea e poi diffusosi rapidamente anche altrove.

Una difficoltà che si incontra, oltre alla già citata natura qualitativa della materia in esame, è il fatto che la stessa novità insita nel concetto di innovazione renda difficile effettuare delle comparazioni, premessa obbligatoria per poter costituire delle categorie o dei livelli che raggruppino entità analoghe tra loro. La stessa definizione di cosa debba essere considerato “nuovo” risulta un ulteriore spunto di riflessione: di questo tema già si è discusso in precedenza.

Una sommaria elencazione delle principali categorie che si possono riscontrare viene offerta da Smith:

• dati di R&D; • brevetti e similari;

• dati bibliometrici come pubblicazioni scientifiche e citazioni; • indicatori tecnometrici per misurare le prestazioni dei prodotti; • indicatori sintetici sviluppati da consulenti;

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• database specifici sviluppati da singoli o gruppi di ricerca.

L’analisi di tipo bibliometrico studia la composizione e la dinamica delle pubblicazioni scientifiche e delle citazioni in riviste/giornali/database di ambito specialistico. Questo tipo di indicatore, utilizzato anche in questo stesso lavoro, ha una più ampia trattazione in un paragrafo successivo, in riferimento ad uno studio in merito di Coombs, Narandren e Richards.

Le ricerche che si basano sui dati di ricerca e sviluppo (R&D) sono quelle che possono contare su un più vasto campo di informazioni a disposizione. Il documento chiave è lo “Standard Practice for Surveys of Research and Experimental Development”, conosciuto anche come il “Manuale Frascati” (dal nome della città che ospitò il meeting dell’OECD nel 2002): qui la R&D è definita come l’insieme delle attività di ricerca di base, applicata e dello sviluppo sperimentale, risultando quindi come comprendente sia la creazione di nuova conoscenza sia l’attuazione di nuove applicazioni pratiche. La definizione risulta però troppo generica, non riuscendo a definire esattamente cosa sia da considerarsi come R&D e cosa no; nello stesso documento si specifica poi che nelle attività legate alla ricerca e sviluppo esistono sempre un elemento di novità e la risoluzione di un’incertezza di natura scientifica e/o tecnologica. Come già accennato, un importante punto a favore nell’utilizzo di questi indicatori è dato dall’abbondanza di informazioni e dalla loro analiticità, così come dalla presenza di dettagliate sottoclassificazioni lungo differenti metriche; altri elementi positivi sono il lungo periodo entro il quale i dati sono stati raccolti e la buona armonizzazione tra differenti paesi. Il limite principale risiede nel fatto che questo strumento va a misurare un solo indicatore del processo innovativo, trascurando tutti gli altri elementi.

Un altro tipo di indicatori è quello delle proprietà intellettuali, in particolare i brevetti (in inglese patents), intesi come un contratto stipulato tra un inventore e un governo che garantisce i diritti per un monopolio limitato nel tempo delle applicazioni per l’uso di un’invenzione tecnica. La logica è la seguente: l’inventore (che deve dimostrare un avanzamento non ovvio nelle conoscenze e nelle applicazioni) acconsente a rilevare informazioni dettagliate su quanto da lui sviluppato (di modo da rendere quella conoscenza pubblica) in cambio di una protezione limitata nel tempo per sfruttare i frutti di quanto emerso. Il brevetto, dunque, nasce come tentativo di incentivare lo scambio e il proliferare di informazioni e conoscenza nei settori tecnici, sebbene abbia avuto a più riprese feroci critiche da coloro che identificano questo sistema come un potente freno all’innovazione a causa dei monopoli che si vengono a creare. Data la disponibilità di informazioni pubbliche su aspetti tecnici delle più recenti tecnologie (con una tradizione che risale a svariati secoli or sono), i brevetti sono stati utilizzati in molto studi come indicatori di innovazione, andandone ad analizzare sia la numerosità, sia più nel dettaglio le informazioni a disposizione per indagare sui processi attraverso cui l’innovazione viene portata avanti (con i legami tra differenti settori). La riduzione dei costi

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legati ai brevetti e l’incremento nell’attività di patenting (grazie anche allo sviluppo di nuovi settori legati alla new economy) hanno ulteriormente agevolato il diffondersi di studi in merito. Esistono, però, degli importanti limiti per questo indicatore: da un lato la scarsa efficacia nel caso di imprese di piccole dimensioni (è stato dimostrato che sono principalmente le grandi realtà aziendali a ricorrere a questa tecnica di “protezione”), dall’altro il fatto che si vada a confondere l’invenzione (quello che realmente viene rilevato) con l’innovazione (alla quale non sempre si arriva). Ciò non toglie che l’indicatore sia largamente diffuso per le analisi che permette di svolgere, anche grazie all’ampio spettro temporale durante il quale i dati sono andati cumulandosi. L’argomento dei brevetti e più in generale dei diritti di proprietà intellettuale viene studiato ancor più nel paragrafo successivo.

Negli ultimi anni c’è stato più di un tentativo di creare nuovi indicatori maggiormente efficaci per misurare e analizzare l’innovazione. Gli approcci che possono essere perseguiti sono due: uno di tipo soggetto (subject approach), uno di tipo oggetto (object approach). Per quest’ultimo, l’attenzione è rivolta alle innovazioni tecnologiche significative, di solito identificate attraverso il parere di esperti o con annunci di nuovi prodotti in riviste specialistiche o nella letteratura: l’esempio più rilevante è il database della SPRU (Science Policy Reserarch Unit dell’Università del Sussex), che raccoglie informazioni tecniche sulle maggiori innovazioni tecnologiche sviluppate dall’industria britannica, mentre un altro esempio è il database della US Small Business Administration (specializzata nelle piccole imprese sul suolo americano). I vantaggi di questo metodo stanno nel focalizzarsi direttamente sulla tecnologia e nell’imparzialità dei giudizi forniti; i limiti risiedono nel fatto che ci si restringe ad un sottoinsieme delle innovazioni realmente sviluppate, non trovando spazio solitamente tutti quei casi (frequenti) di innovazioni incrementali. Queste tecniche, per altro, consentono di distinguere differenti tipologie di attività innovativa (per esempio basata sulla scienza o guidata dai fornitori, seguendo una classificazione fornita da Pavitt). Gli studi con approccio di tipo subject si concentrano, invece, sui principali input (R&D e non solo) ed output (solitamente le innovazioni di prodotto) del processo innovativo. In quest’ambito risiede il CIS (Community Innovation Survey), sviluppato dall’OECD nel 1992-3 e di cui già si era accennato in precedenza: lo scopo era quello di raccogliere a livello internazionale misure di output in modo disaggregato. Nella versione risalente al 2002, la survey ha contato approssimativamente 140.000 imprese europee. Smith fa notare come segua in più di un principio il manuale di Oslo (sempre dell’OECD): le informazioni che vi trovano spazio sono quelle relative agli sforzi in attività legate all’innovazione (R&D, analisi di mercato, training), gli output e le vendite derivanti da cambiamenti radicali nei prodotti, le fonti di informazioni rilevanti per l’innovazione, le eventuali collaborazioni tecnologiche e la percezione di ostacoli e fattori facilitanti. Si può notare

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come grande attenzione sia posta all’aspetto tecnologico, mentre non trovano spazio informazioni relative a cambiamenti organizzativi o processi di apprendimento (un limite del metodo, come il fatto, denunciato da più di un detrattore, che questo strumento sia maggiormente indicato per il settore manifatturiero piuttosto che per i servizi). Un tentativo è stato quello di identificare delle categorie di attività per l’innovazione (cercando di non limitarsi alla sola R&D): seguendo il lavoro di Kline e Rosenberg si può parlare di R&D, acquisizione di macchinari ed equipaggiamenti legati a innovazioni di prodotto o processo, acquisizione di tecnologia dall’esterno, design industriale, training e introduzione nel mercato. Il problema più grande riscontrato è stata la complessità delle stesse categorie: non sempre, infatti, le imprese conservano record separati per le varie voci e risulta difficile orientarsi tra i dati a disposizione (limite evidenziato soprattutto nelle prime stesure del CIS). Un risultato degli studi sviluppati è che l’innovazione, pur presente in ogni settore dell’economia (anche nei cosiddetti low-tech), è distribuita in modo asimmetrico tra i vari stati e settori, con una solida rete di collaborazioni tra le realtà maggiormente innovative. Altri risultati potranno essere raggiunti in futuro, dato il già citato proliferare di studi incentrati su questa survey che ha dimostrato di essere uno strumento assai valido, pur con dei limiti (oltre a quelli già evidenziati in precedenza, anche la difficoltà di avere informazioni su alcuni input importanti come le conoscenze e l’apprendimento, seguendo quanto detto da Arundel che sostiene: “quando parliamo di un’impresa che fa grandi sforzi in innovazione non possiamo parlare solamente di investimenti finanziari ma anche dell’uso di capitale umano per pensare, imparare, risolvere problemi complessi e produrre tipologie qualitativamente differenti di innovazione”).

Delle altre categorie minori di indicatori si evita di entrare nel dettaglio, non fornendo particolari spunti aggiuntivi alle varie metodologie già descritte. Nei paragrafi a seguire, prima di far convergere la trattazione verso l’ambito del software e dei servizi, verranno fornite ulteriori informazioni in merito ad un paio di metodi già illustrati in questo paragrafo.

2.4 I brevetti e i diritti di proprietà intellettuale (intellectual property rights)

I diritti di proprietà intellettuale (in inglese Intellectual Property Rights, IPR) costituiscono il mezzo più antico per indurre e agevolare le innovazioni, per quanto in molti, a più riprese, abbiano contestato la validità di questa affermazione, sostenendo che favoriscano la creazione di posizioni monopoliste ed il blocco del processo innovativo. L’introduzione della new economy e lo sviluppo di nuovi settori e tecnologie hanno fatto sì che gli stessi IPR dovessero evolversi per seguire le rinnovate esigenze del settore. Granstrand ha delineato una sintesi dell’evoluzione di questi

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strumenti, dall’antichità sino ad oggi (con particolare riferimento ai brevetti), individuando 5 ere nella storia dell’uomo: pre-brevetto, del brevetto nazionale, multinazionale, internazionale e moderna. Si rimanda a quel lavoro (facente parte dell’“Oxford Handbook of Innovation”) per informazioni dettagliate sull’evoluzione di questo strumento. In questa sede basta ricordare alcuni degli avvenimenti più salienti, tra cui la promulgazione del primo codice per l’emissione di brevetti nel 1474 a Venezia. Da lì si diffuse rapidamente in tutta Europa, in particolare in Francia ed Inghilterra, fino ai neo nati Stati Uniti, la cui costituzione del 1790 afferma che il Congresso ha il potere “di promuovere il progresso della scienza e delle arti utili, assicurando per periodi di tempo limitato agli autori e inventori il diritto esclusivo per i loro rispettivi scritti e scoperte”. Intorno agli anni 1850-60 si ebbero i primi movimenti di protesta, poi tornati a farsi sentire in epoca più recente. Lentamente si passò ad una struttura internazionale dei brevetti, con la possibilità di registrarne in più stati contemporaneamente: l’attenzione si allontanò sempre più dalla figura dell’inventore (caratteristica fino a tutto il 1800), a causa della necessità di grossi investimenti e collaborazioni di più individui all’interno di imprese. Un altro evento importante avvenne nel 1967, con la nascita del WIPO (World Intellectual Property Organization), appoggiato inizialmente da cinquantun governi (103 nel 1999), seguita a breve distanza dalla creazione del PCT (Patent Cooperation Treaty, approvato nel 1978), con lo scopo di armonizzare il problema a livello internazionale. In Europa, nel 1977, venne fondato l’EPO (European Patent Office), con lo scopo di coordinare il lavoro degli organi preposti a livello nazionale. Un altro passo fondamentale si ebbe nel 1994 con la sottoscrizione del TRIPS (Trade-Related aspects of Intellectual Property Rights), la cui importanza è stata paragonata a quella del convegno sui brevetti di Parigi del 1883. Il TRIPS, fortemente voluto dagli USA e dagli stati ad essi vicini, si prefigge di favorire la trasparenza e la non discriminazione, fissando degli standard minimi per tutte le tipologie di IPR (non solo brevetti, ma anche marchi, copyrights e altri); ha tuttavia ricevuto feroci critiche in quanto è da taluni considerato uno strumento che avvantaggia troppo i paesi più industrializzati, relegando in una spirale senza uscita quelli in via di sviluppo. Un altro dibattito è quello relativo alla new economy (in particolare settori come quello dell’ICT), portatrice di un “capitalismo intellettuale” per il quale si rendono necessari nuovi accorgimenti negli esistenti IPR. Dato lo sviluppo del presento lavoro, a chiusura di questa breve carrellata di eventi, è interessante far notare come nel 1981 venne concessa la possibilità di emettere brevetti su software, ma solo nel 1994 tutti gli applicativi divennero chiaramente brevettabili.

Oltre ai dibattiti già accennati, molti altri sono sorti sui metodi relativi agli IPR, sollevando questioni di tipo giuridico (frequenti sono i contenziosi in materia di brevetti): questo argomento è stato ampiamente discusso in trattazioni specifiche, alle quali si rimanda per approfondimenti.

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Un’altra tematica è quella della durata del periodo di monopolio garantito all’inventore: Nordhaus sostenne che un incremento della lunghezza potesse incentivare gli investimenti in innovazione, per quanto portasse con sé un’efficienza statica (nel senso che un’aumentata protezione sfavorirebbe la concorrenza, con conseguente innalzamento dei prezzi e rallentamento nel processo di diffusione). Lo stesso studioso arrivò a dire che, per avere una durata ottimale, era necessario un trade-off tra questi due effetti, con influenze dipendenti dalla natura della competizione e dall’elasticità di prezzo e costo di R&D. Oltre alla dimensione temporale, altri interrogativi sono stati posti sull’ampiezza di copertura dei brevetti: il sistema solitamente proposto è quello di una negoziazione tra l’inventore ed un esaminatore, con la possibilità di ricorrere a delle corti solo nel caso di invenzioni particolarmente rilevanti.

Nonostante tutti questi dubbi e critiche, l’importanza degli IPR (e dei brevetti in particolare) è comunque molto alta per lo sviluppo dell’innovazione e degli investimenti, così come per la diffusione delle informazioni sui principi e le risorse dell’innovazione stessa. Questa importanza varia al mutare del paese a cui ci si riferisce, così come del settore e del periodo storico: ciascuna realtà (qualunque sia la dimensione di analisi scelta tra quelle appena elencate) ha necessità peculiari per avere un valido sistema di protezione degli IPR, sia in termini di durate temporali che di tipologie di strumento. Purtroppo, nonostante i molti lavori ormai disponibili, queste tematiche non sono state affrontate in maniera sistematica e diffusa; davanti all’insorgere di nuove tecnologie e settori (non per ultimo quello del software), si rende necessario un continuo ripensamento degli strumenti di protezione degli IPR, se si vuole far sì che il processo innovativo continui a beneficiarne.

2.5 L’innovazione e le pubblicazioni scientifiche: un possibile indicatore

Coombs, Narandren e Richards hanno sviluppato un lavoro di ricerca che può essere ascritto nel gruppo di studi basati su indicatori di tipo bibliometrico (pubblicazioni e citazioni specialistiche), applicabile a realtà di tipo nazionale. Il metodo utilizzato, riproposizione in terra britannica di studi precedenti svolti negli USA e in Olanda, cerca di superare i limiti (già illustrati nei paragrafi precedenti) delle tecniche basate su indicatori di R&D e dei brevetti, concentrandosi sul rilevare l’innovazione di prodotto piuttosto che di processo. Questo tipo di indicatori (LBIO: literature-based innovation output indicators) furono introdotti da Edwards e Gordon e in seguito affinati. Si basano su pubblicazioni di annunci di nuovi prodotti o nuove tecnologie all’interno di riviste

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specialistiche i cui contenuti siano controllati dagli stessi editori e non semplicemente riportati con scopi pubblicitari (per garantire l’imparzialità).

Questo metodo ha degli importanti punti di forza: la vicinanza temporale dell’annuncio con la commercializzazione, l’imparzialità delle informazioni, la capacità di rilevare l’attività innovativa delle piccole imprese (aspetto al contrario difficilmente rintracciabile con l’utilizzo di altri indicatori come i brevetti) e la possibilità di effettuare paragoni tra realtà nazionali. Dall’altro lato non mancano i punti deboli: l’impossibilità di rilevare il processo di innovazione interno all’impresa, la possibilità di falsare gli studi da parte di talune imprese (ad esempio potrebbero favorire il proliferare di pubblicazioni anche a fronte di innovazioni minime) e la discrezionalità nella scelta delle riviste da cui reperire le informazioni. Nonostante ciò il metodo resta interessante per i possibili studi e analisi da portare avanti a partire da esso e che permettono di tracciare l’evolversi di alcune grandezze: la crescita del mercato, il ciclo di vita del prodotto, la diffusione di tecnologie attraverso differenti settori, il tasso di crescita di un’impresa in relazione all’attività innovativa.

Lo studio che è stato sviluppato dai tre ricercatori ha visto la creazione di un database contenente le informazioni estrapolate durante sei mesi da circa quaranta riviste di ambito tecnico, ingegneristico e commerciale, scelte tra le più importanti sul suolo britannico. Il campione è stato costituito da circa mille annunci, di ciascuno dei quali si avevano informazioni sul tipo di innovazione, sull’origine territoriale (distinguendo tra innovazioni introdotte da un’impresa inglese, da un’impresa inglese in collaborazione con una estera, da una estera con la commercializzazione di un’entità nazionale o da una realtà internazionale) e sul settore di riferimento (seguendo quanto prescritto a livello europeo dallo Standard Industrial Classification, SIC). Riguardo alle tipologie di innovazione, è stata ripresa una classificazione sviluppata da Kleinknecht: prodotto totalmente nuovo o con cambiamento sostanziale (distinguendo tra innovazione di funzioni o di tecnologia), prodotto migliorato in maniera modesta, accessorio di prodotto o servizio nuovo o migliorato, differenziazione di prodotto, innovazione di processo. Un’ulteriore dimensione di analisi affrontata è stata quella della grandezza delle imprese, con attenzione particolare alle realtà medio-piccole (per le quali il metodo si è dimostrato efficace per rilevare il processo innovativo).

Per i risultati specifici dello studio inglese si rimanda a quel lavoro, essendo interesse del presente paragrafo la sola enunciazione del metodo di analisi applicato, come esempio esaustivo per tutte le ricerche basate su LBIO.

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2.6 L’innovazione nel settore dei servizi

I vecchi principi con cui l’innovazione è stata definita e misurata mal si adattano a settori emergenti dell’economia attuale, risultando più efficaci per l’industria di tipo manifatturiero. Prima di passare ad analizzare come possa essere sviluppata un’analisi di innovazione nel settore software, risulta interessante affrontare la stessa tematica per il settore dei servizi, sia per la vicinanza di certe esigenze tra i due ambiti, sia per l’importanza del settore (se si pensa a servizi bancari, di trasporto, di telecomunicazioni, di consulenza, turistici, educativi, di trading).

I lavori sono ancora insufficienti (per quanto allo stato attuale molti ne stiano venendo sviluppati) e molto lavoro dovrà essere fatto in futuro per poter offrire degli strumenti validi per percepire ed analizzare l’innovazione in un settore così eterogeneo, con conseguente difficoltà a costruire una classificazione esaustiva (l’elenco riportato in precedenza è solo una prima approssimazione che prende spunto da una survey sviluppata in Germania nel 2000). Un lavoro in merito è stato fatto da Hipp e Grupp: pur riferito in parte alla realtà tedesca, permette di annotare le caratteristiche generali del settore dei servizi, partendo da alcune ipotesi teoriche (estratte da lavori precedenti): le imprese dei servizi contribuiscono in maniera pesante allo sviluppo di economia (anche data la sua natura sempre più prevalentemente informativa) e società; le attività di innovazione in questo settore differiscono molto da quelle nel settore manifatturiero (prevalenza di miglioramenti incrementali, intangibilità, integrazione dei clienti, oltre ad aspetti organizzativi e di coordinazione); le imprese di servizi sviluppano spesso al loro interno l’innovazione, senza dipendere da altri settori.

Emerge anche la crescita di posti di lavoro per persone con un alto livello di istruzione, conferma del fatto che le imprese tendono a specializzarsi sul proprio core business, demandando le altre attività (ad esempio economiche o di trasporto) ad esterni. Più in generale, il cambiamento graduale da un’economia basata sulla tecnologia ad una basata sulla conoscenza (in questo discorso rientra anche il settore software) porta con sé nuove modalità con cui l’innovazione viene perseguita: nuovi studi sono stati sviluppati, andando ad analizzare anche aspetti organizzativi e sociali (Lundvall, ad esempio, ha studiato il processo innovativo dalla prospettiva dell’accumulazione e applicazione della conoscenza e delle competenze).

Emergono, dunque, alcune diversità fondamentali tra settore dei servizi e manifatturiero: evidenziarle e studiarle risulta basilare per poter comprendere i nuovi processi innovativi e costruire un nuovo impianto teorico con cui analizzare l’intera economia moderna. È necessario aggiungere alla definizione di innovazione aspetti che esulino da quelli strettamente tecnici e tecnologici, come la conoscenza e l’organizzazione, senza soffermarsi eccessivamente su aspetti di R&D, attività che nelle imprese di servizi hanno dimostrato una minore importanza (soppiantate da vari team di

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sviluppo che lavorano contemporaneamente su differenti progetti, anche collegati: si pone l’interrogativo su come la conoscenza venga generata, presa dall’esterno e condivisa). La stessa dicotomia tra innovazione incrementale e radicale è stata messa in discussione (Preissl in particolare ha evidenziato la necessità di una nuova suddivisione), in favore di una concezione più continua dell’intero processo (come proposto da Sundbo, che suggerisce di abolire le vecchie suddivisioni) in cui assume un’importanza fondamentale anche l’innovazione nel modo di fornire un certo servizio (tematica analizzata da Miles in relazione ad alcuni casi studio). Dell’intangibilità dei servizi già si è discusso: ciò porta ad un’impossibilità di creare monopoli temporanei attraverso brevetti (i quali assumono, in questo settore, una minore importanza) e manca così un’importante difesa verso le imitazioni che incentivi gli sforzi innovativi. Anche sull’integrazione del cliente si è già accennato, aspetto divenuto ormai cruciale per il successo di un’impresa; altri aspetti che non possono essere trascurati sono le ridotte dimensioni di molte imprese del settore (elemento in comune con il campione poi analizzato nel presente lavoro) e la rilevanza di regolamenti legali e leggi nell’erogazione di molti servizi. Risulta complesso combinare tutti questi aspetti per ottenere una nuova definizione di innovazione, fatto per altro non favorito dall’eterogeneità stessa del settore in esame.

Un altro tentativo è quello di identificare un chiaro output del processo innovativo: l’intangibilità e la vicinanza coi clienti ne rendono difficoltosa la misurazione, nonché il definire cosa realmente sia innovativo e cosa no (spesso le imprese si occupano di sviluppare aggiustamenti a quanto offerto ai clienti per venire incontro alle loro mutevoli richieste, favorendo una predominanza di innovazioni di tipo incrementale). L’esigenza è quella di nuovi indicatori che permettano di superare questo limite: una proposta è quella di utilizzare, al posto dei brevetti, la registrazione di marchi, che spesso sostituiscono i brevetti, nel settore in esame, come strumento di protezione. Per altro, i marchi hanno il vantaggio di riguardare una fase successiva nel processo di sviluppo, rendendo quindi minore la percentuale di registrazioni che non abbiano una commercializzazione; il rovescio della medaglia risiede nel fatto che, pur esistendo un forte legame, non sempre un marchio corrisponde ad una reale innovazione. Nonostante la necessità di ulteriori strumenti, quello appena evidenziato è stato più volte utilizzato, anche grazie all’abbondanza di informazioni in merito e al crescente numero di registrazioni; proprio per queste motivazioni, anche questo strumento è stato utilizzato in questo lavoro come un possibile indicatore, unitamente ai brevetti e alle pubblicazioni tecniche (vedasi il capitolo 4 per i risultati ottenuti).

Si è poi cercato di identificare dei fattori che permettessero di analizzare gli effetti dell’innovazione sulla performance percepita dai clienti. Una possibile suddivisione comprende: miglioramenti nella

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qualità del servizio, aggiustamenti per aderire a standard e richieste di sicurezza, sviluppi interni all’impresa e accrescimento di produttività.

Un ultimo aspetto interessante da evidenziare è la possibilità di identificare delle macrocategorie all’interno del settore dei servizi. Un risultato in tal senso è stato ottenuto da Hipp e Grupp, che hanno rielaborato un lavoro precedente di Soete e Miozzo. I gruppi individuati sono: imprese basate sulla conoscenza (forti legami con clienti e università), basate sul network (servizi operanti su reti informative e di comunicazioni con abbondanza di dati elaborati: alcuni esempi sono le banche e le imprese di telecomunicazioni), basate su economie di scala (servizi erogati altamente standardizzati) e dominate dai fornitori (innovazioni sviluppate all’esterno dell’impresa). Pur nella difficoltà di far rientrare ciascuna impresa in una categoria (solitamente ciascuna possiede maggiori o minori caratteristiche di più d’una), possono essere identificate alcune considerazioni di base: una maggiore istituzionalizzazione di R&D nelle imprese basate sulla conoscenza, una maggiore importanza dei brevetti nello stesso gruppo, un’abbondanza di imprese di grandi dimensioni in quelle basate su economie di scala (al contrario di quelle dominate dai fornitori, dove sono più frequenti dimensioni più ridotte).

2.7 L’innovazione nel settore del software

Analogamente a quanto emerso per il settore dei servizi, anche quello del software è molto eterogeneo, sia nelle tipologie di prodotti offerti, sia nelle dimensioni delle imprese presenti. Pur nell’impossibilità di tratteggiare un unico modello di processo innovativo per il settore, è possibile studiare quali possano essere le fonti di informazioni a disposizione di un’impresa, le modalità in cui le attività possano organizzarsi e le influenze delle dimensioni aziendali e del team di progetto. Un lavoro su cui basare quest’analisi ad ampio spettro è quello sviluppato da Jordan e Segelod, che hanno condotto una ricerca su un campione di imprese software in tutta Europa attraverso dei questionari posti a manager riguardo ai progetti innovativi sviluppati. Un aspetto interessante sono gli indicatori utilizzati per la misurazione dell’innovazione, in quanto è proprio da questi che è stato tratto lo spunto per costruire quelli utilizzati nel presente lavoro (modificati anche a causa della differente modalità di acquisizione delle informazioni). Gli indici sono raggruppabili in quattro macrocategorie: novità per l’impresa, per il mercato, unicità dei benefici derivanti dal prodotto e scopo dell’innovazione (ad esempio la creazione di un’intera nuova piattaforma). Per ciascuno di essi sono state utilizzate delle scale di Likert (valutazioni da 1 a 5), per poi costruire un indice generale di innovazione attraverso un bilanciamento dei vari fattori; una volta raggiunto questo

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risultato, i progetti sono stati suddivisi in tre fasce di innovazione (bassa, media, alta), utilizzando per fissare i limiti tra di esse altri studi precedenti per conservare analoghe proporzioni nelle ripartizioni. Le statistiche relative ai vari gruppi sono state correlate con altre informazioni raccolte, come le dimensioni aziendali, gli attori esterni all’impresa coinvolti nel processo innovativo, gli effetti conseguenti al processo stesso e i cambiamenti nelle varie fasi di sviluppo. Data l’ampiezza del campione considerato, risulta interessante analizzare le evidenze riscontrate per comprendere se alcune delle ipotesi solitamente diffuse in ambito accademico siano confortate dai fatti anche nel settore del software o se invece restino troppo legate all’ambito manifatturiero.

Una prima domanda è quali siano i modelli utilizzati nello sviluppo di software. Alcuni dei più diffusi si basano sul sistema dei prototipi, come quello incrementale e quello evoluzionistico (vengono evidenziati vari passaggi, ciascuno caratterizzato da un prototipo che viene migliorato: il primo della serie ha spesso il solo scopo di evidenziare le richieste di massima del cliente), al contrario del modello a cascata (uno dei metodi dalla più lunga tradizione, che prevede una serie di passaggi, dalla pianificazione del prodotto e delle richieste al design del prodotto e allo sviluppo del codice, fino ad arrivare all’integrazione e all’implementazione con le fasi di testing). Altri modelli sono quello a spirale (più complesso, costituito da vari cicli successivi), il “modello razionale unificato” (rivolto al Web ed utilizzato come guida per l’intera fase di sviluppo) e il “sincronizza e stabilizza” (synch-and-stabilize: utilizzato in Microsoft, è basato sul sistema a cascata, ma prevede la costruzione di più frequenti prototipi, anche a base giornaliera). È emerso che spesso la stessa impresa (se non addirittura lo stesso team di sviluppo) utilizza indifferentemente anche più di un modello, ed anzi il caso di commistione di tecniche caratterizza alcuni dei progetti maggiormente innovativi. Contrariamente a quanto si potrebbe ipotizzare non è stata riscontrata evidenza del fatto che le imprese di dimensioni maggiori utilizzino modelli più complessi: la metodologia a cascata, ad esempio, una delle più datate e semplici, trova largo impiego sia in grandi progetti che in piccoli. Un altro aspetto è indagare i legami che si vengono a creare tra l’impresa da un lato e gli attori presenti all’esterno di essa e le fonti di informazioni/conoscenza dall’altro, sia nell’ottica dell’intero processo innovativo, sia all’interno delle varie fasi in cui può essere suddiviso (una possibile schematizzazione prevede quattro momenti: idea, decisione, costruzione del prodotto e commercializzazione). Senza soffermarsi sulle differenti fasi, il collegamento nettamente più importante è costituito dai clienti, i cui bisogni guidano spesso l’intero processo produttivo (se si pensa, ad esempio, ai software sviluppati ad hoc per uno specifico cliente, o comunque alla necessità di identificare le richieste del settore a cui il software si rivolge). L’importanza di questo gruppo è ancora maggiore per i progetti di basso e medio impatto innovativo, mentre per quelli ad alto impatto i clienti sono spesso posti al medesimo livello delle imprese affiliate e degli istituti di

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ricerca (come le università). Altri attori coinvolti in vario modo sono i fornitori (in particolare quelli di hardware), gli uffici per brevetti, i promotori finanziari, i consulenti (tecnici e di mercato), la stampa e le conferenze. Nell’ottica delle varie fasi dell’intero processo, i clienti restano nettamente la maggiore fonte di informazioni e l’attore con cui si hanno i maggiori contatti nelle prime due fasi, quelle di idea e decisione, in cui maggiore importanza ha l’individuare i bisogni dell’utente (secondo un principio valido per qualunque progetto, le modifiche sono più facilmente perseguibili nelle prime fasi, diventando più complesse e costose successivamente). Un’altra categoria di attori è quella delle imprese concorrenti, la cui importanza risulta essere rilevante nella fase iniziale in cui l’idea viene concepita, per poi diminuire progressivamente nelle fasi successive. È interessante rilevare come nei progetti con maggiore impatto innovativo i contatti con l’esterno siano maggiori, sintomo dell’importanza dell’acquisizione di conoscenza dall’esterno.

Un altro aspetto di interesse è quali effetti possano scaturire dal processo innovativo oltre al prodotto stesso: in generale saranno elementi con un impatto sui successivi progetti dell’impresa e sulla percezione della stessa all’interno del settore in cui opera. Possono esserci effetti per il prodotto stesso (nuove caratteristiche, riduzione di errori, nuova piattaforma, nuovi moduli sviluppati), per il suo utilizzo (nuova combinazione di utilities, incremento nella produttività), per l’ottenimento di nuovi clienti (nuovi segmenti di mercato) e per la struttura dell’impresa (miglioramenti utilizzabili per altri prodotti, estensione di linee produttive, creazione di nuove unità di business: in generale si potrà notare come questi effetti diventano più significativi con progetti ad alto impatto innovativo). Altri effetti sono l’ottenimento di opinioni sulla novità del prodotto (ad esempio dai campi scientifico ed ingegneristico, da esperti legali per la possibilità di ottenere brevetti), i cambiamenti nella conoscenza di coloro che vengono coinvolti nella creazione del prodotto, i cambiamenti verso gli attori esterni coinvolti nel processo produttivo, gli avanzamenti nella conoscenza (sia generale sia specifica) e le modifiche nella percezione dell’impresa dall’esterno. È stata evidenziata anche una variazione negli effetti e nella loro importanza al variare dell’impatto innovativo del progetto: quando questo è più alto l’accumulazione di nuova conoscenza per gli attori coinvolti risulta maggiore.

Un’altra dimensione lungo cui studiare il processo innovativo è quella dell’impresa. Non è vero ad esempio che le imprese più grandi sono quelle capaci di sviluppare i prodotti più innovativi. Al contrario, le medie più alte negli indici di innovazione sono state riscontrate nella fascia di imprese che vanno da 21 a 40 impiegati (spesso in questo gruppo si trovano imprese in rapida crescita che si concentrano sullo sviluppo di soluzioni altamente innovative per ampliare il loro mercato). Come già evidenziato in precedenza, non sono state riscontrate nette differenze nelle modalità di sviluppo del progetto, sebbene siano da notare le molte occorrenze di tecniche proprietarie o miste.

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Data l’importanza del lavoro di Jordan e Segelod per la stesura di questo paragrafo, nonché per una porzione del lavoro sviluppato nel capitolo quattro, non ci si può esimere da una breve revisione critica, per altro accennata dagli stessi autori. Il dubbio principale che emerge è se il campione utilizzato, scelto sostanzialmente dai manager stessi (i quali dovevano presentare il caso studio di un progetto che contenesse degli elementi di novità per l’impresa, su cui poi rispondere alle domande), fosse rappresentativo della produzione software più generale. Pur non essendo quello l’obiettivo primario, quanto piuttosto indagare sul processo stesso di creazione di un’innovazione, esistono un paio di dubbi, riguardanti le possibilità che i manager abbiano scelto casi particolarmente innovativi oppure casi di successo (facendo dunque lievitare il valor medio dei risultati). Soprattutto il secondo dubbio risulta essere consistente, come ammesso dagli stessi autori. L’utilizzo di informazioni raccolte da chi attua lo studio stesso (nel caso specifico via Web), senza l’intermediazione nella scelta di terzi facenti parte delle stesse imprese, garantisce al lavoro illustrato nel capitolo quattro la tranquillità di non risentire di questi problemi. L’impedimento principale che resta è la difficoltà nel rapportare i risultati ottenuti nel presente lavoro con quelli di altri studi (ivi compreso quello prima citato) a causa delle differenti tecniche di rilevazione: l’utilizzo dello strumento Web come fonte di informazioni è infatti ancora limitato, nonostante le grandi potenzialità che offre.

2.8 I brevetti nel settore del software

Il problema dei brevetti, già affrontato in precedenza nel contesto degli “intellectual property rights”, torna ad essere di fondamentale interesse nell’ambito del software, essendo un contesto sufficientemente differente da quello manifatturiero in cui i brevetti sono stati creati e si sono radicati nei secoli.

Molti autori si pongono l’interrogativo se i brevetti, come tecnica di protezione, siano adatti: la tematica è tuttora relativamente nuova e non tutte le imprese hanno ancora compreso a pieno limiti e possibilità di una strategia basata sui brevetti (le posizioni assunte sono spesso in antitesi: da chi è favorevole, soprattutto imprese appena nate o grandi gruppi consolidati come Microsoft, a chi è fermamente contrario, come principalmente il fenomeno dell’Open Source, che si interroga sulle possibili problematiche derivanti da un più rigido ed esteso utilizzo dei brevetti).

Un primo appunto che viene fatto è che la natura rapida dell’innovazione nel contesto in esame rende praticamente inutile un brevetto, che prima che sia concesso può già considerarsi superato (come suggerito da Jaffe, Nalley e Murillo); un’altra difficoltà è che in questo settore ciascun

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progetto riceve input da molte fonti differenti, tanto che lo sviluppo di un software risulta come l’intersezione di attività complementari spesso non facilmente districabili (Kash e Kingston). Non sono poi rari i casi di progetti analoghi sviluppati in modo indipendente in più parti del globo, risultando difficile se non impossibile per uno sviluppatore sapere se sta perseguendo una nuova strada o se al contrario sta involontariamente violando un brevetto già emesso (Smets-Solanes in particolare evidenzia questo aspetto). Più in generale, alcuni autori attribuiscono una minore importanza ai brevetti nel settore del software, dove le imprese possono utilizzare altri sistemi di protezione, dalla differenziazione dei prezzi ai brevetti sull’hardware per i sistemi embedded (sistemi integrati software – hardware), come suggerito da Besen e Raskind per quest’ultimo caso. I costi per creare nuove idee sono strettamente legati all’accessibilità alle informazioni relative a precedenti lavori: questi costi tendono ad innalzarsi nel caso di prodotti posti sotto brevetto, in quanto lo sviluppatore ha diritti non solo sulla creazione stessa ma anche sui lavori derivati. Questa ultima questione è però dibattuta, in quanto, dall’altro lato (come già illustrato nei precedenti paragrafi), per ottenere un brevetto l’ideatore deve fornire informazioni tecniche dettagliate sul prodotto, permettendo quindi una diffusione delle informazioni.

Anche il problema dei ritorni di un progetto risulta interessante: la già citata rapidità con cui le innovazioni vengono introdotte fa sì che il monopolio temporale per chi ha sviluppato una soluzione sia inferiore rispetto ad un settore più statico come quello manifatturiero. In questa tematica si inserisce anche l’esistenza di prodotti rilasciati gratuitamente (versioni shareware, piuttosto che prodotti di tipo Open Source) che minano ulteriormente i possibili rientri.

Un altro aspetto è l’influenza della standardizzazione nel campo dei diritti d’autore (studiato per primo diffusamente da Farrell), in particolare perché questo si lega ai concetti di compatibilità: si pone l’interrogativo se l’attuale sistema di brevetti possa essere ancora adatto a fronteggiare questa tematica e in caso alternativo quali nuove regole e limiti debbano essere posti (esigenza avvertita chiaramente da Mazzoleni e Nelson). In un sistema con un forte sistema di brevetti viene favorita la frammentazione del mercato, con soluzioni tra loro difficilmente compatibili. Al contrario, in un mercato che non prevede la protezione dei diritti d’autore, subito dopo l’emissione di un prodotto i competitori possono copiarlo e produrre a loro volta delle soluzioni compatibili: la competizione dunque si sposta su parametri come il prezzo, le performance e le caratteristiche addizionali offerte. Nel tentativo di fornire una visione esaustiva delle varie argomentazioni portate, Blind, Edler e Friedewald hanno riassunto i principali vantaggi e svantaggi derivanti dall’utilizzo di brevetti e diritti d’autore nel campo del software. Dei primi vengono evidenziati i seguenti:

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• viene favorito il flusso di conoscenza attraverso la pubblicazione delle informazioni (questo aspetto è stato più volte contestato e nello stesso lavoro dei tre autori non ne viene trovata conferma);

• viene promosso lo sviluppo incrementale e sequenziale attraverso la diffusione di conoscenza, con conseguente incremento di varietà ed interoperabilità (anche questo aspetto non ha trovato conferma nel lavoro empirico di Blind, Edler e Friedewald);

• viene esteso il periodo, spesso troppe breve, di dominanza di una nuova innovazione (teoria che trova molti oppositori, per quanto esistano delle valide eccezioni);

• sono favorite innovazioni guidate piuttosto che radicali; • diventa possibile una strategia di penetrazione dei prezzi;

• si accresce la trasparenza del mercato e si riducono i costi di transazione;

• viene assicurata alle piccole e nuove imprese la possibilità di competere con le più grandi; • risulta facilitato l’accesso al mercato del capitale, soprattutto per le nuove imprese.

Per quanto riguarda invece i punti a sfavore, possono essere evidenziati i seguenti:

• i diritti d’autore non sono specializzati per il settore in esame (ad esempio la difficoltà nel determinare lo stato attuale dello sviluppo e la possibilità di realizzazioni complementari); • lo sviluppo incrementale e sequenziale risulta ostacolato dagli algoritmi di protezione,

danneggiando l’interoperabilità e la varietà (con conseguenze soprattutto per il settore Open Source), bloccando lo sviluppo di soluzioni analoghe a quelle già brevettate e rallentando più in generale il processo innovativo (queste ipotesi non trovano ancora largo consenso ma esiste un moderato timore sul suo impatto se si proseguirà ulteriormente con l’attuale sistema di brevetti);

• la distribuzione delle risorse può risultare sbilanciata, con perdita di investimenti per R&D; • i monopoli di lungo termine vengono favoriti, così come la creazione di reti di soluzioni

interfacciate;

• le incertezze legali sulle modalità per il rilancio dei brevetti crescono considerevolmente, soprattutto per quanto riguarda possibili contenziosi;

• le imprese nuove e di piccole dimensioni risultano svantaggiate strutturalmente rispetto alle realtà più grandi (ipotesi che è solo in parte confermata, dato che come già evidenziato poco prima esistono anche effetti positivi in tal senso: di caso in caso l’importanza di un aspetto piuttosto che dell’altro può risultare preponderante).

Non essendo proposito di questo paragrafo offrire una visione di dettaglio delle leggi attualmente vigenti nel campo dei brevetti di software, non si proseguirà oltre nei dettagli in merito, rimandando

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quello di illustrare i molteplici punti tuttora dibattuti ed i possibili punti di vista su una tematica di stretta attualità che dovrà necessariamente essere ripensata dato l’evolversi attuale: lo scenario che al momento risulta percorribile è quello di una modifica di alcuni aspetti del sistema vigente (ad esempio riducendo il periodo di durata di un brevetto, in accordo alla più rapida natura dell’innovazione nel settore; più in generale risulta imprescindibile una chiara standardizzazione a livello internazionale delle regole applicate, date le difficoltà che investono le imprese che operano in più paesi), con soluzioni studiate appositamente per i settori più giovani come quello del software.

2.9 Il fenomeno Open Source

Una porzione importante del settore in esame è quella dei software Open Source (ovvero “a codice aperto”, termine nato in contrapposizione ai software di tipo proprietario, per i quali non è possibile visionare, interpretare e modificare il codice di un programma), una realtà in cui si incontrano non solo comunità di utenti che collaborano per lo sviluppo di progetti, ma anche imprese che operano in questo ambito, traendo spunti o facendo partecipare propri dipendenti a specifici lavori. Da non trascurare anche il contributo di università ed altri enti pubblici, che possono approfittare della disponibilità di applicativi gratuiti con cui sviluppare lavori e progetti. Nonostante l’importanza di tutte queste entità sia ormai stata dimostrata da tutto un filone della letteratura (a cui questo lavoro si ricollega), mancano allo stato attuale sufficienti studi che vadano ad analizzare aspetti di dettaglio sulle conseguenze di uno scenario in rapido mutamento dalle sue origini comunitarie: è proprio in questo solco ancora aperto che il presente studio si va a collocare.

È giusto spendere alcune parole su quali siano le modalità di appropriazione e riutilizzo di applicativi in ambito Open Source, per meglio definire il problema. La questione cominciò ad emergere già a partire dagli anni ottanta: nel tentativo di superare la natura prettamente hacker con cui il movimento era nato, nel 1984 venne fondato da Stallman e altri la FSF (Free Software Foundation) per assicurare che il codice sviluppato nelle comunità rimanesse libero di essere usato, modificato e ridistribuito da altri. Venne così creato il concetto di “copyleft”, antitesi del copyright nei propositi, ovvero garantire che i software restino liberi piuttosto che privatizzati: la logica era quella di garantire i diritti dei futuri utilizzatori. Questi concetti vennero implementati nella GPL (GNU General Public License), un paradigma di licenza che si basa sull’applicazione di quattro libertà fondamentali (“La libertà di far girare il programma, per qualunque scopo. La libertà di studiare come funzioni il programma e adattarlo ai propri bisogni. L’accesso al codice sorgente è un

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prerequisito per questo. La libertà di ridistribuire copie in modo da aiutare gli altri. La libertà di migliorare il software e rilasciare pubblicamente i miglioramenti, così che tutta la comunità possa beneficiarne. L’accesso al codice sorgente è un prerequisito per questo”). In seguito, nel 1998, Perens e Raymond, intuendo una difficoltà nel conciliare i concetti di libertà espressi dalla FSF con gli interessi crescenti delle imprese, introdussero a tutti gli effetti il termine “Open Source software” e fondarono l’OSI (Open Source Initiative), col tentativo di superare i malintesi legati all’utilizzo del termine “free”, spesso considerato come un’antitesi al concetto di commercializzazione. Pur concordando con la FSF sull’importanza del codice libero, l’OSI pone maggiore attenzione alla possibilità di interessi di profittabilità nei progetti OS, sviluppando nuove licenze meno stringenti della GPL (quest’ultima, ad esempio, forza i futuri utilizzatori ad introdurre nuovi miglioramenti, aspetto che invece differisce nelle altre licenze). Tutto ciò favorì sempre più investimenti in campo Open Source, per quanto già nel 1995 erano state fondate sedici imprese con l’intenzione esplicita di commercializzare prodotti dell’ambito FOSS (Free and Open Source Software): alcuni esempi importanti sono RedHat, Caldera, SuSE e Turbolinux. Queste imprese realizzarono pacchetti standardizzati a partire da moduli esistenti e dal kernel di Linux, commercializzandoli insieme ad un’opportuna documentazione e al supporto al cliente, permettendo così di avvicinare all’ambito Linux una più vasta utenza. Nel frattempo, sempre più software di successo vennero sviluppati in ambito Open Source: alcuni esempi di particolare spicco sono il sistema operativo GNU/Linux, i Web server Apache, il linguaggio di programmazione Perl, il paradigma per l’inoltro di mail Sendmail e i database MySQL.

Sono da approfondire alcuni aspetti inerenti l’impatto innovativo dei progetti sviluppati nell’ambito delle comunità Open Source, spesso organizzate intorno a repository (il più famoso, a livello internazionale, è SourceForge, seguito da altri casi come FreshMeat e Savannah) che offrono accessibilità a lavori precedenti e in corso, così come strumenti utili per lo sviluppo e la possibilità di trovare collaboratori per sviluppare un applicativo. Su questi repository, data l’abbondanza di progetti e di informazioni su di essi, stanno cominciando a basarsi alcuni studi sul fenomeno Open Source (i lavori di Dahlander e Klincewicz ne sono un esempio), per quanto spesso queste analisi si siano focalizzate solo su aspetti specifici e circostanziati (come, nel caso di Dahlander, l’analisi dello scambio informativo attraverso mail tra dipendenti d’impresa ed altri utenti). Il presente lavoro, al contrario, cerca di sfruttare più diffusamente le potenzialità offerte da questi strumenti, nel tentativo di svolgere un’analisi che unisca alla profondità delle informazioni (anche attraverso l’analisi di casi studio) un’ampiezza delle medesime.

Il dibattito sull’effettivo impatto innovativo dei progetti Open Source, in particolare rispetto ai loro corrispettivi in ambito proprietario, non è giunto a conclusione: pur essendo ormai riconosciuta

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l’importanza di alcune soluzioni sviluppate con codice libero, ancora ci si interroga se siano solo eccezioni e se sia corretto parlare di innovazione per dei software che spesso, in realtà, non comportano funzioni o moduli realmente nuovi, ma si limitano ad adattare soluzioni già esistenti a piattaforme differenti (discorso che può essere fatto per OpenOffice della Sun Microsystems, controparte in ambito Open Source dell’Office sviluppato in Microsoft). Tuomi, in merito, sostiene che il modello OSS (Open Source Software) conduce ad una più rapida incorporazione di nuove idee rispetto al sistema proprietario. Dall’altro lato va evidenziato come non sempre questo passaggio di informazioni ha luogo, anche a causa dell’alto tasso di insuccesso per i progetti Open Source, al contrario dei corrispettivi proprietari (dovuto alla presenza di utenti già esistenti, effetti sulla reputazione e costi sommersi).

In più di un caso i progetti Open Source non conducono a realizzazioni realmente nuove per il settore, ma più frequentemente a riadattamenti per altre piattaforme, miglioramenti, espansioni, tools specifici: si crea dunque il problema di cosa debba essere definito realmente innovativo e di cosa invece sia solo un’imitazione. Come sottolineato da Tuomi, “non c’è niente di particolarmente innovativo in progetti come Linux, che fondamentalmente re-implementa funzionalità operative di sistemi già disponibili in commercio”.

La stessa distinzione tra innovazione ed invenzione, evidenziata ad inizio capitolo, diviene più complessa in ambito OS. Finora, infatti, si era individuata nella commercializzazione la causa della non coincidenza tra i due fenomeni. La stessa statistica sui download risulta fuorviante (si pensi ad esempio alla grande diffusione di applicativi in modalità peer to peer tra gli utenti, fatto non rilevabile per le statistiche). Essendo la dimensione commerciale la questione dibattuta, lo studio dell’intervento imprenditoriale nel fenomeno Open Source assume un’ulteriore valenza: in quest’ottica il presente lavoro assume ancor più importanza, data anche l’assenza di studi che scendano nel dettaglio dei vari modelli attraverso cui questi interventi possano configurarsi.

Il passaggio successivo è interrogarsi su quale classificazione possa essere costruita per questo specifico ambito. Una prima tipologia è quella radicale, che secondo Dahlin e Behrens deve possedere tre caratteristiche: novità (diversità rispetto alle realizzazioni precedenti), unicità (diverso interesse rispetto a quelli perseguiti dagli altri ricercatori) e impatto sulle future tecnologie (con conseguente incoraggiamento dell’imitazione). Si intuisce come una definizione del genere possa essere applicabile solo a pochi casi e risulta per altro non completamente esaustiva per l’ambito software dove esistono, ad esempio, differenti piattaforme, ciascuna con realizzazioni specifiche: si vengono quindi a creare delle “costellazioni di alleanze” (termine coniato da Gomes-Casseres) con soluzioni incompatibili tra loro. In particolare, nelle comunità OS, si ha un’abbondanza di soluzioni rivolte alla piattaforma Linux, con molte soluzioni re-inventate dall’ambito Windows per offrire le

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stesse funzionalità anche agli utenti che non usano quel sistema operativo. Klincewicz propone una nuova classificazione dell’innovazione secondo due differenti dimensioni: novità tecnologica e commerciale. Si avranno dunque quattro tipologie di innovazione: radicale (prodotti nuovi per il mercato), modifiche tecnologiche (miglioramenti incrementali significativi per le tecnologie già esistenti), modifiche di piattaforma (soluzioni già presenti per altre piattaforme) e innovazioni di mercato (ad esempio nuovi utilizzi per soluzioni tecnologiche già esistenti). Risulta ad ogni modo complesso distinguere quando un software faccia parte di un gruppo piuttosto che di un altro, come capire se un certo elemento possa costituire un miglioramento sostanziale o minore (la scelta è spesso lasciata alla soggettività di chi valuta).

Definiti i riferimenti da utilizzare, è possibile effettuare uno studio su un campione consistente di progetti OS: Klincewicz, ad esempio, prende in considerazione i 500 progetti con la più alta attività tra quelli presenti su SourceForge al momento dello studio. Pur costituendo un campione appropriato, non si deve dimenticare che del campione non fanno parte molti progetti di grande importanza (da quelli presenti in altri repository a quelli che posseggono solamente un sito Web apposito). Un risultato in particolare è da evidenziare, come conferma di concetti già espressi: dei 500 progetti OS presi in esame, ben 436 sono stati definiti come non innovativi e dei 64 rimanenti solo 5 costituiscono innovazioni radicali.

Per quanto riguarda lo sviluppo degli applicativi Open Source, non bisogna credere che questo sia perseguito in maniera casuale: sono frequenti le procedure altamente standardizzate e formalizzate (ad esempio Mozilla viene diviso in moduli, ciascuno con un responsabile). Sempre inerente a questo argomento è il contributo di attori esterni alla comunità OS: riprendendo lo studio di Klincewcz, dei 64 prodotti variamente innovativi 7 sono stati avviati con l’appoggio di imprese, mentre 3 hanno avuto collaborazioni accademiche. In alcuni casi, addirittura, le imprese portano esse stesse porzioni di codice già sviluppate quando si uniscono al progetto, lasciando la possibilità alla comunità di utilizzarle e modificarle. Non sono rari, per altro, i casi di imprese che contemporaneamente perseguono anche altre vie di commercializzazione (senza escludere casi di imprese che non diffondono affatto applicativi gratuiti): nonostante i contatti, dunque, cambiano le motivazioni alla base del lavoro, così come i modi di organizzarsi e le direzioni di sviluppo.

Lo stesso studio mette in luce un possibile limite delle comunità OS: nonostante gli intenti, viene riscontrata una sostanziale mancanza di effettivi meccanismi di promozione dei progetti, fattore che può scoraggiare gli inventori di quei progetti che non riescono ad ottenere un’ampia visibilità. Sembra emergere una maggiore enfasi e popolarità per quei progetti legati alla piattaforma Linux, principalmente per la motivazione di buona parte dei membri della comunità di “combattere contro un nemico comune”, identificato con Microsoft (questo sentimento di fondo era già stato

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