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Le traduzioni latine delle orazioni a Nicocle di Isocrate di Lapo da Castiglionchio il Giovane. Edizione critica e introduzione.

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UNIVERSITÀ DI PISA

Dipartimento di Filologia, Letteratura e Linguistica Corso di laurea magistrale in Filologia e Storia dell’Antichità

L

A TRADUZIONE DELLE ORAZIONI A

N

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I

SOCRATE DI

L

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IOVANE

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DIZIONE CRITICA E INTRODUZIONE

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CANDIDATA: Irene Regini

PRIMO RELATORE: Prof. Paolo Pontari SECONDO RELATORE:

Prof.ssa Gabriella Albanese

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2 SOMMARIO 3 INTRODUZIONE 31 NOTA AL TESTO 174 TESTO CRITICO 219 APPENDICE 222 RINGRAZIAMENTI 224 BIBLIOGRAFIA

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INTRODUZIONE

Per le traduzioni isocratee di Lapo da Castiglionchio il Giovane emerge, dalla recensio, il quadro di una diffusione che – pur senza mai approdare alla stampa – fu certo non indifferente. Questa tendenza sembra confermare la grande fortuna che Isocrate ebbe nell’epoca umanistica, e – in particolare – l’enorme diffusione delle sue orazioni riguardanti la precettistica de principe che, a partire dal XV fino al XVIII secolo, godettero di vastissima fortuna, prima in Italia e poi in Europa, e furono pertanto oggetto di numerose traduzioni dal greco in latino prima, e poi in volgare italiano.

Quattro orazioni di Isocrate (Ad Nicoclem, Nicocles, Evagoras e Ad Demonicum), indirizzate le prime tre ai re di Salamina di Cipro Evagora I e suo figlio Nicocle e la quarta – considerata quasi sicuramente spuria – contenente alcuni precetti morali rivolti agli adolescenti, che tutte affrontano da diversi punti di vista la delineazione dell’uomo e del sovrano perfetto, il buon modo di governare ed il giusto rapporto del sovrano con i sudditi, aprirono la strada, già in età tardoantica e poi medievale, ad una variegata serie di Specula principum. Nell’Umanesimo e nel Rinascimento, quando si venne a creare l’ideale di humanitas, la teorizzazione isocratea della filosofia e della παιδεία – intesa come l’ideale di una formazione a tutto tondo, incentrata però sulle lettere e sull’arte retorica – parve particolarmente consonante non solo con la pedagogia umanistica, ma anche con l’esigenza di formare un modello di optimus princeps verso il quale i regnanti potessero tendere ed essere ammaestrati.

1.LA FORTUNA DI ISOCRATE E LA TRATTATISTICA DE PRINCIPE NELL’UMANESIMO

La fortuna di Isocrate nell’umanesimo fu in generale molto grande, e si sviluppò su due principali canali, riflettenti ognuno un diverso aspetto della sua produzione: il primo, che senz’altro ha goduto di maggiore attenzione nella storia moderna degli studi, è quello della retorica, intesa sia nel senso di una ripresa scolastica dei discorsi e delle orazioni isocratee sia – soprattutto – in quello dell’idealizzazione e dell’imitazione della prosa dell’autore, fin dall’antichità considerata modello di eleganza e di buon uso della lingua; il secondo canale riguarda invece la riproposizione – anche e soprattutto a livello pedagogico e didattico – dei contenuti dell’opera isocratea. Come nota Lucia Gualdo Rosa nell’introduzione al suo volume,1 che al momento è l’unica opera che consenta una visione d’insieme esauriente, ancorché non approfondita in tutte le sue articolazioni, della fortuna di Isocrate nel XV e nel XVI secolo, gli studiosi dell’umanesimo non hanno ancora preso

1 L.GUALDO ROSA, La fede nella “Paideia”. Aspetti della fortuna europea di Isocrate nei secoli XV e XVI, Roma 1984.

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sistematicamente in considerazione il problema. Gli ideali isocratei di παιδεία e di filosofia mostrano, in effetti, sorprendenti affinità con quelli umanistici, e pertanto non c’è da stupirsi se proprio Isocrate fu l’autore privilegiato alla scuola di Guarino e se egli godette per tutta l’età umanistica, fin dal suo avvio, di un’enorme fortuna. Tra i principali elementi di contatto tra la filosofia isocratea e quella umanistica c’è senz’altro quello che è stato definito scetticismo epistemologico, ovvero il rifiuto di ogni indagine puramente speculativa a favore di un insegnamento retorico che mantenga allo stesso tempo un valore etico e politico; c’è poi l’idealizzazione della παιδεία, intesa come perseguimento di una cultura completa, a tutto tondo, basata però sui cardini di un insegnamento letterario-retorico; da qui deriva anche l’esaltazione della parola, intesa come strumento di civilizzazione e base per la concordia tra gli uomini (l’esaltazione del λόγος si trova, per elempio, in Nic. 5-7). L’elemento per noi più rilevante, però, è il fatto che il messaggio della παιδεία di Isocrate – un messaggio, come quello trasmesso dagli umanisti, aristocratico e moderato – fonda la sua teoria sull’imitazione di modelli morali, rappresentati principalmente dai grandi eroi del passato; l’élite destinataria delle opere di Isocrate, la stessa élite alla quale si rivolgeranno gli umanisti riprendendo l’autore greco, è composta da due categorie di persone: quella dei figli dei sovrani, destinati al governo e dunque bisognosi di essere istruiti con insegnamenti pratici e con la proposizione di modelli comportamentali ai quali conformarsi, e quella di chi nel regno è tenuto a svolgere funzioni amministrative, di educatore o di funzionario di cancelleria, e insomma di consigliere del principe. L’ideale del principe perfetto, in Isocrate e poi nell’ideologia umanistica, è fondamentalmente caratterizzato da humanitas, clementia (mitezza, misericordia) e pietas verso gli dèi e nei confronti delle leggi della città. Le opere isocratee che contengono i concetti appena espressi, quelle quindi che costituirono la base per i medievali specula principis2 e per lo sviluppo umanistico della trattatistica de principe, sono principalmente le tre orazioni ‘cipriote’, ovvero Evagoras, un trattato composto in forma epistolare e destinato al re di Salamina di Cipro Evagora I, Ad Nicoclem, anch’essa un’epistola indirizzata a Nicocle, sovrano figlio di Evagora, e Nicocles, un opuscolo costruito come un discorso fittizio che Isocrate immagina pronunciato dal sovrano davanti all’assemblea dei suoi sudditi. Tutte e tre le orazioni affrontano, in modo diverso, il tema della delineazione del sovrano ideale, forniscono precetti di buon governo e modelli morali di comportamento cui il principe si deve conformare, e infine – fatto non meno importante – definiscono i doveri reciproci dei sudditi e del sovrano, e il giusto rapporto che tra essi si deve creare. A queste opere bisogna aggiungere una quarta, la pseudo-isocratea Ad Demonicum, nella quale si offrono precetti di buona condotta rivolti agli adolescenti; la

2 Per il genere degli specula principis, si veda P. HADOT, Fürstenspiegel, in Reallexikon für Antike und Christentum, VIII, Stuttgart 1972, pp. 555-632.

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sua fortuna in età umanistica, infatti, fu legata al nome di Isocrate e andò spesso di pari passo con quella delle altre tre orazioni.

Il successo di queste opere nell’umanesimo si esplicò in una vera e propria gara di traduzioni tra gli intellettuali italiani ed europei, che – come mostra la precedente rassegna – si moltiplicarono per tutto il XV e nei primi decenni del XVI secolo, in latino e poi anche in volgare; tali traduzioni, quasi sempre dedicate ai vari e più o meno importanti principi, signori locali o potenti esponenti del clero, rappresentavano un omaggio e un effettivo sostegno al governo ma anche – come risulta evidente fin dalla scelta dell’opera da tradurre – uno strumento tramite il quale gli intellettuali umanisti miravano ad accreditarsi presso i dedicatari, proponendosi nella veste di precettori e consiglieri del principe; inoltre, il genere panegiristico-precettistico ha offerto ai letterati di corte, fin dall’antichità, un’arma a doppio taglio: elogiare il sovrano, identificarlo con i migliori modelli morali, significa legarlo indissolubilmente a quei modelli, ai quali chiunque voglia esser definito un buon governante dovrà conformarsi. La pratica isocratea di proporre illustri personaggi del passato come exempla morali, inoltre, fece sì che gli umanisti si cimentassero nella traduzione anche di molte delle Vite di Plutarco, che facevano capo alla stessa tematica de principe e non di rado si trovano associate, nelle miscellanee manoscritte, alle tre orazioni cipriote.3

In aggiunta e a completamento di queste operazioni versorie, le orazioni isocratee fornirono nell’umanesimo la base per l’elaborazione di opere autonome ed originali, che, prendendo da esse l’avvio, declinavano la tematica de principe nei suoi due sottogeneri: quello dell’institutio principis, un insieme di norme comportamentali dedicate dai precettori ai futuri sovrani, e quello delle virtutes principis, un elenco elogiativo delle qualità del sovrano, ideali ma spesso concretizzate nel destinatario di turno; illustre esponente di questa produzione è il Principe di Machiavelli, che non a caso si apre con una parafrasi dell’inizio dell’orazione Ad Nicoclem.4

La stessa sorte, del resto, toccò ai concetti fondanti della παιδεία di Isocrate: ne è un esempio la Comparatio studiorum et rei militaris di Lapo da Castiglionchio il Giovane.

2.LE TRADUZIONI LATINE DI AD NICOCLEM E NICOCLES NEL XV SECOLO

3 Oltre alle Vite plutarchee, altre opere classiche e tardoantiche condivisero la fortuna manoscritta di Isocrate, proprio per la loro affinità con la tematica de principe; questo è il caso, per esempio, del dodicesimo dei Dialogi mortuorum di Luciano.

4 Le due tipologie dell’institutio e delle virtutes principis si ritrovano nell’opera di Bartolomeo Facio per i sovrani d’Aragona, espresse nelle epistole dedicatorie e significativamente accompagnate dal volgarizzamento dell’A Nicocle isocratea; cfr. G. Albanese, op. cit.

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All’interno del panorama delle traduzioni umanistiche delle orazioni di Isocrate, vasto e variegato,5 bisogna chiedersi di quale fortuna e diffusione abbiano effettivamente goduto le versioni di Lapo da Castiglionchio, guardando ai dati emersi dal censimento dei testimoni manoscritti in un’ottica comparativa. Data l’assenza di studi specifici anche a proposito di Nicocles, la valutazione di tale fortuna potrà essere condotta, per il momento, sulla sola traduzione dell’A Nicocle, che dei due discorsi isocratei fu il più fortunato;6 può comunque essere utile, prima di tutto, ricordare brevemente le principali traduzioni latine delle due orazioni cipriote; in questa rassegna cercherò, quando possibile, di seguire l’ordine cronologico.

Nella prima metà del XV secolo, le traduzioni latine dell’A Nicocle furono soltanto tre, e la loro composizione circoscritta nel breve arco di tempo tra il 1430 ed il 1436.

Il primo a cimentarsi nella versione dell’Ad Nicoclem fu Carlo Marsuppini da Arezzo, che aprì la fortunata serie delle traduzioni nel 1430:7 in quegli anni, il Marsuppini si trovava ospite di Galeotto Roberto Malatesta, signore di Rimini, presso il quale si era rifugiato per sfuggire ad una pestilenza; la traduzione nacque in questa circostanza, e fu dedicata dal Marsuppini al suo illustre ospite in segno di riconoscenza. Carlo Marsuppini era stato allievo di Guarino, alla cui scuola aveva imparato il greco; può essere, dunque, che la scelta del testo sia stata ispirata dalle lezioni del maestro, che delle due orazioni cipriote – e delle opere isocratee in generale – aveva fatto uno dei cardini del suo insegnamento, e – come si vedrà – suggerì ad alcuni suoi allievi di cimentarsi proprio nella loro traduzione. Dal punto di vista stilistico, la traduzione del Marsuppini è fedele al testo greco, mentre la resa latina appare talvolta viziata da una certa pesantezza e goffaggine. L’opera dovette godere di una discreta diffusione, dal momento che ci è pervenuta in undici manoscritti.

All’anno successivo, il 1431, risale la traduzione dell’Ad Nicoclem del veneziano Bernardo Giustiniani, dedicata a Ludovico Gonzaga, il futuro marchese di Mantova e allievo di Vittorino da Feltre. La prova del giovane Giustiniani piacque molto al Guarino, il quale probabilmente l’aveva commissionata al suo allievo, ed egli la presentò in termini altamente elogiativi e la lesse al suo discepolo Leonello d’Este.8

Forse anche grazie a questo illustre e positivo giudizio, la traduzione del Giustiniani ebbe un’enorme diffusione: di essa si contano ventisette manoscritti, e l’opera fu

5 Per una trattazione generale di questa tematica, si consulti L.GUALDO ROSA, La fede nella “Paideia”. Aspetti della fortuna europea di Isocrate nei secoli XV e XVI, Roma 1984.

6 Si confronti L.GUALDO ROSA, Le traduzioni latine dell’A Nicocle di Isocrate nel Quattrocento, in J. Ijsewijn - E. Kessler, Acta Conventus neolatini Lovaniensis, Leuven-München 1973.

7 I manoscritti presentano problemi di attribuzione: il Müllner attribuiva la traduzione a Guarino Guarini, datandola al 1442 (K. MÜLLNER, Zur humanistischen Übersetzungsliteratur, «Wiener Studien» 24 (1902), pp. 216-230); fu invece il Kaeppeli ad individuare l’autore in Carlo Marsuppini (T.KAEPPELI, Le traduzioni umanistiche di Isocrate e una lettera dedicatoria di Carlo Marsuppini a Galeotto Roberto Malatesta (1430), «Studi romagnoli» 2 (1951), pp. 57-75).

8 Per l’apprezzamento di Guarino, si veda la sua lettera del 7 marzo 1436 al padre di Bernardo, Leonardo Giustiniani, in R.SABBADINI, Epistolario di Guarino veronese, II, Venezia 1916, p. 134 n. 597 e III, Venezia 1919, pp. 289-290.

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data alle stampe due volte, una – quella ufficiale – a Venezia nel 1492, e un’altra – di qualità molto peggiore – nel 1511 a Parigi. La traduzione latina si presenta scorrevole alla lettura ed elegante, ma rispetto al testo greco è molto libera e talvolta sovrabbondante.

Guarino stesso si cimentò, nel 1433, nella traduzione del Nicocles, che dedicò al suo allievo Leonello d’Este.9 La versione di Guarino – pur non approdando mai alla stampa – dovette godere di un notevole successo, tanto che la Gualdo Rosa conta una ventina di testimoni manoscritti dell’opera. La studiosa offre inoltre un confronto testuale della prima sezione della traduzione di Guarino con quella di Lapo,10 che risolve tutta a favore di quest’ultimo, notando nel maestro veronese un certo impaccio nell’uso del latino, aggravato dal gusto eccessivo per l’amplificatio e per le circonlocuzioni; la resa latina del Castiglionchio, invece, è molto più elegante e concisa, pur restando aderente all’ipotesto greco. La Gualdo Rosa è convinta che Lapo conoscesse bene la traduzione del Guarini, e che la sua traduzione del Nicocles sia motivata dalla volontà di dimostrare la propria superiorità, rendendo la stessa orazione in un modo ostentatamente diverso.

L’ultima di queste prime tre versioni dell’A Nicocle è quella di Lapo da Castiglionchio il Giovane, concepita probabilmente a partire dal 1434, ma rielaborata dall’autore fino alla fine del 1437, e dedicata – come vedremo – a tre personaggi differenti in momenti successivi: inizialmente fu indirizzata al cardinale Giovanni Casanova; successivamente ad Antonio Beccadelli Panormita, il quale dal 1434 prestava servizio alla corte di Alfonso I d’Aragona; infine, essa fu ridestinata al cardinale Francesco Condulmer.

Lapo acquisì un’eccellente conoscenza del greco seguendo le lezioni di Filelfo durante il periodo del suo insegnamento fiorentino (1429-1434); la padronanza della lingua appare dalle molte versioni greco-latine prodotte dal Castiglionchio, tutte di altissimo valore: le sue traduzioni riescono ad essere eleganti e fedeli al tempo stesso. Sulla base del confronto testuale di una breve sezione, la Gualdo Rosa avanza l’ipotesi che Lapo potesse aver presente la traduzione di Carlo Marsuppini, il quale era senza dubbio un intellettuale autorevole a Firenze, e la cui versione era abbastanza diffusa; è difficile verificare, data l’esiguità dei dati, questo rapporto di dipendenza; se questo esistesse, bisognerebbe pensare che Lapo si sia accostato al testo con la volontà di migliorare e correggere la traduzione precedente. Il grande valore della versione di Lapo è testimoniato dal numero relativamente altro di testimoni che tramandano la sua opera.

Nella seconda metà del XV secolo, le traduzioni dell’A Nicocle si moltiplicarono, tanto che se ne contano più di una decina tra il 1460 ed il 1490; a questo grande successo contribuì certamente il

9 Cfr. R. Sabbadini, op. cit., II, pp. 258-260 n. 675.

10 L.GUALDO ROSA, La fede nella “Paideia”. Aspetti della fortuna europea di Isocrate nei secoli XV e XVI, Roma 1984, pp. 34-35.

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magistero del Guarino, grazie al quale Isocrate era ormai diventato testo didattico, posto a fondamento della nuova pedagogia umanistica. Le traduzioni, alcune delle quali ci sono giunte in forma anonima o sono di dubbia attribuzione, furono quasi tutte dedicate a sovrani e personaggi regali:

Apre la serie il vicentino Leonello Chieregati,11 che nel 1463 dedicò le sue versioni di Ad Nicoclem e Nicocles a Niccolò d’Este, il figlio del marchese Leonello; esse sono precedute da un dialogo in stile ciceroniano, che offre un interessante documento dell’ambiente universitario e culturale padovano. Come si deduce dalla lettera dedicatoria, il Chieregati aveva studiato a Vicenza, alla scuola di Ognibene da Lonigo, a sua volta discepolo e continuatore della scuola di Vittorino da Feltre. Appare significativo il fatto che egli dedichi a Niccolò d’Este la stessa opera – l’A Nicocle – che il Guarino aveva precedentemente fatto leggere a Leonello nella versione di Bernardo Giustiniani; la scelta ha probabilmente anche un significato politico, volendo significare che il Chieregati reputava il giovane Niccolò adatto al governo di Ferrara. Un ulteriore legame con Guarino è rappresentato dal fatto che la dedica di quest’opera è ripresa dal Chieregati da quella che lo zio materno Niccolò Loschi – che di Guarino era stato allievo – aveva premesso alla sua traduzione della pseudo-isocratea Ad Demonicum. L’A Nicocle di Leonello Chieregati ci è pervenuta in quattro manoscritti, in due soli il Nicocle.

Altre traduzioni dell’Ad Nicoclem furono quella di Alamanno Rinuccini, risalente all’incirca al 1467, testimoniata da tre manoscritti e dedicata prima al duca di Calabria Alfonso d’Aragona e poi (il 4 novembre 1471) a Federico da Montefeltro, futuro duca di Urbino; quella di Martino Filetico, allievo di Guarino Guarini, dedicata all’imperatore Federico III nel 1468 in occasione di una sua visita solenne a Roma, tramandata da un manoscritto e stampata a Strasburgo nel 1514; quella di Lorenzo Lippi da Colle, composta tra il 1464 ed il 1475 e dedicata al viceré di Sicilia Lope Ximénex de Urrea; lo stesso autore tradusse anche il Nicocles per Cosimo de’ Medici.

La traduzione del siciliano Giacomo Mirabella,12 trasmessa da un solo manoscritto, il Vaticano Reginensis 1411, fu composta tra il 1468 ed il 1479 e dedicata al re di Sicilia Ferdinando d’Aragona. L’eleganza e la raffinatezza del codice, che contiene soltanto la versione dell’A Nicocle con la lettera dedicatoria e sembra rimandare – per la fattura della decorazione e della rilegatura – all’ambiente napoletano, farebbero pensare che si tratti dell’esemplare di dedica; tuttavia lo stemma presente sulla legatura non è identificabile. Il manoscritto non presenta indicazioni cronologiche, ma il fatto che Ferdinando sia definito soltanto re di Sicilia, e il padre re d’Aragona, dà qualche indizio circa la datazione (nel 1479, Giovanni II diede al figlio il titolo di Siciliae rex et

11 Lucia Gualdo Rosa, nel suo articolo sulle traduzioni quattrocentesche dell’A Nicocle, è la prima ad individuare quella del Chieregati.

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conregnans). Dell’epistola comitatoria è notevole la descrizione del viaggio per mare di Isocrate, con allusione al fatto che il Mirabella ha intenzione di inviare in Spagna la sua traduzione; colpisce anche il tono autorevole con cui un modesto insegnante di greco si rivolge al potente Ferdinando.

Agli anni tra il 1475 ed il 1479 risale la traduzione ferrarese di Rodolfo Agricola, studente alla scuola del figlio di Guarino Battista; olandese d’origine, l’Agricola svolse un ruolo decisivo, con la sua versione dell’A Nicocle data alle stampe, nel diffondere nell’università di Ferrara prima, e poi nelle scuole europee, quell’Isocrate che il Guarino aveva scelto come testo didattico privilegiato; fu probabilmente per questo canale che si arrivò alle traduzioni di Erasmo, di Vives e degli altri umanisti europei.

Ci sono poi giunte, per lo più in manoscritti unici o soltanto in edizione a stampa, alcune traduzioni dell’Ad Nicoclem databili alla fine del XV secolo, delle quali fornisco un semplice elenco: Francesco Buzzacarini a Federico Corner, podestà uscente di Padova, 1480-81 (ed. 1482); fra Girolamo a Federico da Montefeltro, allora duca di Urbino, 1480-81; Carlo Valgulio da Brescia a Felino Sandei, 1484-92 (lo stesso autore tradusse anche Nicocles); infine due traduzioni anonime, una attribuita ad Urbano Bolzanio e una verosimilmente attribuibile a Niccolò Modrussiense e indirizzata ad un giovane principe non identificato.

Volendo ampliare l’indagine ai primi decenni del XVI secolo, si possono citare per l’Ad Nicoclem le traduzioni di Bartolomeo Zamberti a Girolamo Quirini del 1506 e quella di Stefano Negri, allievo di Demetrio Calcondila e professore a Milano, dedicata nel 1521 ad Ottaviano Arcimboldi; per la Nicocles, la versione di Michele Sarzanella Manfredi per Borso d’Este.

Per quanto riguarda le due orazioni cipriote in versione latina attribuite all’umanista padovano Lucio Paolo Roselli, e da lui dedicate prima a Giovanni Argentino vescovo di Concordia (1542) e poi al cardinale di Mantova Ercole Gonzaga, sembra che esse siano in realtà quelle del Chieregati, così come la dedica ed il dialogo che Roselli premette alle traduzioni.

Le traduzioni latine delle due orazioni secondo questa rassegna si possono dunque sintetizzare come segue:

Ad Nicoclem:

1. Carlo Marsuppini a Galeotto Roberto Malatesta (1430) 2. Bernardo Giustiniani a Ludovico Gonzaga (1431)

3. Lapo da Castiglionchio il Giovane a Giovanni Casanova, al Panormita e a Francesco Condulmer (1436)

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5. Alamanno Rinuccini ad Alfonso d’Aragona (1467 ca.) e Federico da Montefeltro (1471) 6. Martino Filetico a Federico III (1468)

7. Lorenzo Lippi a Lope Ximénex de Urrea (1464-75) 8. Giacomo Mirabella a Ferdinando d’Aragona (1468-79) 9. Rodolfo Agricola (1475-79)

10. Francesco Buzzacarini a Federico Corner (1480-81) 11. Fra Girolamo a Federico da Montefeltro (1480-81) 12. Carlo Valgulio a Felino Sandei (1484-92)

13. Urbano Bolzanio (?) (1480 ca.)

14. Niccolò Modrussiense (?) ad un giovane principe 15. Bartolomeo Zamberti a Girolamo Quirini (1506) 16. Stefano Negri ad Ottaviano Arcimboldi (1521)

Nicocles:

1. Guarino Guarini a Leonello d’Este (1433) 2. Leonello Chieregatia Niccolò d’Este (1463) 3. Lorenzo Lippi a Cosimo de’ Medici (1464-75) 4. Carlo Valgulioa Felino Sandei (1484-92) 5. Michele Sarzanella Manfredi a Borso d’Este

3. LA TRADUZIONE DELL’AD NICOCLEM DI LAPO DA CASTIGLIONCHIO: QUALE FORTUNA E QUALE DIFFUSIONE?

Tradizione manoscritta e riprese successive

Bisogna interrogarsi, a questo punto, circa la fortuna e la diffusione di cui godettero le due orazioni cipriote tradotte da Lapo da Castiglionchio; come anticipato, l’indagine sarà principalmente incentrata sull’A Nicocle, che delle due orazioni isocratee fu sicuramente la più fortunata per numero e varietà di traduzioni.

La fortuna di un’opera si può misurare in base a diversi indicatori; in questo caso si terrà conto principalmente di due di essi: la valutazione della tradizione manoscritta e la quantità delle riprese attestate, nell’epoca immediatamente successiva, nelle traduzioni di altri autori.

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Per quanto riguarda la fortuna manoscritta delle traduzioni dell’Ad Nicoclem, dalla rassegna appena conclusa si osserva che, tra le sedici versioni delle quali abbiamo notizia, due si distinguono nettamente dalle altre per il numero di manoscritti che le tramandano: quella di Bernardo Giustiniani (1431) e quella di Lapo da Castiglionchio il Giovane (1436), testimoniate la prima da 27 manoscritti e due edizioni a stampa, la seconda – come è emerso dal censimento – da 16 manoscritti. La versione di Lapo primeggia, quanto al numero di copie prodotte, anche tra le traduzioni del Nicocles: i quattordici manoscritti che la tramandano attestano una diffusione paragonabile soltanto a quella della versione del Guarino, giunta fino a noi in venti manoscritti.

Fermo restando che l’Ad Nicoclem tradotta da Bernardo Giustiniani – probabilmente anche grazie alla promozione che ne fece il suo autorevole maestro, Guarino Guarini – ebbe un successo ed una diffusione straordinaria per tutto l’umanesimo, i dati numerici dimostrano che anche la versione di Lapo dovette usufruire di una fortuna non indifferente.

Se prendiamo ora in considerazione il secondo indicatore, quello delle successive riprese dell’opera, saremmo inizialmente portati ad accordare la supremazia al Giustiniani: nel primo e precoce volgarizzamento italiano dell’orazione, composto da Bartolomeo Facio nel 1444 e dedicato ad Alfonso d’Aragona, l’autore, che, troppo inesperto della lingua greca per basarsi direttamente sul testo originale, è costretto a ricorrere ad una traduzione latina, nella lettera prefatoria dichiara apertamente la propria dipendenza dalla versione di Bernardo Giustiniani; parrebbe inoltre che anche un volgarizzamento più tardo, quello portato a termine nel 1532-34 da Giovanni Brevio, sia partito dalla stessa traduzione latina.

La composizione del Super Isocrate di Bartolomeo Facio, recentemente studiato ed edito da Gabriella Albanese,13 è collocabile al 1444; questo testo aprì la strada, nella corte aragonese di Napoli, al filone della trattatistica de principe, in latino e in volgare, destinato ad un enorme sviluppo nei decenni successivi.14 Si tratta di un’opera bilingue e composita, dedicata a Ferdinando, figlio naturale di Alfonso il Magnanimo (ovvero Alfonso V d’Aragona, Alfonso I di Napoli dal 1442 al 1458) conosciuto anche come Ferrante I, che dopo la conquista di Napoli del 1443 era l’erede al trono designato; il Facio, giunto a corte per una missione diplomatica, vi svolse poi di fatto la funzione di storico personale di Alfonso, e fu da lui incaricato – proprio intorno al 1444 – della formazione del giovane duca di Calabria.

Il Super Isocrate si apre con un proemio latino, cui segue il volgarizzamento dell’isocratea A Nicocle; vi si trovano poi due orazioni – anch’esse latine –, che rappresentano l’attualizzazione dei

13 G. ALBANESE, L’esordio della trattatistica de principe alla corte aragonese: l’inedito Super Isocrate di Bartolomeo Facio, in L. Geri, Principi prima del Principe, Roma 2012, pp. 59-115.

14 Basti ricordare, tra le altre opere, il Memoriale sui doveri del principe di Diomede Carafa, databile ante 1476, il De principe di Giovanni Pontano, dedicato nel 1468 ad Alfonso duca di Calabria, e il De Maiestate di Giuliano Maio, composto nel 1492.

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concetti espressi nel testo di Isocrate: la prima è un elogio di Ferrante, il discepolo di Facio, e si configura pertanto come un’institutio principis; la seconda è invece composta in lode del padre Alfonso, del quale si enumerano le virtutes principis; in conclusione si trova una postfazione rivolta a Ferrante, nella quale è descritta la struttura dell’opera.

Nel proemio del Super Isocrate, il Facio sente l’esigenza di giustificare la propria operazione di volgarizzamento, che egli definisce come un pervertere il testo originale e – scrive – inevitabilmente sottrarrà al testo greco dignità ed eleganza: essa è tuttavia motivata dalla committenza regale, e giustificata dal suo valore politico e precettistico. Nello stesso proemio il Facio, che a quell’epoca non conosceva il greco, dichiara apertamente di aver attinto, per la sua traduzione italiana, alla versione latina approntata qualche anno prima da Bernardo Giustiniani, il quale era stato suo compagno alla scuola di Guarino:

Quid enim absurdius aut inconvenientius dici potest quam Isocratem, qui fuit inter Grecos rhetor elegantissimus et a Bernardo Iustiniano, disertissimo viro, e greco in latinum ornate eleganterque traductus, a me rursus a latino in maternum sermonem conversum et evulgatum esse? Quod quidem fieri non posse intelligo salva auctoris gravitate: detrahitur enim et verbis dignitas et orationi splendor, ut que latine vel grece scripta prius enitebant, nunc vulgaria facta sordescant. Idque vel equius in me reprehendi poterit, quoniam semper solitus sum illos improbare qui latina – ea dice que graviter et copiose vel a nostris scripta vel e Grecia traducta – hoc modo pervertunt. Nam id plane pervertere est, non convertere, auctoris gravitatem dignitatemque labefactare.

Ego quoque, illustrissime princeps, faterer a Bernardo Iustiniano hanc mecum iniuriam merito expostulari posse, quod labore suo abusus fuerim, nisi me iussus tuus excusaret, cui refragari, ut nec potui nec debui, ita certe nec volui. […] scito id summum precium fore si me tue voluntati hac in re satisfecisse cognovero: id quod ego unum omnium maxime exopto.

Si viene così a tracciare un rapporto di dipendenza che, partendo dal Guarino, si trasmette nella versione di Bernardo Giustiniani – commissionatagli proprio dal maestro – e poi in quella di Bartolomeo Facio; alla fine della dedicatoria, questi attesta la sua fede guariniana anche per quanto riguarda il metodo versorio, improntato alla tecnica di una traduzione amplificatoria e libera, soprattutto nell’interpretazione dei passi più oscuri:

Ut autem rei ordinem quo sum usus in interpretando opere intellegas, scito me non verbum verbo sed sententia sententiam reddidisse. Id enim puerile semper duxi, syllabatim, ut ita loquar, in aliam linguam auctoris textus convertere. Et preterea, si quid dubium vel obscurum ocurrit, illud subinde post interpretationem arbitratu meo latius exposui.

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Il volgarizzamento dell’A Nicocle di Giovanni Brevio è testimoniato dal solo manoscritto Mediceo Palatino 67, probabilmente l’esemplare di dedica.15

La traduzione fu inizialmente dedicata ad Alessandro de’ Medici, primo duca di Firenze, ma in seguito alla sua morte – sopravvenuta nel 1537 a causa di una congiura –, nel 1542 l’autore dovette ridestinare l’opera al giovane Francesco III Gonzaga, duca di Mantova, figlio e successore di Federico II; alla morte del padre, nel 1540, all’età di soli sette anni Francesco era stato acclamato duca di Mantova; gli erano stati dunque affiancati come tutori la madre Margherita Paleologa e gli zii Ercole e Ferrante.16 Nel 1549, tuttavia, anche il secondo dedicatario della traduzione di Brevio morì, ammalatosi durante una battuta di caccia.17

Dalla lettura dell’epistola dedicatoria, si deduce che Giovanni Brevio si servì – circostanza del resto frequente all’epoca – di una versione latina sulla quale condurre il proprio volgarizzamento. Questo modello latino sembra potersi individuare con sufficiente certezza nella traduzione dell’A Nicocle fatta all’incirca un secolo prima da Bernardo Giustiniani; il rapporto di dipendenza, verosimile se si pensa che il Giustiniani operava nello stesso ambiente di Brevio, quello cioè della corte mantovana, appare evidente dal raffronto di un passo delle dediche delle due opere: nella dedica del Giustiniani a Ludovico Gonzaga si legge infatti

Cum Isocratem nuper…legerem atque in eum incidissem libellum qui de regno inscribitur, is mihi, vel institutionum gravitate, vel instituendi suavitate ita elegans visus est, ut dignum certe putarem […]18

e nel passo corrispondente della dedicatoria del Brevio

Leggendo io a questi dì, Magnanimo et Illustrissimo Signore Alessandro, una oratione di Isocrate il cui titolo è Di regno, ho giudicato quella sì per la gravità delle sentenze, sì etiandio per la soavità della eleganza sua, degno dono […]

Se, dunque, la traduzione latina di Bernardo Giustiniani servì probabilmente da modello per due importanti volgarizzamenti dell’A Nicocle, nessun successivo traduttore dell’orazione dichiara

15 Il volgarizzamento di Brevio è studiato in C.CIOCIOLA, Il volgarizzamento isocrateo di Giovanni Brevio nel manoscritto Mediceo Palatino 67, in G. Albanese – C. Ciociola – M. Cortesi – C. Villa, Il ritorno dei Classici nell’Umanesimo. Studi in memoria di Gianvito Resta, Firenze 2015, pp. 129-149.

16 Nella dedica del volgarizzamento, il Brevio fornisce le motivazioni della scelta dell’opera e lo scopo del suo omaggio, facendo riferimento proprio alla giovane età del duca: leggendo spesso detta orazione in questa sua tenera età quella talmente a memoria mandi, che, pervenuta agli anni convenevoli al governo dello stato suo, possa quello più agevolmente et giustamente reggere.

17 Nel suo articolo, Ciociola dimostra che il volgarizzamento dev’essere retrodato di circa dieci anni rispetto alle proposte precedenti: poiché nella lettera dedicatoria l’autore si rivolge al destinatario con il titolo ducale, bisogna circoscrivere l’opera agli anni 1532-37; nella stessa dedica, inoltre, viene indicato come regnante Clemente VII, che morì il 25 settembre 1534. Ne consegue che la traduzione va datata tra l’aprile 1532 ed il settembre 1534, verosimilmente – secondo Ciociola - poco l’acquisizione del ducato da parte di Alessandro de’ Medici, come sembra potersi ricavare da alcune allusioni contenute nella chiusa della dedicatoria.

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esplicitamente il proprio debito nei confronti della versione di Lapo da Castiglionchio. Questa prima impressione, che farebbe pensare ad un successo molto minore di Lapo rispetto al Giustiniani, sembra però doversi quantomeno ridimensionare fortemente: proponendo il confronto testuale di una breve sezione dell’orazione nelle varie interpretazioni, Lucia Gualdo Rosa arriva infatti a postulare una dipendenza dalla traduzione di Lapo per ben tre delle versioni latine quattrocentesche, ovvero quelle di Leonello Chieregati a Niccolò d’Este (1463), Giacomo Mirabella a Ferdinando d’Aragona (1468-79) e Rodolfo Agricola (1475-79). Riporto di seguito, citando da Gualdo Rosa, la stessa porzione di testo nelle quattro diverse traduzioni umanistiche, così da poterle confrontare tra di loro e con il testo greco di partenza:

Isocrate (Ad Nic. 2-3)

[2] ἡγησάμην δ᾽ ἂν γενέσθαι ταύτην καλλίστην δωρεὰν καὶ χρησιμωτάτην καὶ μάλιστα πρέπουσαν ἐμοί τε δοῦναι καὶ σοὶ λαβεῖν, εἰ δυνηθείην ὁρίσαι ποίων ἐπιτηδευμάτων ὀρεγόμενος καὶ τίνων ἀπεχόμενος ἄριστ᾽ ἂν καὶ τὴν πόλιν καὶ τὴν βασιλείαν διοικοίης. τοὺς μὲν γὰρ ἰδιώτας ἐστὶ πολλὰ τὰ παιδεύοντα, μάλιστα μὲν τὸ μὴ τρυφᾶν ἀλλ᾽ ἀναγκάζεσθαι περὶ τοῦ βίου καθ᾽ ἑκάστην τὴν ἡμέραν βουλεύεσθαι, [3] ἔπειθ᾽ οἱ νόμοι καθ᾽ οὓς ἕκαστοι πολιτευόμενοι τυγχάνουσιν.

Lapo

[2] Ego vero existimavi munus pulcherrimum utilissimumque fore, et quod danti mihi et tibi accipienti maxime conveniret, si definire possem quibus studiis atque artibus instructus quibusque declinatis rebus optime et civitatem tuam et regnum constituere possis. Nam privatos quidem multa sunt quae erudiant, ac imprimis quod luxuria prohibentur cogunturque victus comparandi gratia continuo laborare; [3] leges praeterea, quibus singuli in civitate obtemperant.

Chieregati

Ego vero optimum hoc et utile ac valde decorum mihique danti tibique accipienti munus fore putavi, si quae studia appetens a quibusque rebus abhorrens, cum summa integritate et regnum et civitatem gubernares succincta et absoluta oratione explicare valerem. Multa enim sunt quibus privati castigari possunt, cum praesertim hoc ipsis traditum sit ne versentur (corr.: idque in primis quod non versantur) in deliciis, sed quotidie de victu suo decertare coguntur. Leges deinde ipsis late fuerunt, quas quilibet observans civiliter vivere conatur.

Mirabella

At ego id munus pulcherrimum et donum utilissimum arbitrarer quodque magis et danti mihi et tibi accipienti conveniret, si diffinire ac constituere possem quibus abstinens rebus, qua arte, quibus intentus studiis et civitatem et regnum quam optime gubernares. Sed sunt permulta, quae privatos homines erudire et a deliciis ac voluptatibus, tum inopia et victus comparandi necessitate, tum caeteris humanae vitae difficultatibus, ad meliorem honestioremque vitam revocare possunt. Sunt praeterea leges, quibus parere in civitate maximopere oportet.

Agricola

At ego pulcherrimum crederem donum futurum simulque utilissimum et maxime decorum danti mihi tibique accipienti, si possem praefinire cuiusmodi institutis insectandis et quibus vitandis operibus, optime et civitatem et regnum

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administrares. Nam privatos quidem multa quae intra modestiam contineant, idque maxime quod non in voluptates effunduntur, sed necesse habent quotidie circa quaerendum victum decertare. Deinde leges, quibus in civitate reguntur.

Dal confronto di queste porzioni di testo, la Gualdo Rosa ricava l’impressione che tutti e tre i traduttori abbiano tenuto presente la versione di Lapo, pur modificandola e rielaborandola in modo originale; il più forte elemento in base al quale postulare una dipendenza da Lapo sarebbe la ricorrenza – in tutte le traduzioni, seppur con qualche variazione – del chiasmo iniziale danti mihi et tibi accipienti per rendere il greco ἡγησάμην δ᾽ ἂν γενέσθαι ταύτην καλλίστην δωρεὰν καὶ χρησιμωτάτην καὶ μάλιστα πρέπουσαν ἐμοί τε δοῦναι καὶ σοὶ λαβεῖν. La scelta di latinizzare l’espressione isocratea con un chiasmo non è – effettivamente – scontata, e dunque dovrebbe far pensare ad un rapporto di dipendenza tra i testi (o, come postuliamo in questo caso, delle tre traduzioni a quella di Lapo da Castiglionchio), tanto più che essa implica anche il passaggio dagli infiniti greci ai participi latini – forse dovuto ad un fraintendimento dell’originale. Proprio questo passaggio, tuttavia, fa sorgere il sospetto che, più che ad un fraintendimento, si debba pensare alla possibilità che nel quattrocento circolassero copie dell’orazione isocratea con un testo diverso da quello stabilito dalle edizioni moderne (un testo, quindi, con i participi in dativo di relazione al posto degli infiniti, e magari – ma questo è un ragionamento del tutto teorico – con la stessa disposizione chiastica tra pronomi e verbi che si riscontra nel latino, oppure semplicemente un testo corrotto); è infatti poco verosimile sia che l’errore si sia trasmesso dalla versione di Lapo alle tre successive senza che mai venisse corretto, sia che esso si sia generato indipendentemente nelle quattro traduzioni.19

Dal punto di vista del metodo dell’indagine filologica, è chiaro che, se si arrivasse a dimostrare una situazione del genere, la ricorrenza del chiasmo in tutte le traduzioni non sarebbe sufficiente a rivelare un rapporto di dipendenza.

Le edizioni moderne che ho consultato finora non riportano varianti manoscritte che vadano in questa direzione, ma certo la questione è interessante e merita di essere approfondita, anche con l’obiettivo di individuare la fonte greca che Lapo utilizzò per le sue traduzioni.

La Gualdo Rosa osserva che il più fedele al modello del Castiglionchio sembra essere Rodolfo Agricola (danti mihi tibique accipienti; nam privatos quidem multa quae), nonostante la sua versione appaia talvolta goffa e inferiore a quella del supposto modello; secondo la studiosa, l’uso del gerundivo strumentale cuiusmodi institutis insectandis et quibus vitandis operibus ed il verbo praefinire, “di sapore medievale”, denoterebbero una scarsa conoscenza del latino da parte

19 La traduzione del Marsuppini, tra quelle che ho potuto esaminare per questo passo, è quella che più si accosta al testo che noi leggiamo: At ego hoc honestissimum ac utilissimum mihique ad tradendum tibique ad sumendum decentissimum donum fore putavi […].

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dell’Agricola. Né il giudizio sul gerundivo strumentale – che, al contrario, presenta una raffinata costruzione chiastica – né quello sul verbo praefinio – ampiamente attestato, in questo significato, nella latinità classica – mi sembrano condivisibili. Inoltre, se è vero che la traduzione di Agricola mostra qualche affinità con la versione di Lapo, mi sembra che più numerosi punti di contatto si possano individuare in quella di Giacomo Mirabella: oltre al chiasmo iniziale (et danti mihi et tibi accipienti conveniret), potrebbero rimandare al Castiglionchio la scelta dei verbi definire e ed erudire (sed sunt permulta, quae privatos homines erudire…possunt). È abbastanza condivisibile, in questo caso, il giudizio della Gualdo Rosa, che riscontra nella traduzione di Mirabella una tendenza alla sovrabbondanza, alla variatio ed alla rielaborazione, che qualche volta sembra sconfinare nel fraintendimento dell’originale greco.

Il rapporto tra la versione di Lapo e quella del Chieregati, che anche la Gualdo Rosa nota essere più autonoma rispetto al supposto modello, andrebbe invece quantomeno verificato sulla base di un più esteso raffronto testuale: l’unico elemento di contatto tra le due traduzioni sembra essere, infatti, il chiasmo iniziale – con tutte le cautele che si sono esposte –, mentre per il resto la resa del Chieregati si pone in una posizione di estrema libertà rispetto al testo isocrateo, al quale spesso aggiunge intere espressioni (il greco ὁρίσαι, per esempio, diventa in latino succincta et absoluta oratione explicare).

La questione delle riprese dell’Ad Nicoclem tradotta da Lapo da Castiglionchio nelle successive versioni, affrontata in modo cursorio dalla sola Gualdo Rosa, merita senz’altro di essere approfondita: questa mia edizione integrale del testo di Lapo potrà fornire il punto di partenza per un più ampio raffronto testuale con le tre versioni citate, finalizzato a verificare queste ed evidenziare ulteriori corrispondenze, e la ricerca di eventuali riprese non dichiarate anche in altre traduzioni coeve. Sarebbe in ogni caso interessante se la scelta del Chieregati, dell’Agricola e del Mirabella – o anche solo di uno di essi – fosse davvero ricaduta proprio sulla versione di Lapo, tanto più se si pensa che all’epoca erano già diffuse e disponibili le latinizzazioni di Carlo Marsuppini (1430) e Bernardo Giustiniani (1431); l’acquisizione di questo dato, unito a quello già considerato della consistenza della tradizione manoscritta, delineerebbe per le traduzioni di Lapo un quadro di fortuna e successo non indifferente, e sicuramente dovuto – soprattutto per quanto riguarda le dipendenze versorie – all’alto risultato tecnico da lui raggiunto.

Per quanto riguarda l’ambiente della corte aragonese, il discorso è particolarmente interessante e meriterebbe di essere approfondito: abbiamo visto che oltre alla copia donata da Lapo al Panormita nel 1436, infatti, altre tre traduzioni quattrocentesche dell’Ad Nicoclem furono in qualche modo legate alla corte: il volgarizzamento di Bartolomeo Facio, dedicato nel 1444 ad re Alfonso e a suo

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figlio Ferdinando, e le versioni latine di Alamanno Rinuccini per Alfonso (1467 ca.) e di Giacomo Mirabella per Ferdinando (1468-79). Mentre la versione di Facio dipende – come si è dimostrato – da quella latina di Bernardo Giustiniani, abbiamo osservato come quella di Mirabella derivi probabilmente da quella di Lapo da Castiglionchio; non solo questo dato potrebbe indicare che Giacomo Mirabella preferì tornare al modello di Lapo piuttosto che continuare a rifarsi al Giustiniani, ma potrebbe anche suggerire che il manoscritto Vat. lat. 3422 – probabilmente l’esemplare di dedica per Antonio Beccadelli – sia effettivamente pervenuto a Napoli, e vi si trovasse ancora negli anni 1468-1479, durante i quali potrebbe essere stato utilizzato direttamente dal Mirabella. Questo porterebbe a ridimensionare la supposta sfortuna della traduzione di Lapo rispetto a quella di Bernardo Giustiniani in area napoletana.20

4.CONTESTO CULTURALE, STORICO E BIOGRAFICO (1434-1435)

Non rientra tra gli scopi di questo lavoro presentare un profilo biografico di Lapo da Castiglionchio. Tuttavia, sarà utile offrire una sistematizzazione dei principali e dei più recenti contributi in tal senso. Per quanto riguarda le vicende legate alla biografia di Lapo (nato a Firenze nel 1406), sarà sufficiente soffermarsi sugli anni dal 1434 al 1438, gli ultimi cinque della sua breve vita. Come già notava il Luiso, infatti, sono questi i limiti cronologici entro i quali l’autore si dedicò alle proprie opere di traduttore; le ragioni di questa circostanza sono ben delineate in ciò che scrive Lapo all’amico e compagno Leon Battista Alberti:

[...] Ab initio, cum graecas litteras natu iam grandiores nec vacui animo attigissemus, ob rei magnitudinem ac difficultatem omne illud tempus nobis, quod reliquum erat a negotiis, in audiendo legendoque ponebatur, scribendi otium non erat. Itaque nostrae litterae usque ad hanc diem perpetuo silerunt.21

Fu dunque soltanto dopo aver finito di frequentare le lezioni di Francesco Filelfo, che avevano impegnato Lapo tra il 1428 ed il 1434, che l’umanista poté trovare il tempo per l’attività di traduzione dal greco, che comunque fu assai ricca e variegata. In quest’arco temporale, Lapo riprese in mano, per rielaborarle ed affinarle dal punto di vista stilistico, alcune delle traduzioni che aveva probabilmente già abbozzato sotto la guida del maestro, e le pubblicò insieme a molti nuovi lavori. L’operosità e la solerzia con le quali Lapo si dedicò alla pratica versoria, e soprattutto la frequenza e

20 Bisognerebbe, a questo punto, raffrontare la traduzione di Alamanno Rinuccini con quelle di Lapo e del Giustiniani, per verificare se essa mostri elementi di contatto con una delle due versioni.

21 Queste parole si leggono nella lettera dedicatoria premessa alle traduzioni del De tyranno e del De sacrificiis di Luciano; essa è pubblicata in Bandini, Cat., III, pp. 362 sgg., e parzialmente trascritta dal Luiso, op. cit., p. 283 n. 1.

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l’acribia con cui egli tornò sulle sue opere in momenti successivi, per migliorarle sottoponendole ad un continuo labor limae (l’esempio più lampante è, per l’appunto, costituito dalle quattro redazioni delle orazioni a Nicocle), con ogni probabilità trova la sua motivazione nella funzione politica alla quale tali versioni dal greco dovevano assolvere. La maggior parte delle traduzioni di Lapo, infatti, fu corredata di magnifiche lettere di dedica, non di rado più d’una in momenti diversi, ed inviata dall’autore ai personaggi più influenti del momento: molti di essi facevano parte della Curia romana (come i cardinali Casanova e Condulmer, Eugenio IV e il cardinale Prospero Colonna); altri avevano fama di mecenati delle lettere, come Cosimo de’ Medici, Alfonso I d’Aragona o il duca Humfrey di Gloucester; altri ancora, infine, erano intellettuali come Lapo che però, per le loro conoscenze personali o il loro impiego, potevano essere da lui sfruttati come tramite per raggiungere personaggi potenti (questo è il caso del Panormita). La prassi di dedicare – e ridedicare – le proprie traduzioni dal greco al potenziale mecenate del momento, d’altronde, era assai diffusa a quell’epoca: dobbiamo immaginare che la competizione tra gli intellettuali per accattivarsi i favori dell’uno o dell’altro signore fosse serrata, come dimostrano le numerose traduzioni dell’A Nicocle di Isocrate che abbiamo appena ricordato. Non c’è quindi da stupirsi se un intellettuale come Lapo, consapevole dell’altissimo livello della sua istruzione greca e sempre in cerca di un protettore, si sentisse spinto a portare le sue opere ad un grado sempre più elevato di perfezione formale. La sua morte prematura, peraltro, offrì l’opportunità a qualche suo contemporaneo di sfruttare a proprio vantaggio la gran mole di traduzioni che egli aveva accumulato negli ultimi anni della sua vita.

Gli ultimi anni della vita di Lapo da Castiglionchio si possono ricostruire grazie alla voce redatta da Riccardo Fubini22 e da un articolo di Lucia Gualdo Rosa;23 a questi importanti contributi per la biografia di Lapo bisogna aggiungere l’edizione del De curiae commodis di Christopher S. Celenza, che è accompagnata da una ricca introduzione nella quale l'autore, basandosi in gran parte sul materiale epistolare pubblicato dal Luiso, contestualizza l’opera dal punto di vista storico e culturale.24

Inoltre, per questi anni possediamo la ricca documentazione offerta dalle lettere dell’umanista, sia le familiari sia le epistole di dedica premesse alle numerose traduzioni dal greco. Per l’epistolario di Lapo, e per le sue lettere di dedica, l’opera di riferimento rimane ancora quella del Luiso.25

22 R.FUBINI, Castiglionchio, Lapo da, in Dizionario Biografico degli Italiani, XXII, Roma 1979, pp. 44-51. 23 L.GUALDO ROSA, Lapo da Castiglionchio il Giovane e la Curia al tempo di Eugenio IV: un rapporto difficile, in A. Mazzon, Scritti per Isa: raccolta di studi offerti a Isa Lori Sanfilippo, Roma 2008, pp. 505-522.

24 C.S.CELENZA, Renaissance Humanism ant the Papal Curia. Lapo da Castiglionchio the Younger’s De curiae commodis, Ann Arbor 1999, pp. 1-29; si veda anche E.MAY MC CAHILL, Findig a Job as a Humanist: the Epistolary Collection of Lapo da Castiglionchio the Younger, «Renaissance Quarterly» 52/2 (2004): 1308-1345.

25 F.P.LUISO, Studi su l’epistolario e le traduzioni di Lapo da Castiglionchio iuniore, «Studi italiani di filologia classica» 8 (1899): 205-299; il Luiso offre la trascrizione quasi completa di 46 lettere e 25 lettere di dedica. Altre

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Una data cruciale per la ricostruzione degli ultimi anni della vita di Lapo è il 26 settembre 1434, quando Cosimo de’ Medici, rientrato a Firenze dopo l’esilio, bandì dalla città gli esponenti della fazione oligarchica. Questa circostanza dovette danneggiare fortemente la famiglia di Lapo, che si era legata molto tempo prima al partito degli Albizzi; alle difficoltà economiche conseguenti alla perdita del patrimonio, l’autore allude con toni di lamento in tutte le sue lettere. Da quel momento, per Lapo cominciò un’affannosa ricerca di impiego e sostegno presso l’uno o l’altro protettore; questo fu certamente dovuto anche al fatto che nel dicembre dello stesso anno 1434 Francesco Filelfo, amico e maestro di Lapo, fu costretto a lasciare Firenze per andare ad insegnare retorica all’università di Siena; egli si era infatti inimicato Cosimo e molti degli intellettuali del suo entourage (tra gli altri Ambrogio Traversari, Carlo Marsuppini e Niccolò Niccoli). Nel 1435 Lapo tentò, senza successo, di guadagnarsi il favore dei Medici, dedicando a Cosimo la sua traduzione della Themistoclis vita di Plutarco. Nei primi mesi del 1435, l’umanista seguì il suo maestro a Siena, dove strinse amicizia con altri discepoli del Filelfo, con i quali instaurò anche una corrispondenza testimoniata da alcune lettere dell’epistolario: si trattava soprattutto di Francesco Patrizi e di Gaspare da Recanati. L’amicizia con Gaspare fu fondamentale per Lapo, che grazie a lui fu presentato al suo parente Angelo da Recanati, il quale lavorava a Firenze come segretario dell’influente e ricco cardinale Giovanni Casanova d’Aragona, del titolo di S. Sisto, confessore dello stesso Alfonso.26 Grazie alla raccomandazione di Angelo da Recanati, nell’estate 1435 Lapo entrò al servizio del Casanova, per conto del quale scrisse sei lettere indirizzate alle più importanti figure religiose e politiche dell’epoca. Com’era uso a quel tempo, attraverso la familiarità con il Casanova Lapo mirava ad accreditarsi presso il papa; ad Eugenio IV, infatti nel settembre 1435 fece pervenire le sue versioni del De fletu e del De somnio di Luciano, e successivamente quella della Solonis vita, attendendosi come ricompensa un impiego.27 Queste aspettative sono esplicitate nella lettera di presentazione che Lapo inviò al Casanova, nella quale l’umanista fa anche menzione delle traduzioni che intende inviare al pontefice.28 Nella stessa lettera, inoltre, Lapo promette al Casanova

epistole sono state pubblicate nella tesi di laurea, purtroppo inedita, di Rotondi: E.ROTONDI, Lapo da Castiglionchio e il suo epistolario, Università di Firenze, Facoltà di Magistero, anno accademico 1970-71. Alcune lettere private, in particolare quelle contenute nel codice di Como (Como, Biblioteca Comunale, 4.4.6, cc. 262-292), rimangono ancora inedite.

26 Il Casanova fu eletto alla porpora da Martino V l’8 novembre 1430; si cfr. C.EUBEL, Hierarchia Catholica Medii Aevi, II, Monasterii 19142, p. 7 n. 1.

27 Per la lettera di Lapo ad Eugenio IV si vedano Luiso, op. cit., pp. 213 ssgg. Ed E. Rotondi, op. cit., pp. 40 ssgg. 28 Luiso, op. cit., pp. 211-212: Iampridem mihi proposueram, quibuscumque rebus anniti atque efficere possem, summo Pontifici gratificari; ob eamque causam, cum accepissem illum his nostris studiis admodum delectari, et quaedam ex graecis interpretatus essem, ad eum mittere statueram. Verum ad id mihi dux quidam et princeps opus erat qui pro me hoc onus laboris officiique susciperet, eaque ad summum Pontificem deferret meque sanctitati suae commendaret ac ei omnem statum fortunasque meas et studia declararet. Hunc mihi diu perquirenti tu solus occurristi

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di ricambiare la sua intermediazione presso il papa inviandogli una traduzione dal greco che sta preparando e che spera di finire al più presto (opus quoddam lucubratur a nobis cottidie tuo nomine); come ha notato per prima la Gualdo Rosa, la frase allude probabilmente ai due opuscoli Nicocle e A Nicocle. Lo studio filologico dei testi, e soprattutto l’analisi delle varie redazioni dell’epistola dedicatoria premessa a tali traduzioni, mi ha permesso di confermare tale ipotesi: la prima redazione delle due orazioni a Nicocle fu dedicata da Lapo proprio al cardinale Casanova. Di quest’epistola dedicatoria, tuttavia, non ci è pervenuta traccia; le ragioni di questa circostanza, sulle quali il primo e fondamentale studio è rappresentato da un articolo giovanile di Antonio Carlini,29 sono state approfondite grazie al presente lavoro. Lapo, che già aveva pronte le due traduzioni, le aveva fatte copiare su un codice, il manoscritto Vat. Lat. 3422 (V1 in questo studio), precedute dalla dedicatoria indirizzata a Giovanni Casanova. Proprio quando il manoscritto era ormai pronto, tuttavia, giunse l’inaspettata notizia della morte improvvisa del cardinale, occorsa il 1° marzo 1436. Lapo allora, vedendosi irrimediabilmente preclusa la strada verso il pontefice che finora gli era parsa così promettente, dovette pensare ad un altro modo per trovare protezione e sostegno. Per una felice circostanza, proprio tra il marzo e l’aprile di quell’anno 1436 si trovava in visita a Firenze, in qualità di ambasciatore di Alfonso il Magnanimo, il poeta Antonio Beccadelli detto il Panormita. Perciò Lapo, non avendo il tempo materiale di far allestire un altro codice, pensò bene di riadattare il testo dell’epistola dedicatoria (inizialmente concepita per il Casanova) al nuovo dedicatario, il Panormita. Le modifiche necessarie furono introdotte riscrivendo le porzioni di testo precedentemente eraso. Così Lapo ebbe modo di consegnare il codice direttamente nelle mani del Panormita, sperando in una sua intercessione presso Alfonso. In quella stessa occasione, inoltre, l’umanista dovette affidare al Panormita, perché la trasmettesse al re, la sua traduzione della Fabii Maximi vita di Plutarco;30 dal Panormita, però, Lapo non ottenne i benefici sperati, e infatti pochi mesi dopo, il 30 maggio del 1436, gli inviò una lettera nella quale s’informava dell’accoglienza della sua Vita da parte del re, alludendo anche al dono delle due versioni isocratee: Tu velim pro tua humanitate et pro nostra iam instituta amicitia, cum primum otium nactus eris, ad me aliquid scribas et me de libello meo iamdiu ad Regem misso [= la traduzione della Vita plutarchea di Fabio Massimo], de quo vehementer sollicitus sum, deque omni statu tuo, ut vales, quid agas, quid speres, me tuis litteris certiorem efficias, in primisque ut me ames. Quod una re facillime iudicabo, si me aliqua ex parte tuis scriptis commendari intelligam; praesertim cum ego id prior, etsi non pari

qui ad id ita idoneus visus est, ut, si ex omnibus unus mihi deligendus sit, neminem profecto habeam qui tecum aut studio aut voluntate aut facultate aut gratia conferendus sit.

29 A.CARLINI, Appunti sulle traduzioni latine di Isocrate di Lapo da Castiglionchio, «Studi classici e orientali» 19-20 (1970-71): 302-309.

30 Nella lettera dedicatoria ad Alfonso, Lapo allude alla morte del Casanova con toni di cordoglio: qui his diebus subito ereptus mihi suisque omnibus triste desiderium reliquit (Luiso, op. cit., pp. 266-268).

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laude libenti tamen animo, in te facere sim conatus [con l’omaggio delle traduzioni di Nicocle e A Nicocle].31

Constatato il silenzio del Panormita, Lapo passò quindi sotto la protezione di un altro cardinale, Prospero Colonna; entrato al suo servizio a Firenze, approntò per lui la traduzione delle Vite plutarchee di Teseo e di Romolo e quella dell’Ad Demonicum pseudo-isocratea.32

Tuttavia, il 3 aprile dello stesso anno 1436, il cardinale Colonna si trasferì a Bologna al seguito del papa, lasciando il povero Lapo a Firenze, di nuovo privo di ogni protezione ed amicizia; anche Angelo da Recanati, infatti, si era recato a Bologna. La lettera che Lapo inviò il 4 maggio 1436 al suo amico Gregorio Correr, protonotario apostolico, descrive bene la disperazione che doveva provare Lapo in quel frangente:33 in quell'occasione Lapo alludeva, senza entrare nei particolari, ad un evento drammatico che lo aveva privato di un beneficio nel quale aveva riposto tutte le sue aspettative e che considerava ormai sicuro; attribuendo la disgrazia a malivoli alicuius hominis calumniis, egli esprimeva tutta la sua avversione per l’ambiente ecclesiastico. A quel periodo, infatti, risalgono molte lettere ed opere di Lapo che manifestano la sua insofferenza e il suo aperto disgusto per la curia pontificia. La risposta del Correr, tuttavia, fu molto dura: esortandolo alla sopportazione, egli lo ammoniva e gli rimproverava un comportamento poco consono alla morale cristiana.

Successivamente, Lapo cercò di succedere al Filelfo nel magistero senese; però anche questo tentativo si concluse in un fallimento, come dimostra una lettera dell’umanista ad Angelo da Recanati del 16 giugno 1436.34

A partire da questo momento, dunque, si riaprì per Lapo una disperata ricerca di impiego e di protezione: tale frenetica attività è testimoniata da molte lettere dell’umanista, ma soprattutto dalla gran mole di traduzioni dal greco che in questi anni l’autore produsse, e che, accompagnate da lettere di dedica, inviò ai personaggi più influenti del tempo. Soltanto tra il 1435 e la prima metà del 1436 si collocano la già citata dedica della Solonis vita di Plutarco ad Eugenio IV,35 della Publicolae vita al cardinale Giordano Orsini,36 della Periclis vita (ottobre 1435) e del De morte Macabaeorum di Giuseppe Flavio al potente cardinale di Alessandria Giovanni Vitelleschi. Intorno all’aprile 1436, come già anticipato, Lapo tentò inoltre di accreditarsi presso Alfonso d’Aragona,

31 Luiso, op. cit., p. 222.

32 La dedicatoria delle Vite è pubblicata in Luiso, op. cit., pp. 268 ssgg.; Rotondi, op. cit., pp. 336 ssgg.; quella dell’Ad Demonicum si trova in Luiso, pp. 290-291.

33 Luiso, pp. 218-220; la lettera di Lapo e la risposta del Correr (Bologna, 1° luglio 1436 si leggono anche in Gregorio Correr, Opere, a cura di A. Onorato, II, Messina 1994, pp. 454-458. Al Correr, cugino di Eugenio IV ma a lui apertamente ostile, Lapo dedicò le versioni del De longaevis e della Patriae laudatio di Luciano (Luiso, pp. 278-280) e il trattatello Comparatio inter rem militarem et studia litterarum; questo, accompagnato dalle due orazioni isocratee (Nicocle, A Nicocle) fu successivamente dedicato al duca Humfrey di Gloucester; la lettera dedicatoria per questa versione si legge in A.SAMMUT, Unfredo duca di Gloucester e gli umanisti italiani, Padova 1980, pp. 165-167.

34 Luiso, op. cit, pp. 223-227. 35 Luiso, op. cit., pp. 213-214. 36 Luiso, op.cit., pp. 263-264.

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consegnando al Panormita la Vita di Quinto Fabio Massimo e i due opuscoli Nicocle e A Nicocle. Anche questo tentativo, come abbiamo visto, si risolse nel nulla.

In questo momento di grande disperazione, l’amico Angelo da Recanati venne nuovamente in soccorso di Lapo: egli, infatti, riuscì a procurargli un impiego e l’ospitalità presso il cardinale Prospero Colonna, a Bologna.37 Lapo dunque vi si trasferì, e in segno di riconoscenza inviò la propria traduzione del De calumnia di Luciano allo zio di Angelo, Giovanni Moroni da Rieti.

Dopo aver visto fallire il suo tentativo di occupare la cattedra del Filelfo a Siena, Lapo ottenne ora una seconda possibilità: grazie alle raccomandazioni del vescovo di Traù Ludovico Trevisan38 e di Ermolao Barbaro, Lapo ottenne infatti la cattedra di eloquenza e filosofia morale all’università di Bologna. Tuttavia, dopo aver pronunciato due prolusioni il 1° novembre del 1436,39 egli rinunciò all’incarico e lasciò l’insegnamento appena incominciato, adducendo a pretesto una malattia;40

la vera ragione della scelta di Lapo però era un’altra, ed essa si trova esplicitata soltanto in una lettera dell'umanista all’amico fidato Antonio Tornabuoni, in questi termini: quo ab eo ministerio servili quidem et questuoso plurimum abhorret animus, quod presertim laboris multum, premium vero quam minimum sit allaturum.41

Di nuovo disoccupato, Lapo si giovò ancora una volta del sostegno degli amici Gaspare ed Angelo da Recanati; essi, infatti, gli trovarono un impiego presso il loro concittadino Iacopo Venier, chierico di camera e legato apostolico, prima come precettore dei nipoti, e poi come amministratore della casa, quando il Venier si recò ad Avignone nei primi mesi del 1437.42

Nel frattempo, sfruttando l’autorevole raccomandazione di Leonardo Bruni e la conoscenza del segretario apostolico Biondo Flavio, che gli era stato presentato dall’amico Giovanni Bacci d’Arezzo, anch’egli chierico di camera, Lapo riuscì ad accreditarsi presso il cardinale camerlengo, Francesco Condulmer. L’operazione sembrava esser andata a buon fine, e infatti il cardinale lo assunse in casa, a Bologna, entro il settembre del 1437;43 dalla lettera di Bruni al Condulmer risulta

37 La lettera di Angelo a Lapo del 12 giugno 1436 si trova soltanto nel manoscritto di Como.

38 Al quale Lapo dedicò la traduzione della Demonactis vita di Luciano; la dedicatoria si legge in Luiso, op. cit., pp. 280-282.

39 Le orazioni sono edite in K.MÜLLNER, Reden und Briefe italien. Humanisten, Wien 1899, pp. 129-142. 40 Le lettere al Trevisan del 19 novembre e a Francesco Patrizi del 3 dicembre si leggono in Rotondi, op. cit., p. 169.

41 La lettera si trova soltanto nel codice di Como, alle cc. 316v-319; io cito da Gualdo Rosa, op. cit., p. 515. 42 Si vedano le lettere a Gaspare da Recanati del 28 gennaio 1437, e a Iacopo Venier del 19 marzo (Luiso, op. cit., p. 240; Rotondi, op. cit., p. 192).

43 La lettera a Biondo dell’8 aprile si legge in Rotondi, op. cit., pp. 200 ssgg.; si cfr. anche F.P.LUISO, Studi su l’epistolario di Leonardo Bruni, a cura di L. Gualdo Rosa, Roma 1980 (Studi Storici, fascc. 122-124), p. 134. Raccomandandolo al Condulmer, tra le altre cose Bruni loda di Lapo la grande conoscenza del greco.

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che già il 4 maggio del 1437 il cardinale lo aveva accolto come non familiarem modo...verum etiam domesticum et, ut dici solet, commensalem.44

A questo torno di tempo, e più precisamente ai mesi tra il maggio ed il settembre 1437, dev’essere quindi datata la terza fase redazionale delle orazioni a Nicocle; infatti Lapo, dopo aver apportato qualche miglioria al testo in due fasi successive ma molto vicine cronologicamente, riadattò nuovamente il testo dell’epistola dedicatoria a partire dalla sua forma originaria, quella per il cardinale Casanova, ed inviò dedicatoria e testi a Francesco Condulmer. Dal momento che l’epistola si conclude con la richiesta di ulteriori benefici (desque operam ut eam spem quam michi tue beneficentie attulisti tuis offitiis in posterum conservare possim), dobbiamo pensare che Lapo l’abbia inviata al Condulmer dopo essergli stato presentato dal Bruni (maggio 1437), ma prima che il cardinale lo assumesse in casa (settembre dello stesso anno). Ancora una volta, tuttavia, l’impiego presso il camerlengo si rivelò per Lapo una delusione, e le sue aspettative ne uscirono frustrate; l’apice fu raggiunto quando la Curia, nel gennaio del 1438, si trasferì a Ferrara in vista del Concilio; Lapo, in una lettera a Giovanni Bacci,45 lamenta di trovarsi rinchiuso nel palazzo pontificio a Ferrara, con il compito ingrato e mal remunerato di tradurre dal greco testi teologici e conciliari.

Insoddisfatto dell’incarico presso il cardinale Condulmer, inoltre, qualche mese prima, nel gennaio 1437, Lapo aveva rivolto le proprie aspettative altrove. Era infatti noto, in quegli anni, l’atteggiamento mecenatesco del duca Humfrey di Gloucester, il quale si era proposto come patrono per più di un umanista italiano,46 e Lapo, che aveva sentito parlar bene di Humfrey a Bologna da Zenone di Castiglione, l'arcivescovo di Bayeux, non volle lasciare intentata quella via. Incoraggiato da Zenone, dunque, nel corso del 1437 Lapo inviò al duca la Comparatio inter rem militarem et studia litterarum, insieme alle due traduzioni isocratee Nicocles e Ad Nicoclem;47 successivamente, nel dicembre dello stesso anno, dedicò ad Humfrey l’Artaxersis vita di Plutarco.48

Il mecenate inglese, tuttavia, non ebbe il tempo di prendere sotto la sua protezione Lapo, il quale sarebbe morto di lì a nove mesi.

44 Fubini riteneva che Lapo fosse ospite del Venier ancora nel novembre del 1437, e che si fosse trasferito dal cardinale solo successivamente; sulla base dell’epistola appena citata, tuttavia, la Gualdo Rosa fa notare che l’umanista doveva essere in rapporti abbastanza stretti con il Condulmer già nel maggio 1437, e nel settembre dello stesso anno doveva già alloggiare presso di lui. Infatti la versione del Praefectus equitum di Senofonte, dedicata a Gaspare da Villanova, è datata a Bologna, in domo reverendissimi Domini Francisci Cardinalis Venerabilis Sanctitatis Domini Nostri Camerarii (Luiso, op. cit., pp. 293-295).

45 Ferrara, 12 febbraio 1437; la lettera si legge in Rotondi, op. cit., pp. 263 ssgg.

46 Si vedano, a questo proposito, i lavori di A.SAMMUT, Unfredo duca di Gloucester e gli umanisti italiani, Padova 1980; R.WEISS, Humanism in England during the Fifteenth Century, Oxford 1941. Leonardo Bruni aveva dedicato al duca la sua versione della Politica di Aristotele; tra il 1436 ed il 1437 avevano trovato protezione in Inghilterra Tito Livio Frulovisi ed Antonio Beccaria.

47 C. S. Celenza, op. cit., afferma che Lapo entrò a servizio del Condulmer dopo il suo tentativo di entrare nei favori di Humfrey di Gloucester; questo è in contrasto però tanto con la ricostruzione di Fubini quanto con quella della Gualdo Rosa.

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