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Academic year: 2021

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CAPITOLO 3

CONVERSAZIONI PSICOTERAPEUTICHE.

ANALISI DEI DATI

1. SCOPI E PRESUPPOSTI METODOLOGICI

Nei capitoli precedenti abbiamo visto che gli scripts e i frames che definiscono un evento devono sempre essere descritti dal punto di vista di uno dei ruoli coinvolti (supra, cap. 1, § 1.3; cap. 2, § 1.5), perché ogni partecipante ha una sua specifica visione dell’evento. Un esempio di questa caratteristica è data da uno studio statunitense sul “primo appuntamento” di giovani coppie, in cui:

“The scripts for women and men differed significantly. The scripts for women emphasized the private sphere (concern about appearance, conversation, and controlling sexuality); the scripts for men focused on control of the public domain (planning, paying for, and orchestrating the date). Gender roles were more prevalent in experienced daters’ scripts. The results indicate that young adults’ interpersonal scripts for dating maintain the traditional gender-power ratio.” (Rose, Hanson Frieze 1989: 258)

Nel caso della psicoterapia, i due ruoli hanno delle concettualizzazioni molto diverse dell’evento anche perché hanno delle conoscenze molto diverse: il terapeuta ha un sapere tecnico, che si fonda sul ruolo di guida che deve svolgere nell’evento secondo i principi teorici della sua scuola psicologica di riferimento. Per questo il modello ideale della sua concettualizzazione è ricavabile dai manuali di pratica terapeutica (supra, capp. 1-2).

Il paziente non ha invece un sapere tecnico-specialistico che ne definisce il

ruolo, perché rispetto alla psicoterapia dal punto di vista del terapeuta egli è un

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semplice utente, necessariamente inesperto, anche se avesse vissuto molte psicoterapie, perché dai comportamenti del terapeuta non è scontato ricavare delle costanti che presuppongono specifici princìpi teorici.

Nondimeno, la strutturazione dell’evento psicoterapeutico, dimostrata nella possibilità di descriverlo in termini di scripts e frames (supra, capp. 1-2), pone necessariamente l’esigenza di stabilire che anche per il paziente esista una concettualizzazione in qualche modo ricorrente, che possa essere derivata quantomeno dalla terapia in corso, in cui egli acquisisce letteralmente uno script e un frame, secondo le classiche dinamiche di astrazione («from an episodic to a generic representation», un cambiamento graduale in cui «although there is initially better memory discrimination for atypical [elements], these are forgotten at a faster rate than typical [ones]», cfr. Slackman, Nelson 1984: 330) o persino da esperienze precedenti analoghe o che presume abbiano qualche somiglianza con quella della psicoterapia.

L’utilizzo come fonte di conoscenza delle esperienze presunte analoghe sarà presa in considerazione solo laddove queste si palesino chiaramente; il ruolo delle psicoterapie passate non sistematicamente. Lo scopo sarà invece soprattutto quello di ricostruire la concettualizzazione mostrata nell’esperienza in corso.

La natura del corpus non consente di ricostruire eventuali fasi di acquisizione dello script e dei frames psicoterapeutici e le sue dimensioni non consentono quantificazioni rilevanti dal punto di vista statistico; intenderò invece ricavare degli esempi di alcune forme tipiche, che in alcuni casi possono anche rivelarsi esclusive, di espressione linguistica degli scripts e dei frames dell’esperienza psicoteraeutica del paziente.

Anche pochi casi (infra, § 2) come quelli qui presi in esame consentono infatti di elicitare elementi sufficienti a ricostruire la concettualizzazione dell’evento, con un’analisi che disponga da un lato di strumenti analitici adeguati (tra gli altri: i modi codificati nella lingua di significare implicitamente; le presupposizioni pragmatiche; i significati veicolati dall’espressione delle modalità:

deontica, epistemica, boulemaica, evidenziale; eccetera) e dall’altra di un’approccio

che permetta di ricavare gli elementi essenziali dell’evento (seguendo i criteri di

Barsalou della sistematicità e della necessità o rilevanza concettuale), basandosi su

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una visione del contesto complessa e che lo ponga al centro dei meccanismi di significazione:

«What matters is that in so far as a piece of behaviour falls under others’

observation, we can draw from it information that can be interpreted, that is communicated information» (Bertuccelli Papi 2000: 40)

«We subscribe to an integrated view of communication, based on recognition that all comprehension is inferential […] We further assume that each component of the interactional situation is potentially able to convey information, provided, however, that something of what is going on makes it relevant, that is, provided that it gets a mental representation worth being included among the sources for the derivation of the most adequate interpretation.» (ivi: 42)

La peculiarità di questa analisi, rispetto a molti altri studi sulle concettualizzazioni degli eventi, è che non cerco di elicitare gli elementi dei frames e degli scripts sperimentalmente, a posteriori, ad esempio a partire da interviste strutturate che si basano sul presupposto che queste strutture concettuali sono anche strutture psicologiche inerenti la memoria. Gli elementi semantici saranno ricavati online, nell’hic et nunc dello svolgimento dell’evento stesso a cui le concettualizzazioni pertengono (per una discussione su questi diversi approcci, cfr.

Hue, Erikson 1991: 230-233).

Ciò che non sarebbe possibile, ad esempio, nella situazione prototipica del ristorante – in cui l’osservazione delle azioni dall’esterno potrebbe solo confermare i pregiudizi sulla loro suddivisione e strutturazione – è invece possibile nella psicoterapia, grazie al fatto che, basandosi l’evento in questione essenzialmente su una conversazione, il presupposto metodologico secondo cui pratiche interattive e modi di significare sono basati su medesime concettualizzazioni (supra, introduzione) trova terreno fertile ed è possibile analizzare atti linguistici che sono a un tempo le azioni interne all’evento e i modi di significare su di esso.

La concettualizzazione che se ne ricava è così espressa linguisticamente, ma

senza provenire da una metacomunicazione artificiale (come nel caso degli

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esperimenti), e senza inoltre intervenire nell’evento con elementi di misurazione che potrebbero disturbarne la spontaneità, in quanto i metodi di registrazione che hanno consentito di raccogliere il corpus sono già presenti nel setting: il terapeuta non ha dovuto cioè richiedere al paziente permessi e concessioni diverse da quelle che è abituato professionalmente a richiedere per i suoi scopi, garantendo così ottime garanzie in termini di spontaneità dell’interazione.

Le parti di conversazione scelte per la trascrizione su cui poi si è basata l’analisi sono state selezionate in base al criterio semantico che esse fossero metacomunicazioni, in un senso dettato dagli strumenti analitici semantico- pragmatici sopra accennati. Sono quindi stati trascritti tutti i passi in cui un qualsiasi elemento della psicoterapia, o la psicoterapia stessa, o anche una psicoterapia passata o il rapporto del paziente con altri psicoterapeuti, fosse tematizzato; ma anche quelli in cui un elemento modale, una forma di cortesia, persino un silenzio, comunicassero qualche elemento della concettualizzazione del paziente: i propri diritti e i propri doveri, le aspettative sui comportamenti, la funzione, gli scopi, l’atteggiamento e le caratteristiche del terapeuta, l’espressione della fonte delle sue conoscenze, il grado di certezza espresso nel trattare determinati argomenti piuttosto che altri, tutti elementi che, messi in relazione al contesto specifico e ad alcune conoscenze generali su di esso necessarie alla sua interpretazione, potessero rivelare sia gli attributi (e i valori) della psicoterapia, sia le relazioni che intercorrono tra questi, sia una visione sia pur astratta di un percorso psicoterapeutico relativo all’interazione tra i due ruoli.

Come già accennato (supra, introduzione), lo script dal punto di vista del paziente sarà elaborato rispetto alla psicoterapia tout court, senza distinzioni teoriche – anche se sarà necessario limitarsi a considerarne la validità per gli approcci psicoterapeutici presi in esame. Ne deriva un interesse per le costanti della psicoterapia da un punto di vista esterno rispetto a quello tecnico-specialistico degli

“addetti ai lavori” che potrebbe essere interessante confrontare con gli altri ambiti di

ricerca sulla psicoterapia indipendenti dall’approccio specifico: le indagini

comunicative già citate (supra, introduzione; ma anche ogni tentativo di descrizione

di strutture psicoterapeutiche “di ampie dimensioni”: cfr. Bercelli) ma anche la

letteratura sull’efficacia terapeutica che si concentra sui cosiddetti “fattori

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aspecifici” (cfr. la bibliografia citata in Viaro, Leonardi 1990: 13, n. 1), tutti approcci spesso alla ricerca di un metalinguaggio neutro rispetto alle distinzioni terminologiche che derivano dalle differenze teoriche delle varie scuole psicologiche.

2. IL CORPUS

Il corpus di questa ricerca è composto dalle registrazioni di 25 sedute psicoterapeutiche complete più vari frammenti (estratti dagli stessi terapeuti per isolare singole strategie, o scambi di turni interessanti per scopi didattici o di ricerca), per un totale di circa 1280 minuti di conversazione terapeutica (oltre 21 ore). Si tratta per la quasi totalità di audioregistrazioni, tranne per le videoregistrazioni di 3 sedute complete più alcuni frammenti (per un totale di 170 minuti) di una stessa terapia sistemica-individuale.

Tutte le sedute del corpus sono datate fra il 2003 e il 2008. Ho potuto inoltre visionare 2 sedute sistemico-familiari complete e l’estratto di una terza (in particolare la conclusione di seduta, supra, cap. 1, § 2.1.3) condotte da Mara Selvini Palazzoli (con un’équipe che non sono riuscito a identificare nella totalità, ma che data agli anni

’80 ed è pertanto successiva a quella coincidente col gruppo di autori di Selvini

Palazzoli et alii 1975) che sono state molto utili per poter osservare l’applicazione di

molte tecniche descritte (ibidem) e per confrontare una versione della pratica

terapeutica sistemica intermedia tra quella presentata nel testo appena citato e quelle

adottate dai terapeuti sistemici facenti parte del corpus. Non ho voluto però inserire

queste sedute nell’analisi per una differenza di datazione sufficiente a squilibrare

parametri linguistici, comunicativi e sociali riguardanti gli interagenti. Sono inoltre

stati di grande utilità gli appunti presi ormai nel 2004 visionando (per una ricerca che

prese poi una direzione completamente diversa) alcune terapie sistemico-familiari

(recenti allora) dell’Istituto di Terapia Familiare di Firenze, dove ho riscontrato

alcune delle tecniche e dei concetti esposti nel testo di Selvini Palazzoli et alii 1975,

che resistono nella pratica terapeutica nonostante i cambiamenti apportati nel tempo e

le differenze dei singoli terapeuti e delle loro scuole.

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Le 25 sedute del corpus sono ripartite in modo diseguale in 16 terapie, tenute in tutto da 4 terapeuti. Per non rendere riconoscibili i pazienti non riporterò qui neanche i nomi dei terapeuti coinvolti, che mi hanno fornito personalmente le registrazioni da analizzare. Due terapeuti costruttivisti, un uomo esperto e una donna nel periodo di tirocinio, mi hanno fornito il primo 4 sedute complete (200’) di 4 diversi pazienti (3 donne e 1 uomo), tra cui una seduta iniziale (delle tre totali presenti); la seconda, la terapeuta più rappresentata (500’ circa), 7 sedute complete di una stessa terapia con una paziente (in cui è presente la seduta iniziale; si tratta del paziente più rappresentato con 295’), più 4 sedute complete di 4 diversi pazienti (tra cui un uomo) e infine brevissimi frammenti di sedute con altre due pazienti.

Due terapeuti sistemici (entrambi uomini ed esperti) mi hanno fornito (uno non direttamente: si trattava di una registrazione completa in possesso dell’altro per motivi di ricerca; questo secondo mi ha fornito anche le sedute dell’équipe di Selvini Palazzoli) il primo una prima seduta di terapia familiare (100’), il secondo (477’) 2 sedute con un paziente maschio, 4 sedute con una paziente, frammenti di sedute di un’altra paziente e le (stavolta video-) registrazioni di 3 sedute più frammenti di una quarta con una paziente. Nella tabella seguente offro una sintesi di questi documenti del corpus:

Approccio Terapeuta Paziente Sedute Iniz. T(’) File

1 costrutt >00 T1 (m, exp) P1 (f) 1 1 50 A

2 “ “ P2 (f) 1 50 A

3 “ “ P3 (m) 1 50 A

4 “ “ P4 (f) 1 50 A

5 “ T2 (f, new) P5 (f) 7 1 295 A

6 “ “ P6 (f) 1 50 A

7 “ “ P7 (f) 1 50 A

8 “ “ P8 (m) 1 50 A

9 “ “ P9 (f) 1 50 A

10 “ “ P10 (f) fr. 2 A

11 “ “ P11 (f) fr. 1 A

12 sist-fam >00 T3 (m+eq, exp) P12 (Fam) 1 1 100 A

13 sist-ind >00 T4 (m, exp) P13 (f) 3+frr. 170 V

14 “ “ P14 (m) 2 100 A

15 “ “ P15 (f) 4 200 A

16 “ “ P16 (f) frr. 7 A

- sist-fam ca80 T5 (f+eq, exp) P17 (Fam) 2 1 140 V

- sist-fam ca80 “ P18 (Fam) fr. concl. 3 V

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La compilazione del corpus non è stata semplice perché la registrazione delle sedute non è una pratica molto diffusa tra i terapeuti, al di là dell’approccio sistemico dove fa in pratica parte del setting standard (anche se non è né obbligatoria né sistematica). La riservatezza delle conversazioni scambiate rende inoltre questo materiale molto sensibile. In tutti i casi che ho raccolto vi erano stati precedenti accordi tra terapeuta e paziente secondo cui il materiale registrato avrebbe potuto essere utilizzato, oltre che per scopi pratici dallo stesso terapeuta, anche per scopi o didattici o di ricerca. Anche in questi casi, comunque, talvolta gli studi psicoterapeutici non intendono far uscire dalle loro mura questo tipo di materiale, comprensibilmente.

In queste condizioni generali, la raccolta del corpus è stata condizionata, ma soprattutto consentita, dai contatti che già avevo instaurato personalmente per motivi di studio laterali o precedenti questa ricerca con alcuni istituti di psicoterapia, che ancora per motivi di riservatezza dei pazienti preferisco non esplicitare, ma a cui va tutta la mia gratitudine. Inizialmente, quando questa ricerca si stava delineando, intendevo tentare un’analisi dell’apprendimento graduale da parte del paziente della situazione psicoterapeutica; da qui deriva l’alta frequenza (se messa in relazione alla durata delle terapie) di sedute iniziali (3 su 25, compresa una non utilizzata poi per il corpus) e deriva anche la presenza di alcune porzioni contigue di terapie (una costruttivista e una sistemica), che potevano essere utili per elicitare alcuni sviluppi diacronici nel comportamento del paziente. In seguito ho optato per un’analisi che presupponesse una teorica sicronia nella concettualizzazione del paziente (supra, § 1), per cui la raccolta del corpus ha seguito un criterio maggiormente tendente alla diversificazione, cercando sedute provenienti da momenti diversi delle terapie.

Del corpus raccolto avrebbero potuto fare parte anche 24 sedute di approccio

psicodinamico (non psicanalitiche in senso stretto però), ma ho preferito selezionare

quattro terapeuti all’interno di due approcci, quello sistemico e quello dei costrutti

personali, che fossero più simili tra loro, per avere un qualche terreno comune di

confronto: entrambi, ad esempio, con un ruolo simile dell’intervista e della raccolta

dati, con interventi frequenti del terapeuta, con un approccio al paziente che tende a

valorizzarne le conoscenze e il punto di vista, e soprattutto entrambi molto attenti

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(nella condotta pratica e nei presupposti teorici) ai dettagli dello scambio comunicativo, a vari fattori micro- e macroscopici inerenti la comunicazione, alla ricerca delle regole del sistema comunicativo dell’ambiente familiare del paziente il primo e della ricostruzione del suo sistema di costrutti personali il secondo.

Allo stesso tempo, la diversità evidente (di accento o di contenuti) dei loro elementi dello script psicoterapeutico (supra, cap. 1, § 2) permette di poter dare più valore all’ipotesi qui assunta di una concettualizzazione della psicoterapia da parte del paziente largamente indipendente dallo specifico approccio della terapia in cui egli si trova.

3. LA PSICOTERAPIA SECONDO IL PAZIENTE

3.0. Nei prossimi paragrafi, a partire da un’analisi dei contenuti espressi nella conversazione, delineerò la concettualizzazione della psicoterapia dal punto di vista del paziente, evidenziando man mano gli elementi essenziali e le loro relazioni che andranno a costituire il frame e lo script rappresentati negli schemi finali.

Non avendo un’idea chiara possibile di quello che accadrà in un evento che non conosce e non è gestito da lui, il paziente non può avere uno script propriamente detto della situazione della psicoterapia. Emerge però una sorta di ordine logico di passi da superare per essere un “buon paziente”, per accettare quelli che sono da lui concettualizzati come elementi cardine della situazione (della terapia, del terapeuta e del ruolo di paziente da “mettere in scena” in prima persona), che è possibile dunque inserire in una sequenza per indentificarvi lo script

“logico” di tappe che sebbene non necessariamente si presentino alla coscienza o debbano essere praticamente superate (il paziente può assumere il proprio ruolo aproblematicamente fin da subito, in tutto o in alcuni degli elementi individuati), si configurerebbero in un’ordine probabilmente stabile qualora divenissero, come nei casi mostrati, il fulcro di altrettante strategie di disturbo della psicoterapia. 48

48. Riporto qui le convenzioni di trascrizione delle conversazioni, che ricavo liberamente (proponendo alcune aggiunte) dai lavori di analisi della conversazione di Paul Drew (cfr.

Atkinson, Drew 1999; Drew, Heritage 1992) e dai suoi corsi introduttivi alla ricerca nel campo

dell’analisi della conversazione (ad esempio: University of York, 16-18 ottobre 2009). Ho cercato

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3.1. Il punto di vista del paziente

Il PUNTO DI VISTA è un elemento fondamentale nel contesto comunicativo della psicoterapia. Possiamo considerare sotto questa etichetta la differenza tra le conoscenze e gli scopi di terapeuta e paziente che ne definisce i rispettivi ruoli e le diverse concettualizzazioni.

Preme ricordare, in particolare, le conoscenze tecniche del terapeuta, le sue conoscenze sul paziente che, durante la terapia stessa, acquisisce, rielabora e, da un certo momento in poi, comunica al paziente stesso e, riguardo invece gli scopi, la sua hidden agenda. Riguardo il paziente, invece, il suo punto di vista coincide in pratica con l’elemento contenutistico più prezioso della psicoterapia: le sue conoscenze su di sé, che devono essere trasmesse al terapeuta nella misura in cui queste sono utili al processo terapeutico.

Talvolta alcune informazioni vengono richieste al paziente esplicitandone espressamente la natura di punto di vista soggettivo:

T – secondo lei tra le tante cose che ci siamo detti che cos’è che è emerso di particolarmente significativo?

In realtà quasi ogni intervento del terapeuta è teso a richiedere, in modo diretto o meno, il suo punto di vista su un determinato argomento. 49

di ottenere delle trascrizioni che mantengano un buon equilibrio tra leggibilità e rigore, tralasciando alcune sottigliezze tipiche della trascrizione conversazionale non indispensabili per le finalità semantico-pragmatiche di questa ricerca: le parentesi quadre “[]” indicano sovrapposizioni tra i turni dei parlanti oppure contengono puntini di sospesione “…” per i tagli o note dell’autore;

il simbolo “?” indica intonazione ascendente, ma non necessariamente una domanda; il punto “.”

indica intonazione discendente; il simbolo “:” indica allungamento nella pronuncia; il simbolo

“” indica che la parte attigua tra barre oblique “/” è pronunciata sorridendo; la linea “-” indica cambio o interruzione nel ritmo dell’enunciato; tra i simboli “> <” sono indicate parti pronunciate con un ritmo rapido; tra i simboli “° °” sono indicate parti pronunciate sottovoce; tra parentesi tonde “( )” è indicato il tempo di pausa o un punto “.” per una pausa molto breve, sotto il mezzo secondo; oppure sono indicate parti di testo incerte o puntini di sospensione “…” per parti incomprensibili; il simbolo “=” alla fine di un turno e all’inizio del successivo indica che i due turni non sono separati da alcuna pausa percepibile, pur senza sovrapporsi. Userò il corsivo per evidenziare di volta in volta elementi rilevanti per l’analisi, mai per rendere fenomeni del parlato.

49. Viaro e Leonardi osservano che l’intervista terapeutica è una conversazione il cui scopo

dichiarato è la ricerca di informazioni (1990: 70).

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A titolo di esempio, in una seduta che ho trascritto integralmente, da parte del terapeuta si contano 78 interventi linguistici. Con l’aggettivo “linguistici”, intanto, essendo qui alla ricerca di elementi semanticamente e pragmaticamente ben definiti, intendo escludere tutti i casi in cui non siano presenti parole identificabili, ma in cui invece siano presenti altri elementi comunicativi che da soli possono occupare un turno: una risata in risposta a un turno del paziente, oppure il terapeuta che annuisce verbalmente ma senza elementi linguistici: «m m», eccetera.

Inoltre, intendo per “intervento” un concetto necessario per non imporre forzatamente il concetto di “enunciato” in un contesto in cui è necessario considerare anche la dimensione conversazionale: ho contato come singoli interventi, infatti, gruppi di turni del terapeuta adiacenti ma distinti tra loro (interrotti cioè da un turno del paziente non sovrapposto) quando la stessa divisione in turni, contemporaneamente, 1. avesse interrotto la sintassi della frase nucleare o avesse diviso un predicato dai complementi argomentali; e 2. fosse determinata da turni dell’interlocutore che, sia pur non sovrapposti, avessero scarsa salienza fonica e semantica; tipicamente, interventi fatici con cui il paziente annuiva, del tipo «m m».

Ora, tra i 78 interventi linguistici del terapeuta in questa seduta, ben 47 sono domande. Dei 31 interventi rimanenti, quasi la metà sono concentrati nella parte finale della seduta, in cui il terapeuta prende la parola («bene forse devo dire un paio di cose anch’io») per spiegare, trattandosi di una prima seduta, i dettagli pratici e l’organizzazione della terapia.

Si deve inoltre considerare che, gli interventi che non sono computabili tra le domande, sono tutti molto brevi e lasciano in genere immediatamente la parola al paziente; molti poi sono affermazioni che hanno un evidente valore pragmatico di inviti indiretti a tenere la parola, e dunque a continuare a fornire informazioni, ad esempio in momenti in cui il paziente mostra difficoltà a comunicare:

P – […] ho tante cose da dirle non saprei

T – [immagino che non sia facilissimo iniziare a dirle]

P – [sincera- (.) sincera]mente da dove iniziare;

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oppure possono essere sintesi e rielaborazioni del terapeuta che però assumono, ancora, pragmaticamente, il valore di inviti a continuare a comunicare, partendo stavolta da un topic selezionato (o reintepretato) dallo stesso terapeuta:

T – mi pare di capire che la nascita [del figlio] è stata (1) un grosso spartiacque P – sì

T – è stato un momento- un’occasione di cambiamento

Sebbene questi numeri possano essere influenzati dal fatto che si tratta di una prima seduta, dove anche le informazioni più generali sia sul problema sia sulla vita del paziente devono essere raccolte, possiamo senz’altro sostenere che gran parte dello scheletro della conversazione psicoterapeutica è mosso dal fine di ottenere informazioni dal paziente. D’altra parte, gli scripts teorici delle psicoterapie sistemica e costruttivista facevano prevedere questo dato, specialmente nella parte, analoga, rispettivamente, dell’intervista (supra, cap. 1, § 2.1.4) e dell’esplorazione (supra, cap. 1, § 2.2.3).

IL GRADO DI CERTEZZA

Il paziente esprime il proprio punto di vista sulle proprie conoscenze con diversi gradi di certezza. Nel corpus è osservabile una tendenza per cui la certezza epistemica sui contenuti espressi varia a seconda che il paziente stia parlando o di fatti BIOGRAFICI non direttamente ricollegabili al motivo per cui si trova in terapia, nel qual caso viene generalmente espressa la modalità epistemica della certezza, o di fatti inerenti appunto il PROBLEMA avvertito (infra, § 3.2), nel qual caso emerge una tendenza alla modalità del dubbio. Queste due categorie di CONOSCENZE , trattate diversamente, dovranno avere due collocazioni diverse nella concettualizzazione della psicoterapia del paziente. Vediamo alcuni esempi.

È interessante notare che, al di là delle narrazioni di eventi biografici, vissuti

in prima persona o riguardanti amici, familiari, eccetera, ovviamente descritti in

gran parte secondo la modalità della certezza (conseguenza del principio

conversazionale noto come della migliore fonte, che già Viaro, Leonardi 1990

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applicano alla psicoterapia: 70-72), la stessa modalità è espressa anche per eventi che necessitano di un qualche livello di astrazione o di interpretazione, su cui potremmo attenderci pertanto maggiore dubbio: ad esempio, il fatto che la città dove il paziente risiede è un luogo non favorevole alla sua professione. E, fatto ancora più marcato, persino quando il paziente è di fronte a un confronto tra punti di vista e quello da lui difeso non è quello ovvio: la lettura dei secondi fini dei gesti altrui: «in realtà non voleva sapere come stavo io mi voleva dire come stava lei»; le proprie condizioni di salute fisica, per le quali la certezza non sembra insidiata neanche dall’interpretazione apparentemente più ovvia: «pare ma non è influenza».

Riguardo il tema del proprio problema, o comunque gli elementi che divengono un’evidente area di ricerca per il terapeuta, il paziente esprime invece generalmente incertezza, attraverso avverbiali ad esempio: «forse con la mia generosità», «probabilmente mi faccio voler bene», eccetera (molti esempi di espressione del problema saranno discussi infra, § 3.2.2.1).

È interessante però notare che questa modalità epistemica dell’incertezza potrebbe essere assunta per una sorta di dovere di ruolo, e per motivi di faccia inerenti il ruolo complementare del terapeuta; ad esempio, il paziente che, come nell’esempio seguente, si pronunci su un’ipotesi psicologica, e che lo faccia persino contro l’ipotesi specialistica di un medico (ridotta dunque a incerta: «poteva esser»), lo farà, dato che l’interlocutore è proprio lo psicoterapeuta che dovrebbe pronunciarsi per ruolo su questi fatti, inserendo un elemento modale di dubbio («forse»), sebbene stridente con la forza espressa dalla congiunzione avversativa e dall’indicativo attiguo:

T – e come gliel’hanno spiegata?

P – […] poteva esser provocata anche dagli ormoni che prendevo […] ma io penso forse a tutto un fattore anche nervoso

Questo valore retorico che assume a volte l’incertezza può risultare evidente

dal fatto che il terapeuta può stimolare risposte del paziente inerenti il problema

avvertito altrettanto nette di quelle che abbiamo visto per gli altri temi della sua vita,

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attraverso l’uso di domande provocatorie, che cercano nelle parole del paziente ed esplicitano interpretazioni possibili scomode da accettare:

T – mi sta suggerendo che se l’è comprata? [riferito a un’amica, ndA]

P – no, no

T – cioè lei mi sta dicendo che non si fida [del suo partner, ndA]?

P – no no non mi fido no no mi fido ciecamente

Una tecnica analoga può essere usata dal terapeuta anche riguardo il punto di vista su un punto di vista altrui, contenuto su cui il terapeuta può accettare che il paziente si esprima con incertezza, ma non difendendo il suo dubbio fino a negare di avere una qualsiasi idea:

T – cosa pensa [il suo partner] di questa difficoltà?

P – non lo so /non gliel’ho chiesto veramente /

T – ma conoscendolo che cosa potrebbe pensarne lui?

P – lui ha molta paura che…

3.2. Il problema avvertito

3.2.1. Entrare in terapia

Si tratta della prima di due scene principali in cui si configurano gli elementi dello script del paziente. Vediamone le caratteristiche attraverso quanto emerge dalla conversazione di seduta.

3.2.1.1. Il problema psicologico: attributi essenziali

Un presupposto della psicoterapia noto anche nella conoscenza comune di

questa pratica, ma di cui rintracceremo qui di seguito le tracce anche nei contenuti

espressi dal paziente, è che questultimo abbia un problema da risolvere, di una

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tipologia che potremmo definire con gli aggettivi “emotivo”, “psicologico” o

“esistenziale”, e che si rivolga al terapeuta appunto in quanto questi è esperto nell’aiuto di tale tipologia di problemi. Ma in seduta può avvenire che il paziente neghi, in modo esplicito o attraverso comportamenti comunicativi indiretti, di avere un problema, cercando in pratica di esautorare il contesto comunicativo in atto. Si tratta di un comportamento noto nella letteratura, di ogni tipo, sulla psicoterapia (si ricordino le tattiche descritte da Selvini Palazzoli e in generale la retroazione negativa nella concettualizzazione della terapia sistemica: supra, cap. 1, § 2.1.4;

nella terapia dei costrutti personali, la resistenza: supra, cap. 1, § 2.2.4). Labov e Fanshell (1977: 32-33) notano che: «At a relatively early point, [the patient] makes the claim that he fully understands the problem, that he no longer needs help though he once did; he then attempts to demonstrate by the history of his recent actions how well he understands the problems that once existed. The need for this assertion of independence is so strong that it can appear even in the first interview».

Analizzando alcune strategie di questo tipo messe in atto da una stessa paziente all’interno di più sedute di una terapia costruttivista, nei prossimi punti deriverò, per contrasto, alcuni attributi del problema del paziente che appaiono essenziali, negando i quali appunto sembra venir meno l’essenza del ruolo del paziente. Quando la terapia è legittimata ad instaurarsi, dunque, ad ognuno degli attributi che emergono con valore negativo in queste strategie dovrebbe corrispondere un valore positivo contrario.

1) il paziente avverte un malessere

Il paziente va in psicoterapia a causa di un «problema»: «[io sono] venuta proprio

per quel problema là». Questo PROBLEMA è dunque il primo attributo semantico del

ruolo del PAZIENTE . Come dimostra l’uso della prima persona grammaticale, nei

predicati che, come argomento ulteriore a quello espresso dal soggetto, presentano o

la sostantivizzazione del problema («questa ansia […] ce l’ho») o una frase

complemento che ne descrive i contenuti («non riuscivo […] a uscir di casa»), il

problema del paziente ha come OGGETTO la sua stessa PERSONA , riguarda cioè se

stesso e non, ad esempio, gli oggetti che possiede, le persone che conosce, la sua

carriera, stabilendo un unico valore possibile per questo attributo. Si tratta dunque

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di un malessere («son venuta qua praticamente per st’ansia che non riuscivo neanche a uscir di casa»), concetto che utilizzerò talvolta in contesti discorsivi, ma che nel frame della psicoterapia preferisco scomporre nell’incontro degli elementi appena ricavati, che definiscono un “problema che ha per oggetto la persona stessa che lo avverte”.

La centralità del problema nella definizione del paziente, come già accennato, è dimostrata anche in negativo: se il problema non c’è più, la psicoterapia perde la sua ragione d’essere. Per ovvi motivi di cortesia, il paziente che voglia esprimere questo contenuto lo fa in genere con un certo grado di implicitezza, affidandone ad esempio l’espressione a una presupposizione semantica veicolata da una congiunzione avversativa tra due frasi che descrivono l’una la spinta a venire in terapia e l’altra le nuove condizioni acquisite:

P – [io son] venuta proprio per quel problema là ecco però adesso appunto ho visto che l’ho abbastanza insomma risolto

La paziente in questione, per esautorare il contesto terapeutico, può anche negare esplicitamente di avvertire il problema nel tempo presente, quello dell’enunciazione e quindi della psicoterapia («questa ansia in quel livello là non ce l’ho più»). Pur nell’ammisione di essere «venuta [in terapia] proprio per» il problema in questione, ne “prende le distanze” anche con una metafora spaziale, forzando l’uso delle riprese anaforiche intratestuali verso le loro potenzialità deittiche, attraverso la sostituzione di un meno marcato “questo” con “quello” e l’aggiunta di un avverbio spaziale: «[io sono] venuta proprio per quel problema là».

2) il problema è psicologico

La paziente, in seguito a un colloquio medico, scopre che alcune analisi che aveva fatto in precedenza erano state svolte in modo scorretto e avevano di conseguenza dato risultati inesatti; da quei risultati, era dipesa l’assunzione di un farmaco che, a detta dei medici, nelle condizioni reali della paziente, diverse da quelle descritte dalle analisi, avrebbe potuto provocarle l’ansia che l’aveva portata in psicoterapia.

L’origine iatrogena del suo malessere fisico, in contrasto con un ipotetico malessere

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psicologico, la autorizza implicitamente a sollevarsi dal ruolo di paziente psicoterapeutico (per tornare a quello di paziente medico):

P – penso che praticamente il problema sia dovuto anche a questo che le dirò […]

praticamente loro pensano che il laboratorio dove facevo le analisi […] hanno tutto sbagliate le analisi

Un attributo del problema del paziente è quindi la sua NATURA e questa deve necessariamente prendere il valore “ PSICOLOGICA ”, 50 come risulterà chiaro anche dalle descrizioni dettagliate che il paziente fa del proprio problema (infra, § 3.2.2).

3) il problema ha una storia

Il malessere del paziente sembrerebbe non poter essersi manifestato troppo recentemente nella sua vita, troppo poco prima della sua decisione di rivolgersi a un esperto: «ho delle difficoltà dei problemi che ho ho tenuto diciamo dall’adolescenza» (da un’altra psicoterapia). Un paziente psicoterapeutico dovrebbe avere una storia di problemi relazionali e psicologici, anche non legati in modo evidente al problema avvertito:

P – no ecco devo dir la verità ecco nella mia vita perché sa tante volte uno dice guard- ho dei problemi insomma ho veramente dei problemi magari con disaccordi con delle persone con degli altri problemi vari questo io

T – non lo riconosce nella sua vita

P – no anzi guardi devo dir la verità che finora sono stata proprio fortunata mi ritengo proprio fortunata […]

In questa ulteriore strategia la paziente cerca di esautorare la situazione terapeutica proprio ampliando l’orizzonte temporale sotto osservazione, dall’hic et nunc già analizzato al punto primo, con due indicazioni temporali (la locuzione avverbiale

«nella mia vita» e l’avverbio «finora») di durata massima (perché esauriscono tutto

50. È d’altra parte conoscenza comune che il disturbo fisico riguarda la psicoterapia solo se

supposto psicosomatico, cioè di origine psicologica.

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il tempo della propria esperienza che un individuo può esprimere, che coincide con quello della propria vita fino al momento dell’enunciazione) e di diversa valenza aspettuale, rispettivamente circoscrivente e culminativa (secondo la terminologia adottata in Bertinetto 1986 per gli avverbiali temporali; dal punto di vista azionale sono invece entrambe durative), che, nel sottolineare che “è sempre stato così” e “lo è stato fin qui”, concorrono a un effetto illocutivo di spiegazione, secondo il quale

“adesso è così” a causa di una storia che non ha eccezioni: “non ho un malessere psicologico perché non ho mai avuto un malessere psicologico (quello che lo sembrava era un malessere fisico)”.

Piuttosto che sottolineare una “quantità” necessaria di problemi irrelati, la continuità temporale tra il problema presente e i problemi passati e la continuità causale presupposta pragmaticamente evidenziano piuttosto l’ ETÀ come attributo di una generica sommatoria di manifestazioni diverse dello stesso PROBLEMA , ed essa, quantomeno prototipicamente, sembra dover essere, rispetto alla storia della persona, ANTICA .

4) il problema è urgente

Talvolta, nonostante il paziente sembri accettare il dialogo psicoterapeutico, e di conseguenza legittimare la psicoterapia e in definitiva l’esistenza stessa del problema che essa presuppone, può negare che il problema abbia un qualsiasi rilievo (cfr. Labov, Fanshel 1977: 33-34). Se alla richiesta del terapeuta di raccontargli quello che desidera («c’è qualcosa di cui aveva piacere voglia di parlare con me oggi?»), il paziente non sa di che cosa parlare («de- cosa potrei dirle insomma niente») o parla di pensieri del tutto estranei alla motivazione per cui si trova lì («ecco- perché guardi sono rimasta allibita (questo) dell’indifferenza delle persone devo parlar (su oggi sì)»), comunica implicitamente che il problema per cui ha esplicitato di essere lì non ha in realtà alcun rilievo, perché altrimenti lo esporrebbe (o quantomeno esprimerebbe una difficoltà o incapacità di esporlo, infra, § 3.2.1.2, punto 5) all’esperto che ha di fronte.

Lo stesso elemento semantico è sottolineato in modo più diretto con altre

modalità. Con lo stesso uso deittico visto al primo punto, il paziente può

metaforicamente allontanare, quando non il malessere in sé, anche le cause della

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sua urgenza, ad esempio un livello di gravità che nel momento dell’enunciazione non c’è più: «questa ansia in quel livello là non ce l’ho più».

Il problema del paziente ha in definitiva un RILIEVO quantificabile, che necessita l’intervento dello psicoterapeuta solo nel caso possa essere considerato

URGENTE .

3.2.1.2. Il paziente: attributi essenziali

Proseguendo in questa disamina di strategie comunicative con cui il paziente esautora il contesto comunicativo in cui si trova, possiamo raggrupparne un’altra serie che, proseguendo logicamente dalle precedenti, cerca, pur avendo ammesso l’esistenza di un problema psicologico, di invalidare altre caratteristiche essenziali della psicoterapia, attributi, valori e relazioni tra di essi che sembrano avere un peso essenziale per il ruolo stesso del paziente.

1) il paziente ha coscienza del problema

Se è vero che senza un problema non può esserci un paziente, come abbiamo visto nelle strategie sopra illustrate, la sua presenza non basta per poter avviare una psicoterapia (anche se basterebbe per giustificarla) se non è accompagnata dalla coscienza del paziente, che possiamo considerare una costante strutturale tra il

PAZIENTE appunto e il PROBLEMA che è un suo attributo.

È improbabile, in questo caso, che si possa ricavare il contenuto “coscienza del problema” da strategie analoghe a quelle analizzate precedentemente, ovvero che lo implichino negandolo: o il problema è supposto assente, o il paziente ne ha preso coscienza. Il contenuto secondo cui il paziente neghi di avere coscienza di un problema che pur sa di avere sembrerebbe creare un’opposizione forzata tra

“sapere” (per esempio riponendo fiducia in una fonte di conoscenza esterna) e

“avere coscienza” (riferito a qualcosa di interiore), e difatti nel corpus non c’è traccia di un simile contenuto.

Il paziente dunque esprime in genere positivamente la coscienza attuale del

problema, sia pur indirettamente, ad esempio sottolineando deitticamente la

distanza temporale tra l’ora dell’enunciazione, che, coincidendo con il momento

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della seduta, necessita la coscienza del problema, e un momento passato («ho cercato», «c’era»; «andava») in cui essa era ancora assente:

P – ho cercato diciamo in tutti i modi di trovare non dico una soluzione ma di di::

(.) di capire cioè di accettare più che altro che c’era qualcosa in me che non andava e che andava sistemato

La mutua esclusività tra i contenuti semantici “assenza di coscienza” e

“psicoterapia” può essere espressa anche in modi più articolati:

P – non accettavo di avere i problemi all’epoca pensavo anzi di essere più in gamba degli altri che appunto quei problemi erano legati a un- a alla socie/tà / diciamo che è cambiata quindi tutti quasi tutti necessitano di uno psicologo ecco la buttavo un po’ così

Questo passo spiega («pensavo anzi») la forma specifica in cui si era manifestata l’assenza di coscienza (espressa con: «non accettavo di avere i problemi»): al di là dell’attenuazione («quasi») iniziale, nella frase «tutti necessitano di uno psicologo», il pronome indefinito «tutti» a un tempo indebolisce l’eccezionalità della condizione di paziente (che diviene “uno come tutti”), data appunto dal fatto di avere un PROBLEMA , e nega il carattere individuale e PERSONALE dell’eventuale problema (perché il paziente diviene semplicemente “uno di tutti”). In definitiva, il paziente non ha coscienza di essere portatore di un malessere (un “problema della persona”, appunto) ma, come visto precedentemente (supra, § 3.2.1.1), il malessere è considerato prototipicamente dallo stesso paziente come un elemento fondamentale della psicoterapia, e dunque la sua negazione non può che esautorare il contesto psicoterapeutico. Ecco spiegato perché il contesto presupposto da questo passo è necessariamente una terapia passata che non è andata a buon fine.

Il tema dell’accettazione del problema (ben diverso dalla descrizione dello

stesso), sebbene espresso positivamente per l’impossibilità (vista sopra) se non

logica quantomeno pragmatica di negarlo, non è mai espresso fattualmente, come se

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parte della difficoltà stesse anche nell’implicita ammissione di una debolezza (per un problema cioè di faccia sociale).

L’accettazione viene comunicata implicitamente o dalla descrizione stessa del problema (infra, § 3.2.2), o tramite la negazione al passato di qualcosa che è necessario, e quindi implicito, nella situazione attuale, rispettivamente: la coscienza («non accettavo di avere i problemi all’epoca»), la volontà di raggiungerla («non volevo accettare di aver fatto delle gran cavolate») e lo sforzo di riuscirci («ho cercato […] di accettare […] che c’era qualcosa in me che non andava»), tutti elementi fondamentali per il paziente, come vedremo nei punti seguenti.

Da un punto di vista retorico, il tema dell’accettazione del problema non sarà dunque espresso al grado zero, ma piuttosto mitigato in varie forme:

P – ha messo in me tanta rabbia che non riuscendo a sfogare come facevo un tempo mi ha: mi ha fatto riflettere e per questo motivo sono qui

Nell’espressione «mi ha fatto riflettere», usata per “ho preso coscienza di/accettato di avere un problema psicologico”, l’eufemismo retorico permette soprattutto di cambiare schema semantico-sintattico scegliendo un predicato con diversa valenza in modo da evitare di dover affidare a un argomento, e quindi di far affiorare nella frase e in definitiva, pragmaticamente, ammettere, lo stesso contenuto semantico

“problema psicologico”.

2) il paziente ha bisogno di un esperto per guarire

Il paziente non deve solamente avere coscienza del proprio problema psicologico ma, per entrare efficacemente nella psicoterapia, deve anche accettare di non poterlo risolvere da solo, di avere bisogno delle competenze di un esperto.

Tornando alle strategie di disturbo della psicoterapia, il paziente può infatti negare questo elemento, fatto da cui, al solito, è possibile inferire la sua importanza.

In alcuni passi, ad esempio, il paziente, avvertendo un momentaneo

miglioramento delle proprie condizioni, propone una doppia spiegazione possibile,

una che spiega l’evento con l’efficacia di una terapia (talvolta anche medica), e

l’altra che lo fa conseguire invece ad avvenimenti della vita privata del paziente,

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che implicitamente mettono in discussione l’altra spiegazione, quella che nel contesto terapeutico sarebbe meno marcata, non implicando la perdita della faccia del terapeuta, in quanto individuo o in quanto rappresentante di una categoria. Il messaggio che ne risulta è dunque: “forse potrei farcela anche da solo”, che mette in luce contemporaneamente lo SCOPO del paziente di GUARIRE , per opposizione, la necessità, una volta accettata la psicoterapia, di un aspetto del TERAPEUTA , le sue

CONOSCENZE SPECIALISTICHE (infra, § 3.3.3), e di un limite che lega questi due elementi del frame:

P – poi è da sono due settimane che ho cominciato a prendere un una pastiglia che è un antidepressivo non so se è anche questo che mi sta aiutando o se è anche proprio il distacco da mio marito

P – io comunque ho sentito dei cambiamenti nel giro (…) dall’anno scorso in poi […] non so dire se questi cambiamenti a questo punto arrivino dagli anni di insistenza dall’esperienza della psicanalisi dell’anno scorso che forse era una cosa nuova oppure anche dal fatto che (avevo fatto) una situazione di vita nuova fuori di casa

Il contenuto “forse potrei farcela anche da solo” può essere dichiarato anche esplicitamente, e persino con riferimento allo stesso terapeuta che coincide con l’interlocutore, ma allora sarà più probabilmente collocato nel passato, ovvero in un tentativo passato di psicoterapia, perché sarebbe altrimenti un argomento pragmaticamente ingestibile nella comunicazione attuale:

P – io poi quella volta lì m: non lo so ho fatto un ragionamento quando sono uscita di qua ho detto bo forse se mi prendo un po’ di riposo per me stessa riesco a farcela lo stesso

Altre volte, comunque, il tema del bisogno dell’esperto emerge

positivamente, ovvero fuori da strategie che lo negano per delegittimare la

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psicoterapia, ma viene comunque espresso indirettamente, ad esempio implicandolo attraverso la negazione del contenuto opposto “potrei farcela anche da solo”:

P – no io non volevo più avere a che fare né con terapie familiari né con terapie freudiane […] psichiatri psicologi […] però appunto anch’io vedo che non è possibile andare avanti così e quindi visto che io so benissimo che da sola non ne vengo fuori;

oppure, ancora, limitandosi a riprendere le parole del terapeuta che sottolineino il proprio ruolo di esperto di supporto:

T – quindi in qualche modo >(si aspetta)< qualche consiglio qualche aiuto per affrontare questa-

P – sì sì per affrontare senz’altro un po’ ecco

3) il paziente ha speranza

La speranza del paziente, che potremmo considerare una costante strutturale tra lui e il concetto stesso di PSICOTERAPIA , può essere letta attraverso la sua motivazione a intraprendere la psicoterapia e soprattutto attraverso la fiducia nella stessa (da distinguersi dalla fiducia nello psicoterapeuta come individuo, come vedremo nel punto successivo). Il tema della sfiducia, come nei casi precedenti, per contrasto ci fornisce questo elemento essenziale dell’atteggiamento del paziente:

P – una cosa (.) sto notando che (4) io continuo a venire (6) m- ma ho più l’impressione che (.) di farlo (.) questa volta (2) non per la speranza di arrivare a qualcosa (.) perché mi sembra di essermela perduta in partenza

L’assenza della speranza («perduta in partenza») sembra invalidare una condizione

necessaria della pratica terapeutica, come sottolineato dalla congiunzione

coordinativa disgiuntiva («io continuo a venire (6) m- ma […]»), e per questo

motiva una sorta di metacomunicazione («io continuo a venire») di cui altrimenti

non si capirebbe il valore pragmatico. In pratica, in questo caso il paziente sta

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affrontando (con il risultato di una strategia molto più insidiosa) anche il tema paradossale implicito in tutte le strategie di disturbo viste fin qui: quello per cui il paziente cerca di esautorare la psicoterapia che però legittima con la sua stessa presenza.

La sfiducia può anche essere implicata, con un procedimento inverso, sottolineando che il percorso terapeutico, sebbene attivo, è soltanto di facciata, svolto solo per il suo significato sociale, sottolineando ancora una volta che la terapia necessita la fiducia e senza di essa non è che una finzione:

P – […] è l’unico modo per dimostrare che sto facendo qualcosa per tirarmi fuori dalla situazione (ma in realtà) non si dica che poi alla fine non ci ho provato

Il tema della speranza appare spesso anche positivamente: «ora mi rendo conto che insomma si può vivere meglio senza alcune difficoltà». Non stupisce, perché, nella catena logica di contenuti esposti fino a qui, superata la sequenza

“avere un problema / accettare il problema / avere bisogno di un esperto”, è in pratica terminata la “pars denstruens” che mina la faccia sociale del paziente, che se avesse ammesso esplicitamente questi primi elementi avrebbe formulato in pratica una richiesta esplicita d’aiuto («non […] ho mai avuto la forza […] di chiedere aiuto»), e inizia invece la “pars construens” della fase della collaborazione con il terapeuta. Esprimere (negli esempi seguenti, rispettivamente) fiducia nella terapia, motivazione a intraprenderla, volontà di guarigione, implica il problema ma ne pone in foreground l’aspetto positivo e socialmente più accettabile:

T – quindi l’altro motivo per cui viene quale pensa che sia

P – forse da un lato l’altro motivo per il quale penso che sia è forse c’è comunque una parte che spera di aver qualcosa

P – mi rendo conto che a distanza di un anno e passa ci sono cose di me che si

ripropongono e che un po’ mi fanno stare in stallo diciamo e quindi ho pensato che

forse no- adesso è un buon momento per farla seriamente (.) un percorso

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P – in me c’è questa voglia di star meglio perché credo sia possibile

4) il paziente ha fiducia nel terapeuta

Il terapeuta può assicurarsi che il paziente abbia fiducia nella psicoterapia in sé, ma questo non certifica ancora la fiducia nello specifico psicoterapeuta che il paziente ha come interlocutore, o la fiducia nella figura dello psicoterapeuta in genere. Per rendere logicamente accettabile una distinzione come, poniamo, “ho fiducia della psicoterapia, ma non mi fido dello psicoterapeuta”, è sufficiente spostare il tema descritto precedentemente della speranza e della fiducia dal piano degli eventi e degli attributi (che il problema possa venire risolto, che la terapia sia efficace) a una semantica precipuamente relazionale, esprimendo contenuti come quello della sincerità. Anche qui, per opposizione, da una strategia in cui il paziente cerca di resistere alla legittimazione della psicoterapia, possiamo ricavare un dato positivo, un’ulteriore costante strutturale, che è la fiducia che il PAZIENTE deve provare verso il TERAPEUTA ai fini di un lavoro ottimale in psicoterapia. La sua assenza comporta, ad esempio, che egli non se la senta, o non riesca, ad essere completamente sincero:

P – che non è solo una questione di essere sincero no? perché se il problema fosse quello probabilmente avrei predetto be non ce la farò mai ad essere sincero scappo via e niente

P – ma è come se il problema fosse che essere sincero è l’unica strada che io sento per possa funzionare per arrivare a risolvere il problema

5) il paziente sa esprimere il problema

In questa sequenza logica per prelude all’instaurarsi del dialogo psicoterapeutico

vero e proprio, l’ultimo elemento necessario al paziente è che egli sia in grado di

esporre il proprio problema, un’ulteriore costante strutturale che lega il PAZIENTE e

il PROBLEMA . Questo elemento può incontrare delle difficoltà, ad esempio, per

elementi contenutistici (un paziente che abbia scarsa capacità di introspezione) o

puramente espressivi: un paziente con scarsa dimestichezza linguistica, per un

(25)

grado di istruzione basso o magari perché avente l’italiano come L2, abbia difficoltà a trovare le parole adatte per descrivere il suo problema.

In generale, però, il terapeuta è in grado con le sue competenze e la sua esperienza di ovviare a questo problema e di far iniziare al paziente, in modo adeguato al singolo caso, una narrazione della propria storia e dei motivi per cui è arrivato in terapia. 51 Tant’è vero che il tema dell’incapacità di esprimersi da parte del paziente può essere rintracciato nel corpus soltanto in forma retorica, per esprimere una difficoltà emotiva, o una complessità di temi da trattare, ma comunque per introdurre una vera e propria esposizione:

P – ho tante cose da dirle non saprei

T – [>immagino che non sia facilissimo iniziare a dirle<]

P – [sincera- (.) sincera]mente da dove iniziare

in questo caso, ad esempio, non appena la paziente esprime questa difficoltà, il terapeuta la interrompe cercando di tranquillizzarla, ma si doveva trattare di un attacco retorico, se la difficoltà espressa non sembra disturbare veramente l’eloquio della paziente, che infatti tende a ignorare l’interruzione del terapeuta, continuando a parlare sovrapponendosi a lui tranne per una breve pausa, non rispondendogli e proseguendo semanticamente e sintatticamente il proprio enunciato, con una ripetizione («sincera- (.) sinceramente») che anzi tratta l’intervento del terapeuta alla stregua di un disturbo, marcandolo come pragmaticamente infelice.

Un altro caso altrettanto retorico di affioramento del tema si riferisce al disturbo con un indefinito del tutto generico come “qualcosa”: «avevo qualcosa dentro che mi tormentava non riuscivo ad avere una metodicità nello studio»; ma solo, appunto, per introdurre il tema e poi iniziare effettivamente a descriverne non solo gli effetti pratici ma anche, con poche mirate scelte lessicali, a caratterizzarne gli aspetti essenziali di “malessere psicologico urgente” («qualcosa dentro che mi tormentava»). Anche non saper formulare una diagnosi («non so più a che cosa attribuire i miei dolori di stomaco»), in un contesto in cui non è richiesto che il paziente lo sappia fare, per poi introdurre però un tema preciso («i […] dolori di

51. Per il silenzio del paziente, invece, cfr. Labov, Fanshel 1977: 34.

(26)

stomaco» appunto) sembra più un modo retorico di introdurre un tema e proporlo all’interlocutore che, ad esempio, una strategia di disturbo del ruolo diagnostico del terapeuta (supra, punto 2).

3.2.2. Il rapporto con il problema

Il paziente è caratterizzato oltre che da scopi e dalla presenza del problema,

anche dalle sue CONOSCENZE DEL PROBLEMA stesso. Nel momento che il paziente

espone il proprio problema, è interessante valutare linguisticamente la fonte della

sua conoscenza su di esso. L’intervista sistemica (supra, cap. 1, § 2.1.4) e

l’esplorazione costruttivista (supra, cap. 1, § 2.2.3) dimostrano che, in entrambi gli

approcci presi in esame, il terapeuta attribuisce al paziente quantomeno una parte

molto rilevante di conoscenze su di sé. Il paziente però non sembra pensarla

esattamente così, probabilmente perché il fatto stesso di cercare l’aiuto di un esperto

per un malessere psicologico che lo riguarda implica che almeno alcune parti di sé

non gli sono del tutto note o quantomeno non gli sono noti i modi di conviverci o

eventualmente di cambiarle. Il paziente può parlare dei propri problemi con un

linguaggio comune, che dimostra che quantomeno in parte ha il controllo su alcune

informazioni su di sé, che tratta come elementi qualsiasi del suo sapere, che in

particolare lui ha e che il terapeuta non ha ma necessita di avere (conoscenze

interne). Altre volte però cerca di affidarsi a un linguaggio tecnico della psicologia

che denota una sorta di bisogno di legittimazione esterna, il tentativo di assimilare

almeno nella misura necessaria il linguaggio specialistico della situazione

comunicativa in cui si trova (conoscenze esterne). Diversi, poi, ancora, i fenomeni

che emergono dal momento che il terapeuta inizia anche a proporre le sue diagnosi,

la sua versione dei problemi del paziente, quelli che lui stesso ha presentato (il

problema avvertito) o quelli che il terapeuta ritiene essere i problemi (conoscenze

provenienti dal terapeuta). Vediamo queste dinamiche nei paragrafi seguenti.

(27)

3.2.2.1. Conoscenze interne

Possiamo derivare dai frames e gli scripts delle psicoterapie dal punto di vista del terapeuta il concetto di “problema avvertito”, che abbiamo visto venir preso dal terapeuta come punto di partenza delle sue esplorazione ma non necessariamente come “il” problema da risolvere (supra, cap. 1, § 2.2.3). Il paziente, però, indubbiamente arriva in terapia con questo elemento, che pertanto non deve far pensare sovrapponibili il PROBLEMA del frame dal punto di vista del paziente con il

PROBLEMA del frame dal punto di vista del terapeuta.

La casistica semantica cui mi riferisco in questo primo raggruppamento di modi del paziente di rapportarsi al problema riguarda una situazione non marcata in cui l’assenza di elementi di evidenzialità, nonché l’utilizzo di un linguaggio non specialistico e quotidiano, tipico generalmente del paziente “medio”, denotano implicitamente la provenienza interna (che può essere sensoriale o inferita) della conoscenza espressa.

1) la certezza del problema e il modello di salute psicologica

Quella che chiamerei “certezza del problema” (nel senso di “certezza delle sue caratteristiche”) si esprime sia con la certezza delle frasi indicative (o nominali) sia con la semantica della modalità boulemaica: desideri, volontà, speranze (e paure).

Ciò che accomuna le frasi indicative e i modi dell’irrealtà appena menzionati è che, nel caso del tema del problema così come è espresso dal paziente, tutti presuppongono una visione chiara di una condizione x che “dovrebbe essere”, quella della salute psicologica, espressa ora per opposizione fattuale (“non è x”), ora come termine di confronto ideale (“dovrebbe essere x”), ora con forme di quantificazione che misurano il grado di aderenza o di distanza rispetto al modello (“un po’ x”, “quasi x”), situazione da cui possiamo anche ricavare i contenuti semantici di tale modello ideale che si oppone alla condizione problematica del paziente.

Un modo fattuale di esprimere la certezza del problema è per mezzo di una

frase nominale come:

(28)

P – quindi questa mia se vogliamo dire incapacità non di stare al mondo ma di vivere normalmente

in cui il predicato (espresso dal nominale «incapacità») esprime la presenza inoppugnabile, fattuale, del problema, che viene definito come un’«incapacità di vivere normalmente», cui si oppone dunque un concetto di salute che, per quanto vago, viene definito indirettamente come “vivere normalmente”, e che viene rapportato a questo modello ideale grazie a una scala semanticamente presupposta dal sintagma: «non di stare al mondo ma», secondo cui esiste un problema (“incapacità di stare al mondo”) più grave di quello del paziente (“incapacità di vivere normalmente”), ed esiste quindi un’implicazione del tipo: “stare al mondo >

vivere normalmente”, per cui il paziente si sente adeguato rispetto al primo termine, ma in questo caso specifico inadeguato rispetto al secondo.

Spesso l’espressione della certezza è affidata alla più classica forma indicativa, sia nell’attribuirsi il problema («creo») sia nell’attribuire a questo delle caratteristiche («hanno»):

P – mi creo dei fantasmi che non hanno motivo di essere

In questo caso, il problema (“crearsi, avere fantasmi che non hanno motivo di essere”) si oppone a una condizione di salute, di normalità, per cui i metaforici

“fantasmi”, nel caso in cui si presentino, devono avere “motivo di essere”, ovvero, viste le caratteristiche di “malessere psicologico” del problema, presumibilmente essi dovrebbero corrispondere nella salute a problemi con un riscontro nella realtà oggettiva, concreti, le cui conseguenze psicologiche sarebbero dunque comprensibili e forse risolvibili o quantomeno accettabili, “normali” di nuovo (“problemi con un riscontro oggettivo”).

È molto importante sottolineare il ruolo della quantificazione che può presentarsi nell’espressione indicativa e fattuale della certezza del problema. Essa può dare la misura al terapeuta del RILIEVO (comunicato) del problema del paziente.

La quantificazione assume un significato univoco quando data la coscienza: «sono

riuscita a capire il mio malessere dalla nascita del bambino»; ma il terapeuta deve

(29)

invece tenere presente che la quantificazione può rappresentare dei meccanismi retorici tipici dei giochi di faccia, in quanto riguardano la problematica ammissione esplicita o di bisogno di aiuto o comunque di autoattribuzione di un difetto:

P – ci sono cose di me che si ripropongono e che un po’ mi fanno stare in stallo

Da quest’ultimo esempio un tratto anch’esso, mi pare, abbastanza generalizzabile della condizione di salute ideale: lo «stare in stallo»” della malattia, del malessere si oppone all’“essere in movimento, evolversi” della salute, della normalità.

Riguardo i modi controfattuali, la visione della salute anelata nella situazione problematica del paziente può essere espressa come un dovere mancato: «dovrei riuscire a farlo sono razionale anche no?», condizione che denigra appellandosi alla sua parte («anche») – evidentemente caratteristica della salute e della normalità –

«razionale».

L’espressione dell’incapacità deve però essere compensata – per non invalidare l’elemento della fiducia del paziente (supra, § 3.2.1.2) – dalla volontà, dal desiderio, dalla speranza di guarire, che esprimono spesso al controfattuale («vorrei vivere più rilassata») le qualità della concettualizzazione della salute: una condizione non ansiosa, rilassata, tranquilla, di abbandono. Dette forme dell’irrealtà possono complicarsi, al solito, quantificandosi:

P – così magari forse riuscirei veramente forse a essere un po’ più tranquilla e in certe situazioni anche forse meno ansiosa

P – possibile mai? che non viva una situazione di rilassatezza proprio di abbandono 52

denotando in entrambi i casi una situazione non completamente opposta alla salute anelata (“sono un po’ meno tranquilla di quanto dovrei esserlo per essere veramente tranquilla”, “sono più ansiosa di quanto dovrei”, “vivo una situazione di rilassatezza

52. Il profilo intonativo della frase chiarisce che l’avverbio «proprio» è legato al complemento di

specificazione «di rilassatezza» e non a «di abbandono».

(30)

ma non quanto dovrebbe essere”); nel secondo esempio si noti che il desiderio è espresso per mezzo di una tipica domanda retorica in cui si chiede “come sia (mai) possibile” la fattualità di una situazione attuale o della negazione di una situazione o statisticamente normale o desiderata.

La semantica della salute e della normalità, sebbene parziale, che scaturisce da alcuni esempi rappresentativi, non fa che declinare il target dello scopo che definisce il ruolo del paziente: GUARIRE :

Nella condizione della SALUTE PSICOLOGICA , l’individuo:

è razionale;

sa stare al mondo;

sa vivere normalmente;

i suoi problemi hanno un riscontro oggettivo;

si evolve, è in movimento;

è rilassato, tranquillo, capace di abbandonarsi

2) il dubbio sul problema

Nel caso in cui la fonte della conoscenza del problema sia interna, il paziente può anche manifestare dubbi sulla qualità del problema avvertito. Ad esempio, in:

«questa mia se vogliamo dire incapacità», un’indicativa ipotetica in funzione aggettivale esprime un dubbio sulla natura di un problema che pure è dato per certo attraverso una presupposizione semantica dovuta al possessivo «mia», che potremmo esprimere come “se è di qualcuno, allora esiste”.

Avendo superato la fase dell’accettazione (e della coscienza: supra, § 3.2.1) del problema, il dubbio in questa fase riguarda necessariamente la qualità (e non l’eventualità) dello stesso. Ad esempio, per la paziente seguente uno dei problemi rilevanti di un periodo difficile si configura esso stesso come un dubbio, modulato anche attraverso una quantificazione («veramente»):

P – non so se è veramente il mio posto fare ricerca cioè se è la mia strada

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