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Nanoremediation: valutazione della potenziale capacita di nanoparticelle di contrastare gli effetti tossici di contaminanti ambientali. Studio di danno genetico e cromosomico in cellule branchiali di Mytilus galloprovincialis.

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UNIVERSITÀ DI PISA

Dipartimento di Biologia

Corso di Laurea Magistrale in Biologia Marina

TESI DI LAUREA:

Nanoremediation: valutazione della potenziale capacità di nanoparticelle di

contrastare gli effetti tossici di contaminanti ambientali. Studio di danno genetico e cromosomico in cellule branchiali di Mytilus galloprovincialis.

Relatori:

Prof.ssa Giada Frenzilli

Dott.ssa Margherita Bernardeschi

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INDICE

RIASSUNTO 4

1. INTRODUZIONE 5

1.1 Biomarker 6

1.1.1 Biomarker di danno genetico 8

- Danno genetico primario 9

- Danno cromosomico 10

1.2 Contaminanti ambientali 11

1.2.1 Cadmio 11

1.2.2 Contaminanti emergenti 13

- Nanoparticelle 13

- Tossicità delle nanoparticelle 14

1.3 Nanoremediation 18

1.4 Particelle impiegate 20

1.4.1 Biossido di titanio 20

- Impieghi nella nanoremediation 21

- Tossicità del biossido di titanio 22

1.4.2 Carbon Black 24

- Impieghi nella nanoremediation 24

- Tossicità del Carbon Black 25

1.5 Test di genotossicità 26

1.5.1 Comet assay e valutazione del danno al DNA 26

1.5.2 Diffusion assay e cellule apoptotiche 29

1.5.3 Cytome assay: micronuclei e anomalie nucleari 30

2. SCOPO DELLA TESI 32

3. MATERIALI E METODI 33

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- Biossido di Titanio 34 - Carbon Black 37 - Co-esposizioni 38 3.2 Test utilizzati 39 3.2.1 Comet assay 39 3.2.2 Diffusion assay 41 3.2.3 Cytome assay 42 3.2.4 Trypan blue 43 3.5 Analisi statistica 44 4. RISULTATI 45

4.1 Curve Dose-Effetto Biossido di Titanio: Comet assay 45

4.2 Curva Dose-Effetto Cloruro di Cadmio: Comet assay 48

4.3 Co-esposizioni Biossido di Titanio e Cloruro di Cadmio 49

4.3.1 Co-esposizione Titanio Degussa e Cloruro di Cadmio 4.3.1.1 Comet assay 49

4.3.1.2 Diffusion assay 50

4.3.2 Co-esposizione Titanio Sigma e Cloruro di Cadmio 4.3.2.1 Comet assay 53

4.3.2.2 Diffusion assay 54

4.3.3 Co-esposizione Titanio Mesoporoso e Cloruro di Cadmio 4.3.3.1 Comet assay 57

4.3.3.2 Diffusion assay 58

4.4 Curva Dose-Effetto Carbon Black 4.3.1 Comet assay 61

4.3.2 Cytome assay 62

5. DISCUSSIONE 66

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RIASSUNTO

Le nanoparticelle (particelle nelle quali almeno una dimensione risulta inferiore a 100 nm) sono sempre più utilizzate in vari settori produttivi, medici e, ultimamente, impiegate per il risanamento ambientale. Grazie alle loro peculiari caratteristiche chimico-fisiche possono interagire con le altre sostanze con cui vengono in contatto, ed essere impiegate nella bonifica di suoli, sedimenti e acque (sia dolci che salate) contaminati.

L’obiettivo di questa tesi è quello di analizzare la potenziale capacità di alcune nanoparticelle di interagire con un contaminante classico dell’ambiente marino come il cadmio, diminuendone l’effetto cito-genotossico. In particolare, sono stati condotti esperimenti in vitro su biopsie branchiali di Mytilus galloprovincialis. È stata valutata l’interazione fra tre diversi tipi nanoparticelle di biossido di titanio (Sigma 25 nm; Degussa composto dal 70% di anatasio, 21 nm; mesoporoso 14 nm), uno di carbonio (Carbon black) e il cadmio, nella forma di CdCl2.

I test utilizzati per la stima del danno genetico e cromosomico sono stati il Comet assay, in grado di evidenziare, nella sua versione alcalina, rotture a singolo e doppio filamento, presenza di siti labili agli alcali; il Diffusion assay, in grado di rilevare l’eventuale presenza di cellule apoptotiche, ed il Cytome assay, per valutare la presenza di cellule micronucleate o altre anomalie a carico del nucleo cellulare. È stato condotto, inoltre, il test del Trypan blue per valutare la vitalità cellulare nelle cellule branchiali.

I risultati preliminari, relativi alle tre forme di nano-TiO2, hanno mostrato una

generale tendenza a ridurre il livello di danno al DNA indotto dal CdCl2 nelle

co-esposizioni, che nel caso del Sigma e del Degussa è risultata statisticamente significativa. Attualmente sono in corso ulteriori indagini, al fine di valutare se queste polveri possano essere effettivamente candidate adatte per essere applicate nella nanoremediation di ambienti marini contaminati.

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1. INTRODUZIONE

Negli ultimi secoli le attività antropiche hanno sempre più compromesso quelli che sono gli equilibri degli ecosistemi naturali, principalmente mediante la produzione ed il rilascio di sostanze xenobiotiche, portando a problemi di vario genere e di difficile risoluzione, tra i quali la progressiva perdita di biodiversità, i ben noti effetti del riscaldamento globale ed i conseguenti effetti a carico della salute umana. Negli ultimi decenni, grazie ad una maggiore consapevolezza ambientale, a tali problemi è corrisposta una domanda crescente di possibili rimedi, per poter far fronte, inoltre, ad un’economia e produzione industriale in costante aumento a livello mondiale, con sempre maggiori esigenze da soddisfare. Tra i vari contaminanti che vengono immessi nell’ambiente, di particolare interesse sono i cosiddetti “contaminanti emergenti” che comprendono tutte le sostanze di nuova produzione, oppure già presenti nell’ambiente ma in forme non ancora utilizzate; conseguentemente queste sostanze non sono ancora ben studiate e se ne ignorano in gran parte i possibili effetti a carico dell’ambiente e della salute umana, a differenza degli inquinanti classici che, essendo studiati da lungo tempo, sono ormai ben caratterizzati.

Tra gli effetti indesiderati indotti dai contaminati, siano essi emergenti o classici, troviamo la capacità di interagire con il DNA, inducendo, tra i vari danni, rotture a livello del singolo o doppio filamento. Questa capacità viene indicata come “potenziale genotossico” (o genotossicità), poiché se non vengono immediatamente riparate, le rotture al DNA possono determinare la comparsa di mutazioni. Come noto, le mutazioni possono verificarsi sia a livello somatico, sia a livello germinale. Nel primo caso una o più mutazioni potranno determinare l’insorgenza di neoplasie e portare alla cancerogenesi, nel secondo caso le mutazioni verranno trasmesse alla prole.

Tali mutazioni possono presentarsi anche a livello delle popolazioni animali presenti in natura, che vengono continuamente esposte agli inquinanti direttamente

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alterazioni al DNA corrispondono diversi endpoint di tossicità, così come ipotizzato dalla “Genotoxic desease syndrome” (Kurelec, 1993). Questa sindrome comprende tutte quelle risposte metaboliche ed enzimatiche anomale, includendo l’inibizione della crescita, un precoce invecchiamento dei tessuti, una ridotta capacità riproduttiva ed infine una maggiore mortalità, fattori che sommati possono portare all’estinzione della specie.

L’ecotossicologia è una materia che offre uno strumento importante per definire con più chiarezza quali sono gli effetti dei contaminanti nell’ambiente, poiché consente di integrare i dati chimici con quelli biologici. Si tratta, infatti, di una disciplina trasversale che si avvale in modo integrato della chimica ambientale, della tossicologia classica e dell’ecologia: in questo modo è in grado di evidenziare il destino e gli effetti dei contaminanti presenti nell’ambiente, offrendo una prospettiva più ampia riguardo al loro campo d’azione.

1.1 Biomarker

Con il termine “bioindicatori” vengono definiti tutti quegli organismi, animali o vegetali, in grado di generare una risposta biologica che sia chiaramente identificabile in reazioni di tipo fisiologico, biochimico, comportamentale o morfologico in seguito all’esposizione, sia essa cronica o acuta, fornendo delle informazioni sulla qualità dell’ambiente e sul grado di contaminazione da parte di specifiche classi di inquinanti. L’ecotossicologia sfrutta tali specie, poiché in grado di fornire delle risposte differenti in base al tipo di sostanza a cui sono state esposte; in base al tipo di informazione che si vuole estrapolare, sarà opportuno scegliere il bioindicatore più idoneo alle proprie finalità.

Su di essi possono essere applicati dei biomarker specifici, che Depledge (Depledge, 1994) ha definito come “variazioni biochimiche, cellulari, fisiologiche

o comportamentali, che possano essere misurate in un tessuto, in un fluido biologico o a livello dell’intero organismo (individuo o popolazione) le quali forniscono l’evidenza di un’esposizione e/o effetto ad uno o più composti inquinanti (e/o radiazioni)”.

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L’utilizzo di biomarker rappresenta uno strumento versatile che nel campo della contaminazione ambientale fornisce informazioni più complete e significative rispetto ai meri dati chimici o tossicologici. Questi consentono di rilevare la presenza di contaminanti ignoti e di avere informazioni relative all’azione di una miscela di composti ed all’eventuale azione sinergica che ne deriva; opzione che più verosimilmente si può verificare in un ambiente contaminato, come quello acquatico, che molto spesso riceve diverse tipologie di inquinanti da sorgenti differenti. Da ciò si evince l’importanza dei biomarker misurati negli organismi bioindicatori per fornire gli strumenti necessari a prevedere o prognosticare il verificarsi di effetti negativi, estendibili a scala ecologica, prima che i livelli di contaminazione raggiungano dei valori oltre i quali risulti inutile qualsiasi atto di recupero.

I biomarker possono essere distinti in:

- Biomarker di esposizione: le cui risposte sono associabili alla presenza nell’organismo bioindicatore di una sostanza xenobiotica o di un suo metabolita (Es: Acetilcolinesterasi)

- Biomarker di effetto: indicatori di effetti tossici, detti anche biomarker di risposta, sono testimoni di una contaminazione avvenuta o in atto, con presenza di danni all’organismo. Tra questi ricordiamo danni al DNA di diversa natura, analizzabili mediante Comet Assay e Cytome Assay, stress ossidativo, alterazioni lisosomali, apoptosi.

Un uso combinato di diversi tipi di biomarker rende possibile un’integrazione delle informazioni che questi sono in grado di fornire singolarmente, garantendo una comprensione migliore e più dettagliata, al fine di interpretare la rilevanza biologica dei danni riportati dagli organismi.

I bivalvi filtratori marini appartenenti alla specie Mytilus galloprovincialis rappresentano un ottimo esempio di organismi bioindicatori, motivo per cui sono ampiamente applicati nel campo del monitoraggio ambientale e negli studi di

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rivelandone immediatamente la presenza. Questi organismi possono essere utilizzati sia per studi in vivo, sia per studi in vitro, per condurre attività di monitoraggio o per valutare le risposte a contaminanti di specifico interesse. In particolare, la loro strategia nutritiva pone il tessuto branchiale come la prima e più importate superficie di contatto con l’ambiente, attraverso la quale le sostanze disciolte in acqua, tra cui i metalli, possono far ingresso nell’organismo (Canesi et al., 2012). Attraverso i palpi labiali le particelle vengono quindi trasportate alla bocca ed al sistema digerente, dove vengono poi espulse sotto forma di pseudo-feci.

Per i motivi appena indicati, nella presente tesi è stato scelto di condurre studi

in vitro servendosi di M. galloprovincialis come specie bioindicatrice. In

particolare la scelta è ricaduta sull’utilizzo di biopsie branchiali, e non di singole cellule, che hanno consentito di riprodurre, in parte, la condizione fisiologica del tessuto stesso immerso in soluzione fisiologica.

1.1.1 Biomarker di danno genetico

Gli organismi esposti ad inquinanti rispondono in vario modo a seconda del tipo di contaminante, alla sua concentrazione ed alla durata dell’esposizione stessa. La perdita di integrità del DNA viene associata all’insorgenza di eventi mutageni e/o cancerogeni (De Flora et al., 1991, Bailey et al., 1996).

I danni di tipo genetico sono suddivisibili in due categorie principali: - a livello d’integrità dei filamenti di DNA

- a livello dei cromosomi

Entrambe le tipologie incidono negativamente sul metabolismo cellulare e, a livello più alto, sullo stato di salute dell’organismo.

È stato dimostrato, inoltre, che esiste un legame di tipo causale tra anomalie cromosomiche e la patogenesi di neoplasie nell’uomo (Bonassi et al., 2011). Dunque le sostanze genotossiche sono da porre in connessione con la potenziale insorgenza di patologie cancerose, aumentando la frequenza di mutazioni al DNA,

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La rilevazione di questi danni mediante il test del Cytome assay e del Comet assay risulta particolarmente adatta per la valutazione di contaminazione da composti genotossici nell’ambiente poiché non richiedono una conoscenza dettagliata dell’identità dei contaminanti presenti nell’ambiente, che spesso sono rappresentati da composti molto complessi o da una associazione di varie di sostanze, e poiché sono in grado, inoltre, di rilevare l’esposizione anche a basse concentrazioni di contaminanti appartenenti ad un ampio range (Frenzilli et al., 2009).

Danno genetico primario

Il DNA è soggetto a rotture, che sono imputabili a diverse cause, tra le quali distinguiamo:

1) Effetti genotossici:

- Effetti diretti di sostanze ad azione clastogena nei confronti del DNA con le quali viene in contatto l’organismo.

- Azione di enzimi di riparazione del DNA che intervengono a livello dei filamenti laddove si siano verificate alterazioni, le quali se non correttamente riparate possono dar luogo all’insorgenza di mutazioni. - Effetti indiretti di contaminanti mediati dalla formazione di radicali

liberi dell’ossigeno (ROS).

2) Stress generale a cui è sottoposto l’organismo: comprende fattori naturali e fisiologici, quali temperatura, salinità, livelli di ossigeno, fase di sviluppo dell’organismo (Dixon et al., 2002).

La determinazione quantitativa delle rotture presenti a livello del DNA rappresenta un efficiente biomarker per la valutazione del grado di genotossicità dei composti contaminanti a cui vengono esposti gli organismi bioindcatori, poiché sappiamo che l’induzione di strand breaks è correlata all’attività mutagena di

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Danno cromosomico

A differenza del danno valutabile con il Comet assay, caratterizzato dall’essere di tipo reversibile, dunque riparabile, il test del Cytome assay permette la quantificazione di danno cromosomico rappresentato da mutazioni cromosomiche numeriche (frequenza di micronuclei) e strutturali (frequenza di micronuclei, di ponti ed altre anomalie nucleari) irreversibili.

I micronuclei possono avere diversi meccanismi di formazione, e possono essere costituiti da uno o più frammenti di cromosomi acentrici o da cromosomi interi, che rimangono indietro lungo i filamenti durante l’anafase, non venendo quindi inseriti in uno dei due nuclei figli principali.

In questo modo si osservano dei piccoli agglomerati di cromatina appena fuori al nucleo cellulare, circondati anch’essi da una propria membrana nucleare. Questa offre protezione al contenuto micronucleico, permettendone inoltre la trascrizione genetica e la replicazione, che avverrà simultaneamente a quella del nucleo principale (Evans, 1997).

La comparsa di micronuclei contenenti cromosomi interi è dovuta principalmente a mutazioni nelle proteine del cinetocore o ad anomalie dell’apparato mitotico (Fenech, 1993), oppure ad alterazioni della fisiologia cellulare (Albertini et al., 2000).

I frammenti acentrici, invece, possono essere dovuti a rotture indotte da agenti mutageni, esogeni od endogeni, delle due eliche del DNA che non sono state riparate (Fenech, 1993), oppure alla replicazione di DNA danneggiato.

Un aumento della frequenza di cellule contenenti micronuclei può essere quindi un buon biomarker di genotossicità prodotta da agenti clastogeni (che danneggiano direttamente il DNA inducendo rotture cromosomiche) o da agenti aneuploidogeni (che, invece, alterano il numero cromosomico non agendo direttamente sul DNA, ma per esempio, andando a danneggiare le fibre del fuso).

Questo genere di test è stato applicato con successo per la rilevazione di esposizioni a sostanze genotossiche in un largo numero di specie (Bolognesi and

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Fenech, 2012, Bolognesi et al., 2016, Anbumani and Mohankumar, 2015, Canesi et al., 2014).

1.2 Contaminanti ambientali

I contaminanti ambientali possono essere suddivisi in due grandi categorie: i contaminanti di origine naturale e i contaminanti di sintesi, detti anche xenobiotici. I primi comprendono tutte le sostanze presenti nella biosfera, la cui concentrazione viene aumentata da processi di tipo naturale oppure dall’attività da parte dell’uomo. Tra questi troviamo metalli pesanti, idrocarburi policiclici aromatici, ossidi di carbonio, ossidi di azoto e molti altri.

Col termine “xenobiotici” si intendono tutte le molecole di sintesi che sono completamente estranee agli ecosistemi naturali, la cui introduzione nell’ambiente rappresenta una delle più grandi alterazioni generate dall’azione dell’uomo sull’ambiente nei suoi diversi habitat (Fossi, 2000). Tali molecole derivano dalla produzione dell’industria chimica e trovano un largo impiego in molti settori, come l’agricoltura, la sanità ed in molte produzioni industriali.

1.2.1 Cadmio

I metalli pesanti rientrano in una categoria di inquinanti di origine naturale, ma dei quali l’attività umana determina sempre più un incremento sostanziale.

In ambiente acquatico la contaminazione da parte di metalli pesanti rappresenta uno dei problemi più critici (Nriagu et al., 1998). Questi vengono generalmente trasportati dai fiumi o dalle acque di scarico che si riversano in mare, determinando un incremento nelle loro concentrazioni, in particolar modo nelle aree costiere e nei pressi dei centri urbani.

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stress ossidativo, per produzione eccessiva di radicali liberi, o andare ad interferire con i processi di trascrizione e riparazione dei filamenti di DNA (Della Torre et al., 2015), minando la stabilità genomica nei sistemi biologici.

I metalli pesanti sono, inoltre, in grado di accumularsi nei tessuti durante lo sviluppo e la crescita degli organismi, salendo i livelli della rete trofica (fenomeno noto come “biomagnificazione”): trovandosi in cima alla catena alimentare, i grandi predatori presentano alti livelli di metalli pesanti e rappresentano un rischio per la salute umana se inseriti nella dieta in quantità elevate. Questo può essere attribuito alla presenza di numerose vie di accesso ed accumulo per i metalli, e dalla quasi assenza di meccanismi di escrezione. I metalli pesanti, infatti, sfruttano sistemi cellulari molto efficienti atti alla captazione dei metalli essenziali, presenti nell’ambiente solamente in tracce, e per questo molto preziosi per l’economia cellulare.

Il cadmio (Cd2+) rappresenta uno dei metalli pesanti più largamente diffusi in ambiente marino, ove viene principalmente immesso a seguito di deposizione atmosferica e attraverso acque di scarico derivanti dalle industrie di pigmenti, plastiche e batterie.

Negli organismi che utilizzano il tessuto branchiale come principale via di accesso per il cadmio, mediante assorbimento diretto, il bioaccumulo è direttamente proporzionale alla concentrazione in acqua (Sadiq, 1995).

Nell’uomo, l’esposizione al Cd2+ comporta l’insorgenza di condizioni patologiche nel fegato, uno degli organi di tossicità primaria (Friedman and Gesek, 1994), testicoli (Shen and Sangiah, 1995), cervello e sistema nervoso (Provias et al., 1994), reni (Novelli et al., 1999), milza e midollo osseo (Yamano et al., 1998). Nel caso di organismi filtratori marini, come i mitili, è stato visto che il cadmio inficia la stabilità genomica inibendo la riparazione del DNA, sbilanciando l'equilibrio cellulare tra forze pro-ossidanti e difese antiossidanti inducendo stress ossidativo (Della Torre et al., 2015, Pruski and Dixon, 2002).

Come risultato dell’esposizione al Cd2+, le cellule danneggiate muoiono

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in condizioni di media tossicità, mentre in condizioni di alte dosi di Cd2+ le cellule andranno incontro a necrosi (Migliarini et al., 2005).

1.2.2 Contaminanti Emergenti

Come accennato in precedenza, i contaminanti emergenti sono rappresentati dalle sostanze di nuova produzione, oppure già presenti nell’ambiente in forme non ancora utilizzate; di cui se ne ignorano gran parte dei possibili effetti a carico dell’ambiente e della salute umana.

Tra i contaminanti emergenti troviamo: - Distruttori endocrini (Rhind, 2008)

- Sostanze farmaceutiche nei corsi fluviali (Rocco et al., 2010) - Microplastiche (Avio et al., 2015, Vandermeersch et al., 2015) - Nanoparticelle (Canesi and Corsi, 2016, Blasco et al., 2015)

In questo contesto, verrà presa in esame quest’ultima classe di contaminanti, in quanto specificatamente oggetto del presente lavoro di tesi.

Nanoparticelle

Col termine “nanoparticella”, si indicano, per definizione, tutte le particelle che abbiano almeno una dimensione pari o inferiore ai 100 nm. Tali particelle possono assumere forme differenti: tubulari, bastoncellari, filiformi o sferiche, con strutture più o meno elaborate (Oberdörster et al., 2005) e sono incluse nella categoria dei “contaminanti emergenti”.

La loro sintesi o estrazione dall’ambiente è possibile solo grazie allo sviluppo delle tecnologie più moderne, che consentono di gestire le difficoltà presentate dalle loro ridotte dimensioni. Queste ultime conferiscono alle nanoparticelle proprietà chimico-fisiche uniche, motivo per il quale la nanotecnologia viene

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associati. Per la maggior parte, queste caratteristiche sono dovute all’elevato rapporto superficie/volume per unità di massa dato dalle piccole dimensioni, che conferisce ad esse una più spiccata reattività, sebbene la composizione chimica sia la stessa dei materiali con massa maggiore (Rickerby and Morrison, 2007). I nanomateriali possono quindi essere utilizzati in svariati campi, essendo questi prodotti sia in modo intenzionale ed inclusi in materiali di uso comune, sia rilasciati accidentalmente come sottoprodotti di processi produttivi, o essere naturalmente presenti nell’ambiente; si trovano infatti in aria, acqua, suoli e sedimenti (Mueller and Nowack, 2010). Le nanoparticelle di origine naturale possono avere derivazione atmosferica, biogena o geogenica (risultanti da processi geologici) (Alivisatos, 2000). Negli ultimi anni si è aggiunto anche un rilascio intenzionale delle nanoparticelle nell’ambiente, poiché alcune di esse hanno mostrato delle caratteristiche sfruttabili nell’ambito della bonifica ambientale. Questa possibile applicazione verrà trattata più dettagliatamente nel paragrafo 1.3. Un’ ulteriore applicazione delle nanoparticelle di particolare rilievo, si trova in campo medico/farmacologico. La drug-delivery, infatti, si riferisce alla possibilità di veicolare farmaci a specifici tipi cellulari tramite l’utilizzo di nanoparticelle. Tale applicazione risulta decisamente interessante per i possibili risvolti positivi sulla salute umana(Yhee et al., 2016, Khan et al., 2016, Yao et al., 2016).

Tossicità delle nanoparticelle

Le stesse proprietà che conferiscono alle nanoparticelle le loro peculiari caratteristiche possono risultare potenzialmente dannose e determinare l’insorgenza di effetti avversi sui sistemi biologici. Ad oggi, il possibile impatto sulla salute umana da parte di questi materiali è poco studiato ed i meccanismi alla base della loro tossicità non sono ben chiari, anche perché vi è una carenza di informazioni riguardanti la loro esposizione all’uomo (Chan, 2006, Dusinska et al., 2011). Per poter fruire in modo sicuro di tali materiali sarebbe opportuna una migliore comprensione dei meccanismi attraverso i quali le nanoparticelle

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numerosissime classi di nanoparticelle con caratteristiche di varia natura che possono contribuire alla loro tossicità in molti modi differenti, rendendo piuttosto difficoltoso elaborare modelli per valutarne la tossicità (Vega-Villa et al., 2008).

I processi alla base della tossicità delle nanoparticelle sono (Dusinska et al., 2012):

- stress ossidativo - infiammazione - immuno-tossicità - genotossicità

I meccanismi secondo i quali le nanoparticelle determinano genotossicità non sono perfettamente noti, inoltre spesso non è ben chiaro se tali effetti siano nano-specifici o meno.

In linea generale, possiamo dire che la genotossicità può essere determinata da una diretta interazione delle nanoparticelle con il materiale genetico o per

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interazione indiretta (come ad esempio formazione di specie reattive dell’ossigeno, rilascio di ioni tossici da parte di nanoparticelle solubili, etc) (Kisin et al., 2007).

Nella figura 1 (pag. 15) sono rappresentati i possibili meccanismi di internalizzazione cellulare e di accesso al nucleo da parte delle nanoparticelle: queste possono attraversare la membrana plasmatica mediante semplice diffusione, interagendo con i recettori di membrana o mediante endocitosi. Una volta raggiunto il citoplasma, le nanoparticelle possono spostarsi nel nucleo per diffusione molecolare attraverso la membrana, oppure sfruttando i meccanismi di trasporto attraverso i pori nucleari, a seconda delle loro dimensioni.

Mediante studi in vitro è stato dimostrato che le nanoparticelle con dimensioni di 8-10 nm possono raggiungere il nucleo della cellula attraverso i pori nucleari, mentre le nanoparticelle di dimensioni maggiori possono entrare in contatto con le molecole di DNA solamente quando la cellula si divide, in quanto durante la mitosi la membrana nucleare si dissolve (Barillet et al., 2010, Singh et al., 2009). Questo consente loro di entrare direttamente in contatto con le molecole di DNA ed interagire con esse. In alcuni casi le nanoparticelle di grandi dimensioni possono formare degli aggregati determinando una deformazione del nucleo, come è stato osservato mediante microscopia elettronica (Di Virgilio et al., 2010); questo può comportare la comparsa di danni permanenti al materiale genetico impedendo una corretta segregazione dei cromosomi durante la mitosi ed il corretto funzionamento del fuso mitotico. Questi aggregati possono, inoltre, danneggiare meccanicamente i cromosomi: in seguito all’esposizione a nano-TiO2 è stato, infatti, osservato un

aumento nella frequenza di micronuclei e degli scambi tra cromatidi fratelli (SCE:

Sister Chromatid Exchange), entrambi indici di instabilità cromosomica (Di

Virgilio et al., 2010).

Le nanoparticelle presenti nel nucleo possono interagire direttamente col DNA sia in forma di cromatina sia in forma di cromosomi, a seconda della fase del ciclo cellulare. Durante l’interfase le nanoparticelle possono interagire o legarsi alle molecole di DNA interferendo con i processi di replicazione e trascrizione del DNA in RNA, come osservato, per esempio, nel caso di carbonio nanoparticellato (An et al., 2010). Durante la mitosi le nanoparticelle possono interagire

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meccanicamente con i cromosomi causando effetti clastogeni o aneuploidogeni, inducendo quindi rotture cromosomiche oppure interferendo con i microtubuli del fuso.

Tuttavia, i dati riguardo all’effettiva attività dannosa delle nanoparticelle presenti in letteratura sono contrastanti (Canesi and Corsi, 2016). La questione risulta piuttosto complessa a causa delle numerose tipologie che si trovano in commercio, ed alle diverse risposte che organismi o tipi cellulari diversi possono mostrare.

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1.3 Nanoremediation

La nanoremediation si avvale dell’utilizzo di nanomateriali per bonificare acque o suoli contaminati da parte di diversi tipi di inquinanti, grazie alle peculiari caratteristiche di questi materiali. Il loro comportamento può essere distinto in base al meccanismo di funzionamento, cioè mediante adsorbimento o per reattività, che può essere applicato sia in situ sia ex situ. (Tratnyek and Johnson, 2006).

Le piccole dimensioni e l’elevata porosità consentono alle nanoparticelle di massimizzare la superficie di contatto, e quindi di aumentare la capacità di rapportarsi con eventuali contaminanti presenti nel mezzo da purificare, andando ad interagire direttamente con essi. In particolare, l’utilizzo di queste sostanze si mostra decisamente utile per la praticità di utilizzo e nel taglio dei costi di bonifica delle matrici contaminate: queste molecole risultano, infatti, particolarmente mobili ed in grado di raggiungere anche zone difficilmente manipolabili o particolarmente estese (Savage and Diallo, 2005, Mueller and Nowack, 2010, Mueller et al., 2012, Karn et al., 2011).

Un importante effetto della contaminazione ambientale, al quale si rende necessario mostrare riguardo, è sicuramente l’azione genotossica esercitata da parte di alcune classi di contaminati nei confronti degli organismi che vi vengono in contatto. Nella presente tesi è stata posta una particolare attenzione all’ambiente marino, ed al danno genetico indotto dalla presenza di metalli pesanti (Della Torre et al., 2015). È stato ipotizzato che, mediante diversi meccanismi d’azione, la co-esposizione delle nanoparticelle con i contaminanti possa rappresentare un innovativo meccanismo di difesa per i sistemi biologici ed essere, quindi, impiegato nella bonifica ambientale.

In letteratura troviamo molti esempi di come tali particelle vengano sfruttate per le loro proprietà di risanare ambienti contaminati. Queste sono infatti in grado di interagire con diversi tipi di sostanze tossiche e/o cancerogene (ad esempio gas serra, composti organici aromatici, etc.) mediante adsorbimento e stoccaggio, abbattendone il potenziale cito-genotossico o addirittura convertendole in forme inerti.

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Il TiO2 nanoparticellato è noto per la capacità di interagire, dietro stimolazione

luminosa ultravioletta (UV), con contaminanti organici, inorganici e biologici, come ad esempio metalli pesanti, pesticidi organoclorurati, arsenico e fosfati che si trovano nelle acque (Asahi et al., 2001).

La degradazione dei composti mediante foto-catalisi rappresenta un interessante meccanismo di depurazione ambientale attraverso l’utilizzo di energia pulita, come la conversione del benzene in anidride carbonica in soluzione acquosa mediante l’utilizzo di differenti polveri di TiO2 (Bui et al., 2010). La degradazione da parte

del TiO2 può avvenire mediante reazioni di ossido-riduzione dei contaminanti, in

quanto, una volta eccitate dai raggi UV, le nano-TiO2 possiedono energia

sufficiente ad ossidare i contaminanti presenti in acqua (Hufschmidt et al., 2004). In queste condizioni si sviluppa anche un’azione battericida, utile nel trattamento delle acque potabili.

Per quanto riguarda il ferro zerovalente nanoparticellato, sono stati condotti svariati studi per valutarne la capacità di degradazione di differenti classi di contaminanti, tra cui quelli organici clorurati (Karn et al., 2011). In molti casi queste particelle vengono utilizzate per trattamenti in situ in ambiente acquatico o per acque sotterranee.

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1.4 Particelle impiegate

1.4.1 Biossido di Titanio

Il TiO2 è una sostanza che in natura si presenta come una polvere sottile di

colore bianco, che viene solitamente utilizzato come pigmento; può assumere forme cristalline diverse, tra cui il rutilo, l’anatasio e la brookite (Banfield and Veblen, 1992): l’anatasio ed il rutilo hanno forma tetragonale, mentre la brookite è ortorombica. La maggior parte del TiO2 viene estratto da fonti naturali (Heaney

and Banfield, 1993), mediante processi di clorazione o solfatazione a partire da rocce contenenti ilmenite (FeTiO3), rutilo, anatasio e leucoxene provenienti da

depositi presenti in tutto il mondo. Queste fonti presentano delle impurità (»2%), costituite in gran parte da ferro ed elementi alcalini che ne alterano la colorazione tipicamente bianca, poiché non vengono completamente rimossi durante le fasi di produzione.

L’anatasio e la brookite sono costituenti minori di suoli e sedimenti piuttosto comuni, in particolare per quanto riguarda quelli derivanti da rocce ricche di titanio. Il rutilo, invece, è un minerale accessorio di molte rocce della crosta terrestre derivanti dal mantello ed è presente anche nei sedimenti ed in rocce sedimentarie.

Il TiO2 vide il suo primo utilizzo come pigmento nel 1923, da allora la sua

produzione è sempre più aumentata, fino a raggiungere 4.4 milioni di tonnellate nel 2004 (IARC, 2010). Ad oggi i suoi principali impieghi sfruttano le proprietà opacizzanti e la capacità di conferire brillantezza alle superfici, a seconda dell’utilizzo che ne viene fatto. Inoltre questi pigmenti mostrano una notevole resistenza all’attacco da parte di composti chimici e raggi UV, oltre che un’elevata stabilità termica. Queste caratteristiche lo rendono particolarmente idoneo ad utilizzi per rivestimenti superficiali, vernici, carta, cartone e plastiche. Il rutilo è più resistente dell’anatasio ai raggi UV, per cui il suo utilizzo viene preferito per vernici e plastiche, in particolare da esterno, ed inchiostri. L’anatasio presenta invece una tonalità più tendente al blu ed è meno abrasivo rispetto al rutilo, per questo viene utilizzato principalmente per carte e vernici da interno, ceramica,

(21)

gomma e fibre (IARC, 2010).

Circa due terzi della produzione di anatasio vengono utilizzati in settori nei quali la qualità richiesta per i prodotti non è elevata, come carta, vernici economiche, piastrelle e smalti; quindi solo in un terzo dei casi viene usato in applicazioni per cui le sue proprietà specifiche sono fondamentali, come ad esempio conferire un colore blu alle plastiche. Questa forma cristallina trova il suo più ampio impiego grazie alle proprietà fotocatalitiche nella rimozione degli ossidi di azoto dai gas di scarico delle centrali elettriche alimentate a carbone e per la depurazione dei gas di scarico dei motori diesel; a tal fine la sua richiesta globale ammonta a 15.000 tonnellate annue (Linak E, Inoguchi Y, 2005; Swiler, D. R. 2005).

Le forme ultrafini di TiO2 (1-150 nm) sono in grado di trasmettere la luce

visibile, ma rifrangono le radiazioni UV, per questo motivo trovano impiego nelle creme solari e nelle plastiche. Sono usate anche come foto-catalizzatori, precursori di pigmenti colorati e nelle elettro-ceramiche (Linak E, Inoguchi Y, 2005; Kischkewitz et all., 2002).

Impieghi nella nanoremediation

Il TiO2 nanoparticellato trova un impiego crescente nella nanoremediation di

matrici ambientali. I principali impieghi sfruttano le proprietà fotocatalitiche di queste particelle.

Come visto in precedenza, il suo utilizzo più diffuso riguarda la capacità di ossidare contaminanti organici, inorganici e biologici in seguito a stimolazione luminosa. Inoltre, queste particelle sono biologicamente e chimicamente inerti, e possiedono una spiccata resistenza alla corrosione, permettendo di utilizzarle più volte senza perderne le proprietà catalitiche. Per questi motivi, e per la relativa economicità, l’utilizzo del nano-TiO2 in campo ambientale risulta particolarmente

attraente rispetto ad altre nanoparticelle ossidative (Pirkanniemi and Sillanpää, 2002).

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Tossicità del Biossido di Titanio

Il TiO2 è stato recentemente riclassificato come “potenzialmente cancerogeno

per l’uomo”, ed inserito nel gruppo 2B dei cancerogeni, dall’International Agency

for Research on Cancer (IARC, 2010). Questo è dovuto a studi che hanno mostrato

l’insorgenza di tumori al tratto respiratorio in ratti esposti ad alte concentrazioni di polvere di varia grandezza (<2,5 µm; <100 nm). Tuttavia studi epidemiologici condotti su lavoratori esposti a polveri di TiO2 di dimensioni inferiori ai 2,5 µm

non hanno mostrato alcuna correlazione tra l’esposizione occupazionale ed un incremento nell’insorgenza di cancro al polmone (Boffetta et al., 2004, Fryzek et al., 2003).

Tra i vari tipi di nanomateriali, le nano-TiO2 rappresentano una delle forme più

largamente utilizzate, in quanto presenti in numerosi prodotti di consumo ed industriali (Robichaud et al., 2009).

Un caso esemplare è rappresentato dall’impiego delle nano-TiO2 nelle creme

solari: queste particelle risultano particolarmente adatte ad un impiego nei filtri solari grazie alla loro capacità di rifrangere o adsorbire i raggi UV, a seconda della lunghezza d’onda (Shao and Schlossman, 1999), risultando trasparenti e quindi particolarmente attraenti per l’industria cosmetica, a differenza delle forme micrometriche di TiO2 che, similmente al biossiodo di zinco, creano una patina

bianca poco gradevole esteticamente. Inoltre, esplicando la loro funzione mediante un’azione bloccante fisica, le creme contenti nano-TiO2 sono preferibili rispetto a

composti attivi chimicamente per soggetti con pelle particolarmente sensibile. Tuttavia, a causa della loro attività fotocatalitica, i vantaggi risultanti dal loro impiego a tal fine potrebbero comunque comportare degli effetti indesiderabili e non del tutto quantificabili.

Gli impieghi fin qui visti contribuiscono ad immettere nell’ambiente ingenti quantitativi di biossido di titanio attraverso scarichi industriali ed urbani, e la sua concentrazione attesa in ambiente acquatico si aggira attorno ai µg/l (Menard et al., 2011). Queste concentrazioni rappresentano un potenziale pericolo per il biota, sebbene il loro ammontare esatto sia di difficile determinazione, ed i dati ad oggi

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presenti relativamente alle concentrazioni ambientali siano piuttosto limitati. Questo è dovuto anche al fatto che le particelle presentano diverse proprietà chimiche a seconda della matrice in cui vengono disperse: in ambiente acquatico, per esempio, la degradazione biotica e abiotica, l’agglomerazione e l’aggregazione interferiscono sulla potenzialità tossica della sostanza, andando a modificare la capacità di interazione e quindi la reattività delle particelle stesse (He and Zhao, 2005).

La biodisponibilità e tossicità del TiO2 nanoparticellato per gli organismi

acquatici è stata ben studiata (Canesi et al., 2010, Frenzilli et al., 2014, Rocco et al., 2015a). Oltre ad un potenziale impatto, riconducibile ad un diretto effetto delle nanoparticelle sugli organismi, è doveroso tenere in considerazione anche la possibilità di interazione con xenobiotici organici e con metalli pesanti (Zhang et al., 2007, Hu et al., 2011, Zhu et al., 2011), che ne modificherebbero la biodisponibilità e la tossicità. Sono stati osservati, per esempio, effetti sub-letali sia sinergici, sia antagonistici, nella co-esposizione di nano-TiO2 e

2,3,7,8-tetraclorodibenzo-p-diossina (2,3,7,8-TCDD), tra cui un aumentato bioaccumulo del contaminante nei tessuti degli organismi esaminati (Canesi et al., 2014).

Tuttavia, in letteratura, i dati riguardanti la tossicità del biossido di titanio sono piuttosto contrastanti, in quanto in numerosi studi i risultati mostrano una risposta genotossica (Bernardeschi et al., 2010, D'Agata et al., 2014), mentre in altri tali sostanze risultano inerti (Hackenberg et al., 2011, Bhattacharya et al., 2009).

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1.4.2 Carbon Black

Il Carbon Black (CB) è una forma di carbonio non presente naturalmente in natura, ottenuta mediante una parziale ossidazione o decomposizione termica di idrocarburi in forma liquida o gassosa. Svariati processi, sviluppati negli anni, hanno portato alla presenza sul mercato di una gran varietà di CB, in termini di taglia, struttura e purezza.

Il primo utilizzo risale a molti secoli fa, come pigmento di inchiostri e lacche, e veniva ottenuto mediante semplici processi di combustione. La sua produzione ha visto un incremento rilevante solamente nei primi anni del ventesimo secolo, con la scoperta del suo impiego come rinforzante nelle gomme. In questo secolo si sono visti i più significativi miglioramenti nelle tecniche di fabbricazione, mentre la sua produzione si è estesa in molti paesi industrializzati a partire dalla fine della Seconda Guerra Mondiale (Dannenberg et al., 1992).

Circa il 70 % del consumo attuale di CB è attribuibile alla produzione di pneumatici per automobili ed altri veicoli. Circa il 20 % viene utilizzato in altri prodotti di gomma come tubi flessibili, cinghie, merci meccaniche o modellate, calzature ed altri utilizzi minori; il rimanente 10 % viene usato nelle plastiche, inchiostri nei toner per stampe e fotocopie, vernici, giornali ed applicazioni varie (Auchter, 2005).

Impieghi nella nanoremediation

Le nanoparticelle di CB sono oggetto di studio per l’impiego nella

nanoremediation, in quanto sono in grado di rimuovere metalli e contaminanti

organici dai suoli e dalle acque sotterranee (Kwadijk et al., 2013). Trovano, inoltre, impiego nel trattamento delle acque destinate al consumo, in quanto sono in grado di rimuovere molto tipi di contaminanti, come metalli pesanti (Li et al., 2005), contaminanti organici (Yang et al., 2006) e contaminanti biologici, come batteri, virus e tossine cianobatteriche (Brady-Estévez et al., 2008), mediante adsorbimento, in particolare nella forma di nanotubi (Upadhyayula et

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Tossicità del Carbon Black

Le nanoparticelle di CB possono indurre effetti citotossici, principalmente mediante la produzione di ROS, come mostrato in figura 2. Questi si possono formare anche nello spazio extracellulare, motivo per cui inibire l’internalizzazione delle CB potrebbe non essere sufficiente per proteggere le cellule.

I ROS innescano una cascata di reazioni che portano all’attivazione di meccanismi di infiammazione e quindi all’apoptosi, mediante perdita del potenziale di membrana dei mitocondri e successiva attivazione degli enzimi caspasi che determinano la frammentazione del DNA (Boland et al., 2014).

Queste nanoparticelle possono, inoltre, interagire con le proteine di membrana (come proteine canale, recettori, proteine di giunzione, etc.) determinando una modulazione dell’espressione genetica o inducendo autofagia in seguito alla loro internalizzazione (Boland et al., 2014).

Figura 2: principali meccanismi di tossicità determinati da nanoparticelle di CB e TiO2.

Immagine reperita in “Carbon black and titanium dioxide nanoparticles induce distinct molecular mechanisma of toxicity” (Boland et al., 2014)

(26)

1.5 Test di genotossicità

1.5.1 Comet assay e valutazione del danno al DNA

Noto anche con il nome di elettroforesi su singola cellula (Single Cell Gel

Electrophoresis), l’idea alla base di questo saggio è stata introdotta per la prima

volta da Ostling (Ostling and Johanson, 1984) e consentiva la rilevazione di rotture a doppio filamento di DNA (double strand breaks). Questa prima versione è stata rivista da Singh e colleghi, che introdussero la variante alcalina (Singh et al., 1988), consentendo di individuare anche la presenza di rotture a singolo filamento (single strand breaks) e di siti labili agli alcali, dovuti ed esempio alla presenza di addotti al DNA. L’utilizzo di una soluzione a pH alcalino anziché neutro garantisce, infatti, la denaturazione dei filamenti di DNA, e quindi il rilassamento della superelica, che consente la liberazione dei più piccoli frammenti formatisi.

Il test prevede l’inclusione delle cellule in agarosio su vetrino e la lisi delle membrane plasmatiche e nucleari. Questo permette ai frammenti di DNA, nelle cellule che abbiano subito danni genetici, di migrare verso l’anodo durante una breve corsa elettroforetica, grazie alla presenza di cariche negative sui filamenti stessi. In questo modo i frammenti con minor peso molecolare potranno migrare per distanze maggiori rispetto a quelli più grandi, conferendo un caratteristico aspetto a cometa al nucleo cellulare, da cui il test prende nome. In cellule prive di danno genetico l’assenza di estremità libere o di frammenti ad alto peso molecolare impedirà tale migrazione.

In figura 3 (pag. 27) è mostrato come appaiono al microscopio a fluorescenza le cellule dopo corsa elettroforetica e colorazione. Cellule con una coda più estesa corrisponderanno ad un maggiore danno genetico, che può essere quantificato mediante software di analisi delle immagini in termini di percentuale di DNA contenuto nella coda della cometa.

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La sensibilità e rapidità con cui può essere condotto questo test, lo rendono uno strumento molto pratico e diffuso per la determinazione di effetti genotossici da parte di sostanze di varia natura, e trova applicazione sia in campo medico che ecotossicologico. Sono necessarie solo poche cellule (circa un migliaio) per ottenere informazioni precise e consistenti, inoltre può essere applicato a qualsiasi tipo di cellula nucleata.

Oltre ai lati positivi appena illustrati, il Comet assay presenta dei limiti che devono essere presi in considerazione: tra questi troviamo innanzitutto la necessità di utilizzare cellule vitali, poiché in presenza di un elevato numero di cellule necrotiche o apoptotiche, il test non fornisce informazioni accurate sul grado di frammentazione del DNA (Sasaki et al., 2000). Inoltre, questo test non fornisce alcuna distinzione riguardo al tipo di danno che ha determinato la rottura del DNA, in quanto non si ha una separazione dei frammenti in base alla loro dimensione (Cedervall et al., 1995). Un altro fattore da considerare è la presenza di legami crociati tra proteine e DNA o tra due tratti adiacenti di DNA, che possono celare la presenza di rotture a singolo filamento (Tice et al., 2000, Speit and Rothfuss, 2012). In tal caso, tuttavia, l’ausilio di versioni modificate del saggio ne consente l’utilizzo in presenza di agenti induttori di legami crociati (Merk and Speit, 1999). I processi di riparazione del DNA possono contribuire a rendere più complessa la determinazione del grado di rottura del DNA, in particolare per quanto riguarda

Figura 3: Cellule branchiali di M. galloprovincialis in seguito a corsa elettroforetica, con diversi gradi di frammentazione del DNA.

I. Nucleo integro

II. Nucleo lievemente danneggiato III. Nucleo molto danneggiato

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rotture e su altre anomalie a livello dei filamenti di DNA, mascherando il potenziale effetto genotossico delle sostanze. Anche in questo caso, l’utilizzo di inibitori della riparazione, durante il Comet assay, contribuisce a stimare la quota di rotture esclusivamente connessa ai processi riparativi (Frenzilli, et al., 1997).

Bisogna, infine, ricordare che non tutti i frammenti di DNA misurabili mediante il Comet assay sono imputabili ad effetti genotossici: nelle cellule in fase replicativa vengono formati molti nuovi frammentini di DNA, che possono migrare (Olive and Banáth, 2006) ed essere erroneamente interpretati con una maggiore sensibilità del test.

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1.5.2 Diffusion assay e cellule apoptotiche

Questo test è una versione modificata del Comet assay che permette di individuare la presenza di cellule apoptotiche, la cui frequenza può essere maggiore in presenza di sostanze con azione genotossica, rispetto a condizioni normali (Singh, 2000). Durante la corsa elettroforetica utilizzata nel Comet assay, infatti, i frammenti a basso peso molecolare di DNA risultanti dall’attività pro-apoptotica degli enzimi caspasi, durante il loro processo a cascata, si disperdono nella matrice di agarosio, e non risultano più visibili mediante la lettura al microscopio (Singh, 2000). Questo potrebbe potenzialmente falsare i risultati del Comet assay, in quanto saranno leggibili solamente le cellule che hanno mostrato una maggiore resistenza.

In figura 4 è raffigurato l’aspetto delle cellule nel Diffusion assay, dopo l’immersione in soluzione di lisi, neutralizzazione e colorazione: in base al grado di danno genetico, i frammenti di DNA si distribuiscono in modo più o meno diffuso, per cui le cellule vengono ripartite dal lettore in classi da 1 a 5 (1= minimo danno genetico; 5= cellule apoptotiche). Nel caso delle cellule apoptotiche, corrispondenti alla classe di massimo danno, il nucleo appare ampiamente diffuso, piuttosto omogeneo e presenta dei confini indistinti rispetto alle cellule integre (Singh, 2000).

Figura 4: Cellule branchiali di M. galloprovincialis con diverso grado di integrità nucleare, espresse mediante classi di danno dopo Diffusion assay.

A. classe 1; B. classe 2; C. classe 3; D. classe 4; E. classe 5 - apoptotica

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1.5.3 Cytome assay: micronuclei e anomalie nucleari

Mediante il Cytome assay può essere osservata la presenza di micronuclei e di altre anomalie nucleari, risultato di mutazioni strutturali di vario tipo, quali i cromosomi dicentrici, la presenza di cromosomi ad anello o l’unione di cromatidi fratelli (Norppa and Falck, 2003).

Il test del Cytome assay permette di valutare il danno cromosomico spontaneo o indotto in termini di frequenza di micronuclei e di altre aberrazioni cromosomiche.

I micronuclei sono utilizzati come biomarker per la rottura cromosomica o perdita di cromosomi interi (Fig. 5b): si formano, infatti, a partire da frammenti cromosomici o interi cromosomi in ritardo nell’anafase durante la divisione cellulare, che rimangono indietro e non vengono inclusi nel nucleo delle cellule figlie; questi vengono quindi racchiusi da membrana nucleare e replicati unitamente ai nuclei principali durante le successive divisioni cellulari. Per questi motivi viene considerato un danno genetico permanente.

In Figura 5 sono rappresentate alcune delle anomalie cromosomiche osservabili mediante il Cytome assay.

a b c d

e f g h

Figura 5: Cellule branchiali di M. galloprovincialis osservate mediante microscopio ottico dopo colorazione con Giemsa. Nei diversi riquadri sono riportate alcune delle possibili anomalie nucleari individuabili mediante il Cytome assay a. Cellula priva di anomalie nucleari; b. Micronucleo; c. Bleb; d.Bud; e. Ponti nucleo-plasmatici; f. Notched; g. Ring; f. Binucleata

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Tra le altre aberrazioni cromosomiche troviamo i Bleb, in cui i nuclei presentano una o più vescichette (Fig. 5c); i Bud, ovvero delle vescichette connesse al nucleo principale mediante un sottile filamento nucleoplasmatico; questi ultimi rappresentano un biomarker per l’eliminazione di DNA amplificato o di complessi riparativi nucleari (Fig. 5d) che possono derivare da fenomeni di amplificazione genetica via breakage-fusion-bridge cycles, durante i quali il DNA amplificato viene localizzato in specifiche zone alla periferia del nucleo ed espulso mediante

nuclear budding, durante la fase S del ciclo cellulare (Fenech et al., 2011).

I Ponti nucleoplasmatici si manifestano per un malfunzionamento dei processi di riparazione dei filamenti di DNA o di fusioni terminali dei telomeri (Fig. 5e).

I nuclei possono, inoltre, assumere un aspetto lobato ed irregolare nei Lobed o un aspetto incavato nei Notched (Fig. 5f).

Nei Ring le cellule hanno il nucleo dall’aspetto ad anello, cioè con una grossa zona circolare al centro del nucleo priva di cromatina (Fig. 5g).

Nelle cellule in apoptosi è possibile individuare una serie di vacuoli.

Le cellule binucleate si trovano quando alla divisione cellulare non è seguita la citodieresi (Fig. 5h).

Queste anomalie cromosomiche sono biomarker di eventi genotossici (biomarker di effetto), rappresentando la manifestazione dell’instabilità dei cromosomi, molto spesso riscontrabile nelle forme di cancro (Bonassi et al., 2011). Il Cytome assay è comunemente in uso con successo per il monitoraggio di esposizione a composti genotossici, mediante approccio in vivo ed in vitro (Bolognesi and Fenech, 2012, Bolognesi and Hayashi, 2011, Fenech, 2007).

(32)

2. SCOPO DELLA TESI

Lo scopo della presente tesi è quello di valutare il potenziale impiego di vari tipi di nanoparticelle nella nanoremediation, ovvero nel tentativo di porre rimedio agli effetti cito e genotossici, legati alla presenza di contaminati ambientali di varia natura, in organismi sia acquatici che terrestri.

È stata posta particolare attenzione a contaminanti classici dell’ambiente acquatico marino, quali i metalli pesanti come il cadmio, di dimostrata attività cito e genotossica e largamente presente in questa matrice.

Le molecole utilizzate a tal fine sono stati tre tipi di biossido di titanio nanoparticellato ed una di carbonio.

I test condotti sono stati il Comet assay ed il Cytome assay per la valutazione, rispettivamente, del danno al DNA ed ai cromosomi, il Diffusion assay per verificare la presenza di cellule apoptotiche ed il Trypan Blue per la valutazione della vitalità cellulare.

Gli esperimenti sono stati condotti su organismi di Mytilus galloprovincialis, dai quali sono state ottenute biopsie branchiali successivamente esposte in vitro al cadmio ed alle nanoparticelle, per valutarne le eventuali proprietà riparatrici o protettive rispetto alla sola esposizione al contaminante.

(33)

3. MATERIALI E METODI

3.1 Analisi delle sostanze

Nell’ambito delle sostanze utilizzate, il disegno sperimentale ha previsto l’impiego di CdCl2 come rappresentante dei metalli pesanti più comunemente

riscontrabili in ambiente marino, e dalla nota attività genotossica nei confronti degli organismi acquatici. Per quanto riguarda, invece, le particelle potenzialmente utilizzate per la nanoremediation, sono state usate tre forme di nano-TiO2

(Degussa, Sigma e mesoporoso) e il Carbon black, descritti in seguito (pag. 37-40). In un primo momento si è proceduto a trattare gli organismi di M.

galloprovincialis con le singole sostanze, al fine di trovare una dose di trattamento

adeguata. Una seconda fase sperimentale ha previsto, quindi, la conduzione di esperimenti di co-esposizione di CdCl2 e nanoparticelle, negli organismi

bioindicatori, alle concentrazioni scelte nella prima fase sperimentale.

Cloruro di Cadmio

Un’analisi preliminare degli effetti di diverse dosi di CdCl2 ha permesso di

scegliere la concentrazione ideale da utilizzare nei test di co-esposizione in vitro con le nanoparticelle, su biopsie branchiali di Mytilus galloprovincialis. A tal fine sono state saggiate quattro concentrazioni diverse di CdCl2, scelte sulla base di

studi presenti in letteratura (Thévenod, 2009), disciolto in HBSS 20‰: 0,1 µg/ml, 0,5 µg/ml, 1,0 µg/ml e 1,5 µg/ml. Tra di esse è poi stata scelta la dose che mostrasse un certo grado di genotossicità, in termini di rotture a singolo e doppio filamento di DNA, ma che non inducesse una eccessiva mortalità cellulare, in modo da poterne apprezzare l’effetto genotossico. Per fare ciò sono stati prelevati sei frammenti branchiali da tre organismi diversi di M. galloprovincialis. L’esposizione in vitro dei tessuti è stata condotta in piastre p24, ponendo ciascuna

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trattato con H2O2 (controllo positivo di elezione per il Comet assay, (Wilson et al.,

1998)) 100 mM per 10’; i restanti quattro frammenti branchiali sono stati sottoposti alle diverse dosi di CdCl2 (0,1 µg/ml, 0,5 µg/ml, 1,0 µg/ml e 1,5 µg/ml) per due

ore. Durante il tempo di trattamento le p24 sono state tenute al buio alla temperatura di 4°C, mescolando di tanto in tanto per evitare la precipitazione della sostanza.

Al termine del tempo di trattamento, su questi campioni sono stati condotti il test del Trypan blue e il Comet assay. L’esperimento è stato replicato due volte (due esperimenti indipendenti su frammenti brachiali provenienti da organismi diversi). Tutte le operazioni sono state condotte con luce gialla per evitare di aumentare il danno al DNA dovuto all’azione diretta della luce bianca.

Biossido di Titanio

Le tre tipologie di titanio nanoparticellato utilizzate per la presente tesi sono: 1) Titanio mesoporoso, sintetizzato dal Politecnico di Torino (Prof.ssa Barbara

Bonelli). Costituito dal 100% di anatasio e dalle dimensioni di 14 nm; 2) Titanio Degussa (Evonik) - CAS 13463-67-7, costituito dal 70% di anatasio

dalle dimensioni di 21 nm e dal 30% di rutilo;

3) Titanio Sigma - CAS 1317-70-0, costituito da anatasio puro al 99,7% e dalle dimensioni di circa 25 nm.

Questi tre tipi di nanoparticelle, oltre che per le dimensioni, si distinguono per la conformazione strutturale e superficiale, caratteristiche che ne influenzano la potenziale reattività con le particelle con cui possono venire in contatto. Il mesoporoso possiede una conformazione che lo rende particolarmente interessate per la presenza di numerosi pori che ne aumentano la superficie di contatto, consentendo l’interazione con altre particelle non solo superficialmente, ma anche al suo interno (Davis, 2002).

Le polveri sono state pesate e sterilizzate a 120°C per due ore, per poi creare una soluzione “madre” (sciogliendole in HBSS 20‰) con la massima concentrazione desiderata (50 µg/ml), dalla quale ottenere le diluizioni minori (10

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µg/ml e 1 µg/ml), scelte sulla base di dati presenti in letteratura (Warheit et al., 2007, Di Bucchianico et al., 2016). Prima del loro utilizzo sono state sottoposte a sonicazione per 30’ a 35 kHz mediante un sonicatore “Bath type” (transoning 460 ELMA) per ridurre l’aggregazione delle particelle.

Al fine di valutare l’aggregazione delle particelle, subito dopo la sonicazione si è provveduto ad eseguire un’indagine con il microscopio elettronico a trasmissione (TEM) 100 SX Jeold.

La sospensione madre di ciascuna polvere è stata diluita 1:10 e deposta su retini di rame per TEM (150 mesh) ricoperti da una membrana di formvar.

L' indagine morfologico-strutturale è stata eseguita mediante un JEOL 100 SX T.E.M. ad un potenziale di 100 kV.

Nelle seguenti figure (Fig. 6.1 - 6.3) sono riportate le immagini ottenute mediante TEM delle sospensioni delle polveri utilizzate.

Figura 6.1: Immagine ottenuta mediante microscopia elettronica a trasmissione (TEM) di TiO2 Mesoporoso sospeso in acqua distillata.

(36)

Da queste si evince che le particelle delle tre forme cristalline di TiO2 tendono

ad associarsi tra di loro anche dopo sonicazione, formando aggregati di diverse dimensioni. La distribuzione di frequenza delle dimensioni ha evidenziato un limitato numero di particelle singole e/o aggregati di dimensioni < 100 nm e un grande numero di aggregati con dimensioni variabili da pochi a molti µm.

Anche per le tre forme di titanio nanoparticellato (mesoporoso, Sigma e Degussa) sono state condotte delle analisi per stabilire quale concentrazione fosse quella ottimale cercando la dose più alta che inducesse il minor effetto genotossico sulle cellule branchiali di mitilo.

In un unico esperimento sono state ottenute 5 biopsie branchiali da ciascuno dei tre organismi di Mytilus galloprovincialis utilizzati. Per ciascun organismo i trattamenti condotti sono stati un controllo negativo in 500 µl di HBSS 20 ‰, un controllo positivo con 500 µl H2O2 100 mM per 10’, e 500 µl delle tre

concentrazioni di TiO2 nanoparticellato per 90’. Per ogni tipo di nanoparticella è

stato usato un organismo diverso in p24 indipendenti. Durante il tempo di trattamento le p24 sono state tenute al buio alla temperatura di 4°C, mescolando di tanto in tanto per evitare la precipitazione delle nanoparticelle. Al temine del tempo di esposizione sono stati condotti il test del Trypan blue e il Comet assay.

Figura 6.3: Immagine ottenuta mediante microscopia elettronica a trasmissione (TEM) di TiO2 Sigma sospeso in acqua distillata.

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Carbon Black

Per quanto riguarda il carbonio nanoparticellato (Carbon black ossidato, HNP24) è stata condotta, al momento, un’analisi preliminare per la determinazione della concentrazione ottimale da utilizzare in co-esposizione con CdCl2.

Nella figura 6.4 sono riportate le immagini ottenute mediante microscopia TEM delle sospensioni delle polveri utilizzate dopo sonicazione.

Da queste si evince che le particelle di CB, come visto per le tre forme cristalline di TiO2, tendono ad associarsi tra di loro, anche dopo sonicazione, formando

aggregati di diverse dimensioni.

La distribuzione di frequenza delle dimensioni ha evidenziato un limitato numero di particelle singole e/o aggregati di dimensioni < 100 nm e un grande numero di aggregati con dimensioni variabili da pochi a molti µm.

La polvere di CB è stata pesata e sciolta in HBSS 20‰, ottenendo così la soluzione “madre” con concentrazione 150 µg/ml, dalla quale sono state poi ricavate le diluizioni successive: 100 µg/ml, 50 µg/ml e 10µg/ml, scelte sulla base

Figura 6.4: Immagine ottenuta mediante microscopia elettronica a trasmissione (TEM) di Carbon Black sospeso in acqua distillata.

(38)

Prima dell’esposizione le soluzioni di CB sono state sonicate per 30’ a 35 kHz. Sono stati ottenuti 6 frammenti branchiali da 3 organismi diversi, che sono stati trattati con 500 µl di HBSS 20 ‰ per 2 ore per il controllo negativo, 500 µl H2O2

100 mM per 10’ per il controllo positivo, e con 500 µl delle quattro concentrazioni diverse di CB nanoparticellato per due ore. Durante il tempo di trattamento le p24 sono state tenute al buio alla temperatura di 4°C, mescolando di tanto in tanto per evitare la precipitazione delle nanoparticelle.

Al termine del tempo di trattamento i campioni sono stati usati per i seguenti test: test del Trypan blue, Comet assay e Cytome assay.

Co-esposizioni

Dopo aver analizzato i risultati della prima fase del disegno sperimentale, le dosi scelte per la co-esposizione di CdCl2 e TiO2 sono state 1 µg/ml e 50 µg/ml

rispettivamente.

Le particelle di nano-TiO2 sono state diluite alla concentrazione desiderata in

HBSS 20‰, prima del loro utilizzo sono state sottoposte a sonicazione per 30’ a 35 kHz per ridurre l’aggregazione delle particelle prima dell’esposizione.

Per ogni tipo di TiO2 nanoparticellato sono state condotte tre repliche, in

ciascuna delle quali, da tre organismi di Mytilus galloprovincialis, sono stati sezionati 5 frammenti branchiali posti nei pozzetti di una piastra p24.

I trattamenti per ciascun organismo sono stati: controllo negativo con 500 µl di HBSS 20‰, controllo positivo con H2O2 100 mM, trattamento con 500 µl di CdCl2

(1 µg/ml), trattamento con 500 µl di TiO2 (50 µg/ml), co-esposizione con 500 µl

di CdCl2 (1 µg/ml) + 500 µl di TiO2 (50 µg/ml). Il tempo di trattamento (durante il

quale le p24 sono state tenute al buio alla temperatura di 4°C e mescolando di tanto in tanto per evitare la precipitazione delle nanoparticelle) è stato di due ore, ad eccezione del controllo positivo, per il quale è stato di 10’.

Al termine del tempo di trattamento i campioni sono stati usati per i seguenti test: test del Trypan blue, Comet assay e Diffusion assay.

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3.2 Test utilizzati

3.2.1 Comet assay

Al termine del tempo di trattamento, le biopsie branchiali sono state rimosse dalle p24 ed inserite in Eppendorf da 2 ml, in cui sono stati aggiunti 500 µl dell’enzima digestivo dispasi (1,5 mg/ml). Le provette sono state poste in un bagnetto termostatato a 37°C per 20’ per consentire la disgregazione delle branchie. Al temine del tempo, è stato aggiunto 1 ml di HBSS 20‰ freddo in ogni provetta per bloccare l’azione dell’enzima. La sospensione cellulare è stata quindi filtrata con retini di nylon dal diametro di 100 µm su piastre Petri, risciacquati con 500 µl di HBSS 20 ‰ freddo, e recuperata in provette Eppendorf da 2 ml. A questo punto sono stati prelevati 10 µl di sospensione cellulare su cui eseguire il test del Trypan blue per la vitalità cellulare. La parte restante è stata centrifugata alla velocità 1000 rpm per 10’ per far precipitare le cellule dal mezzo liquido fisiologico. In seguito è stato possibile aspirare tutto il sopranatante per poter poi risospendere il pellet in 225 µl di Low Melting Agarose (LMA) 0,5% disciolto in PBS a 37°C, in modo da averne 0,75 µl per ogni vetrino da allestire.

Per ogni punto sperimentale sono stati usati 3 vetrini da microscopia ottica, di cui 2 per il Comet assay ed 1 per il Diffusion assay. Su ciascun vetrino da microscopia ottica, precedentemente ricoperto da uno strato di Normal Melting Agarose (NMA) 1%, sono stati distribuiti 0,75 µl della soluzione di LMA e cellule, poi ricoperti da un vetrino copri-oggetto per consentire al gel di distribuirsi in modo uniforme. Durante questa operazione i vetrini erano adagiati su un vassoio metallico freddo, in seguito sono stati riposti in frigorifero a 4°C per 5’ per consentire al gel di solidificarsi. In seguito i vetrini sono stati privati momentaneamente del copri-oggetto per apporvi altri 85 µl di LMA in modo da racchiudere lo strato di gel contenente le cellule, e posti nuovamente a 4°C per altri 5’. Una volta solidificatosi il gel, i vetrini sono stati delicatamente privati del

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copri-utilizzo, sono stati aggiunti Dimetilsulfossido (DMSO) al 10% e Triton X al 1%. I vetrini sono stati lasciati in questa soluzione per un minimo di un’ora ed un massimo di 30 giorni. Questo ha consentito la disgregazione delle membrane plasmatiche e nucleari delle cellule branchiali, rendendo libere da costrizioni le molecole di DNA in esse contenute.

Una volta tolti dalla soluzione di lisi, i vetrini sono stati inseriti in una vasca elettroforetica orizzontale e ricoperti da un buffer alcalino (pH >13) per 10’ che consente di denaturare i filamenti di DNA e mettere in evidenza la presenza di rotture, a singolo e doppio filamento, e di siti labili agli alcali, dopo di che è stata effettuata una corsa elettroforetica a 300mA, 25V per 5’. Al termine della corsa, il pH dei vetrini è stato neutralizzato con una soluzione a pH 7,5 (Tris-HCl) mediante tre applicazioni a distanza di 5’ di 2 ml di soluzione, per consentire la successiva colorazione. In seguito i vetrini sono stati lasciati asciugare e poi riposti in una scatola porta vetrini in ambiente secco.

Al momento della lettura i vetrini sono stati colorati con 100 µl di bromuro di etidio (2 µg/ml), molecola intercalante gli acidi nucleici, in grado di legarsi al DNA e di emettere fluorescenza se esposto a raggi ultravioletti ad una lunghezza d’onda compresa tra i 300 e i 350 nm. La lettura è stata condotta mediante microscopio a fluorescenza (Jeneval), con ingrandimento 40x, collegato al programma di analisi delle immagini “Komet 4, Kinetic imaging, Ldt”, che ha consentito di valutare la percentuale di DNA migrato durante la corsa elettroforetica. Per ogni replica, le cellule lette sono state 25, per un totale di 50 cellule per punto sperimentale, per ciascuno dei tre organismi trattati in ogni esperimento. Tutte le operazioni sono state condotte con luce gialla per evitare di aumentare il danno al DNA indotto dall’esposizione a luce bianca.

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3.2.2 Diffusion assay

I vetrini utilizzati per questo test sono stati preparati con lo stesso procedimento illustrato per il Comet assay. In questo caso, però, i vetrini sono stati rimossi dalla soluzione di lisi esattamente un’ora dopo la loro immersione, sono stati lavati con una soluzione neutralizzante (Tris-HCl) a pH 7,5 mediante tre lavaggi successivi con 2 ml di soluzione, poi lasciati asciugare e riposti in una scatola porta vetrini in ambiente secco.

Al momento della lettura sono stati colorati con 100 µl di bromuro di etidio (2µg/ml), coperti con un vetrino copri-oggetto e analizzati al microscopio a fluorescenza.

Per ogni vetrino è stato analizzato un campione di 100 cellule, di cui è stata definita la classe di appartenenza in base al grado di diffusione del materiale genetico attorno al nucleo cellulare. Le classi da 1 a 4 comprendono nuclei a grado crescente di danno genetico espresso sotto forma di danno al DNA. La classe 5 si riferisce a cellule apoptotiche i cui frammenti di DNA a basso peso molecolare derivano dall’attività degli enzimi apoptotici caspasi e corrispondono al massimo danno possibile (Fig. 2, pag. 29). Tassi di mortalità cellulare elevati potrebbero interferire con i risultati ottenuti dal Comet assay, andando a mascherare buona parte dell’effetto genotossico, che può essere invece rilevato con il Diffusion assay.

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