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La riforma universitaria 509/99 e 270/04: fatti e misfatti

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LA RIFORMA UNIVERSITARIA 509/99 E 270/04: FATTI E MISFATTI di Enrico Predazzi

Si tenta una prima valutazione della riforma Universitaria detta del "3+2"

(509/99) dal punto di vista di un docente di materie scientifiche e della prospettiva della riforma della riforma detta del "3 e 2" (270/04).

LA 509/99: LE MOTIVAZIONI, LE ASPETTATIVE E I PRIMI RISULTATI.

La riforma universitaria 509/99 nasce sotto lo stimolo degli accordi per uno spazio europeo della educazione universitaria detti di Bologna-Sorbona, ma la sua rapida applicazione in Italia (molto in anticipo rispetto agli altri paesi firmatari degli accordi) è stata stimolata dalla necessità riconosciuta da (quasi) tutti di risolvere un certo numero di distorsioni del sistema universitario italiano che provenivano da una lunga serie di rinvii e di cui, a un certo punto, si è cominciato a sentirne diventare insostenibile il peso. Questo, almeno nelle discipline scientifiche (forse, in parte, anche a causa della crisi delle immatricolazioni alle medesime). Le discipline umanistiche, forti anche di una crescita di iscrizioni tanto prolungata quanto non sostenuta dalla legge della domanda e dell’offerta, non hanno mai smesso di essere pesantemente critiche nei confronti della 509. E’ di pochi anni fa un libro dal titolo pesantemente provocatorio, dal mio punto di vista, 3+2=0, supercritico sulla riforma in questione. La mia sarà, forse, una visione viziata probabilmente dall’essere la prospettiva di un docente di materie scientifiche e, in particolare, di un docente proveniente da un Ateneo nel quale nelle materie scientifiche di base si è data una rigorosa applicazione all’incitamento a non far proliferare i corsi di laurea (triennali) riservando invece una maggiore liberalità di scelte alle lauree specialistiche (oggi magistrali) e a procedere ad una revisione profonda dei corsi offerti agli studenti, che eliminando doppioni e concentrando la didattica permettesse economie di docenza senza sacrificare (troppo) le materie un tempo chiamate fondamentali. Il risultato è stato un peso molto accresciuto per gli studenti, cui si è cercato di rimediare con un peso didattico per i docenti corrispondentemente molto accresciuto. Il tutto è stato attuato con non poca fatica per gli uni e per gli altri. Stiamo tuttora cercando di valutare se e in che misura la riforma abbia eliminato o almeno ridotto gli inconvenienti

del Vecchio Ordinamento (VO). Resta, però, in generale, una critica di fondo per il modo con cui il Nuovo Ordinamento (NO) è stato attuato che per parte universitaria ha la colpa di aver generato un numero decisamente eccessivo di corsi (triennali) attivati dalle Università italiane nel corso di questi anni (siamo, se ricordo bene, a 3225), cui si sommano i quasi altrettanti corsi di laurea specialistica o magistrale (termine che userò di qui in poi). Una vera e propria orgia programmatica. Più disastrosa però, ancorché meno appariscente, la “colpa politica” che in fase di attuazione della riforma ha ridimensionato drasticamente l’appoggio economico previsto alla medesima facendolo venire praticamente meno. Non siamo proprio alla famigerata e consuetudinaria riforma a costo zero ma poco ci manca.

Ma quali erano gli inconvenienti del VO?

In primo luogo, l’Italia rimaneva l’unica fra i grandi paesi a non avere una laurea intermedia, una via di uscita che permettesse, a chi si iscriveva e finiva per trovarsi in crisi per un qualsiasi motivo, di fermarsi a riflettere o di accontentarsi di una laurea breve (tipicamente triennale) come da molti anni quando non da sempre avveniva in quasi qualsiasi altro paese progredito. Fra altri inconvenienti, questa è anche la causa prima per la perdurante scarsità di laureati italiani (con il nostro 12% di laureati nella popolazione precediamo Repubblica Ceca e Turchia ma veniamo dopo la Slovacchia e molto lontano dai primi Canada, Finlandia ecc. dove si arriva al 40% di laureati della popolazione). Il contraltare (positivo) a questo inconveniente era l’altissima e universalmente riconosciuta qualità della laurea italiana. I nostri laureati sono stati assai richiesti in campo internazionale anche quando (prima dell’82) l’Italia mancava di quel dottorato senza il quale da altri paesi non ci si poteva muovere. In un momento, però, in cui si intravedeva la libera circolazione per l’Europa della manodopera intellettuale (un ossimoro?), non prendere provvedimenti sarebbe stato assai penalizzante per i nostri laureati che, prima o poi e soprattutto nelle materie scientifiche e

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in particolare in quelle tecnologiche, avrebbero visto il mercato italiano invaso da giovani stranieri molto meno preparati di loro ma arrivati molto più giovani sul mercato del lavoro.

Altri inconvenienti del sistema erano però assai più impellenti (ai miei occhi). Principali, fra questi, la durata e gli abbandoni degli studi. Fra questi due problemi vi è una profonda relazione ed essi, probabilmente, sono anche la ragione per cui il sistema universitario italiano si è reso disponibile all’anticipazione degli accordi di Bologna rispetto agli altri paesi europei.

Tante le ragioni di questi inconvenienti: dalla necessità per molti studenti di trovare lavoro prima della fine degli studi a quella forse principale (almeno negli studi scientifici ma direi non solo), della difficoltà intrinseca degli studi causata dall’aumento enorme di materiale da somministrare. Conseguenza questa, a sua volta, dell’accumulo di conoscenze in tutte le discipline scientifiche dai tempi dell’ultima riforma universitaria.

L’Università italiana, di fatto, non si era veramente mai adeguata al dover (voler?) divenire una Università di massa e, in molte se non tutte le discipline (almeno, ripeto, in quelle scientifiche), aveva mantenuto gli standard di un’Università di élite con numeri di iscritti ormai tipici di un’Università di massa. La riprova? La stessa già ricordata: i nostri laureati VO venivano (tuttora vengono) presi dai paesi più avanzati a scatola chiusa come quando da noi non c’era ancora il dottorato. Questa intrinseca altissima qualità del nostro laureato aveva un prezzo assai elevato sia in termini di durata degli studi che di abbandoni. Quelli che non ce la facevano gettavano la spugna spesso dopo molti anni di faticosi e vani tentativi di arrivare alla laurea e in alcune discipline gli abbandoni superavano il 60%.

Questa era non solo una vera e propria ingiustizia sociale (per non dire una truffa) ma, anche, un dissanguamento delle risorse del paese, un patrimonio potenziale gettato alle ortiche. Chi, poi, ce la faceva, spesso e volentieri (e cioè a meno di quell’élite di 4-5%

che ce l’avrebbe fatta comunque nei tempi previsti anche con l’Università di élite) impiegava fino a 7 o 8 anni per un corso di studi nominale di magari 4 anni (per esempio fisica). Altra ingiustizia sociale per non dire di più.

Conseguenza ultima di questi problemi è stata, fra le altre, una crescente disaffezione dei giovani nei confronti degli studi universitari cui si era cercato di ovviare con l’introduzione dei cosiddetti “diplomi” (corsi

di laurea breve a carattere professionalizzante dai quali non seguiva la possibilità di passare alla laurea ordinaria (VO) che non aveva però invertito la tendenza né risolto i problemi restando una misura del tutto marginale. Con tutta probabilità, per averli introdotti, una volta di più, a quello stesso costo zero già ricordato quando, invece, una laurea che si voleva professionalizzante avrebbe richiesto pesanti interventi mirati di acquisizioni strumentali.

Ben diversa, sotto questo profilo, l’esperienza delle UT francesi, nate e realizzate con pesanti interventi di supporto e di mezzi tecnologici e con il risultato che, difatti, erano state di grande successo nell’attrarre studenti.

In aggiunta, poi, il sistema aveva accumulato un pesantissimo ritardo negli avanzamenti di carriera dei docenti e nel reclutamento di ricercatori a causa delle lunghissime procedure di valutazione. Da un lato, in alcuni settori si era arrivati a concorsi con quasi cinquecento candidati per poche decine di posti disponibili che duravano anni e che non consentivano di bandire nuovi concorsi prima che essi si fossero conclusi. Dall’altro lato, l’Italia è stato il solo paese OCSE nel quale il numero di ricercatori fosse diminuito in termini assoluti negli anni ’90.

Con queste motivazioni, gli obiettivi della riforma erano, in primis, proprio quelle di rilanciare l’interesse dei giovani da un lato e di risolvere tutti i problemi segnalati sopra, principalmente quelli legati alla durata dei corsi di studio e agli abbandoni.

Per le lauree a contenuto scientifico, in particolare nelle materie di base (matematica, fisica e chimica), si trattava, poi, di far arrivare a chi di dovere (dall’uomo della strada al politico) l’allarme del rischio di emarginazione del paese rispetto alla comunità internazionale dei paesi industrializzati. Questo punto è stato affrontato con grande decisione dalla Conferenza Nazionale permanente dei Presidi delle Facoltà di Scienze e Tecnologie che, prima, ha denunciato il rischio di restare senza scienziati e senza docenti di materie scientifiche e, in seguito, ha realizzato un grande accordo programmatico per un progetto noto con il nome di Lauree Scientifiche con il Ministero e con Confindustria. Il progetto ha ricevuto un consistente finanziamento ad hoc dal MIUR (circa 7.5 Milioni di euro per un triennio con un notevole cofinanziamento di parte universitaria, 20% del totale per circa 1.8 milioni di euro). Il progetto sta partendo in questi giorni nella sua fase si realizzazione e

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si tratterà ora di dare opera affinché i risultati attesi seguano.

Il punto più critico sarà poi quello di verificare che le lauree NO incontrino il favore del mercato del lavoro. Su questo punto siamo ancora alla raccolta e all’analisi dei dati. Per contro, come in ogni riforma, si tratterà poi anche di vedere se il nuovo sistema avrà introdotto criticità prima inesistenti e verificare la qualità degli studi così ristrutturati.

Sul punto del rilancio di attrazione dei giovani verso gli studi universitari un risultato positivo c’è sicuramente stato. A fronte di un continuo declino demografico del paese, le immatricolazioni, che erano andate calando in maniera continua dall’inizio degli anni ’90, hanno subito un aumento

significativo (v. Figura 1) che in molte situazioni ha raggiunto un 10% di incremento nelle immatricolazioni.

Un altro effetto positivo che, se pur quantitativamente di non grandissima portata, non è neppure insignificante (qualche migliaio di unità nel caso di un Ateneo come quello di Torino con circa 60.000 iscritti), è stato il recupero di molti ex studenti che, avendo abbandonato gli studi (spesso da tempo) per vari motivi, hanno colto l’occasione per raggiungere l’ormai insperato traguardo almeno di una laurea triennale. Questa è una ricaduta positiva non del tutto inattesa ma che non aveva ricevuto molta attenzione in sede di programmazione della 509/99.

Fonti: Dal 1998 al 2002 serie dei 19enni rielaborata sulla base di dati ISTAT: dati sui maturi dal 2000 a l 2004; Ufficio di statistica MIUR; dati sugli immatricolati, iscritti totali ed iscritti in corso sono ricava t i dalle rilevazioni del MIUR al 31 gennaio di ogni anno e tengono conto dei soggetti che hanno pagato la prima rata di iscrizione.

Figura1: Popolazione dei 19nni, dei maturi e degli immatricolati in Italia tra il 1960 e il 2005 (dati: CNVSU, 2005)

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Veniamo ora per prima cosa agli aspetti negativi che ha avuto la riforma, uno dei limiti della quale è anche stata la rapidità con cui la si è dovuta varare per evitare l’ennesimo rinvio sine die di fine legislatura.

Un primo aspetto negativo non del tutto inatteso, se non per le sue dimensioni, è stato, come già accennato, l’enorme proliferare della proposta didattica specialmente a livello della laurea (di qui in poi ometterò l’aggettivo “triennale”) che si è avuto nella maggioranza delle aree scientifico-disciplinari e che si è tradotto in 3225 corsi di laurea. Sarebbe di un qualche interesse, almeno dal punto di vista statistico, sapere in quali settori questo aumento è stato maggiore. Più interessante (ma molto difficile) sarebbe stabilire se l’abbassamento della qualità del prodotto

“laureato” (che è stato denunciato soprattutto dalle aree umanistiche) sia da mettersi in relazione con la proliferazione di cui sopra come non pare improbabile. Molto ampia è stata anche l’offerta formativa nelle lauree magistrali (anche in questo caso vicina ai 3000 corsi) che, più comprensibile da un punto di vista culturale, lo è invece molto meno dal punto di vista della consistenza numerica degli utenti, in particolare nei piccoli Atenei che, spesso, si sono esposti troppo nell’offerta didattica con il risultato che in svariati casi si sono avuti problemi seri di qualità.

Il CNVSU (Comitato Nazionale Valutazione del Sistema Universitario) ha ripetutamente segnalato queste anomalie e ha tentato (non so con quale successo fino a qui) di ridurre questo numero con l’introduzione dei cosiddetti requisiti minimi. Questo è un punto su cui, ritengo, il sistema universitario dovrebbe svolgere una severa autocritica. Un altro aspetto con più ombre che luci atteso della riforma era quello legato ad una liceizzazione progressiva dell’Università italiana unita ad un aggravio non indifferente del carico di lavoro per gli studenti (e docenti). Questo fenomeno era del tutto atteso e, per limitarne l’impatto, potenzialmente devastante nella maggior parte delle aree scientifiche, si è cercato di attenuarne le conseguenze con un doppio meccanismo: da un lato una ripulitura (spesso drastica) dei programmi di studio per sfrondare possibili ripetitività e, dall’altro, un rigido e capillare tutoraggio che, per quello che possiamo giudicare fino a questo momento, ha avuto un esito abbastanza soddisfacente (parlo sempre e solo delle discipline scientifiche). È evidente

che, volendo ridurre a tre anni (più eventualmente altri due della laurea magistrale) programmi didattici che nel VO avevano portato a durate effettive degli studi dell’ordine di 7 o 8 anni, anche una ripulitura seria lasciava comunque un pesante carico sulle spalle degli studenti che, in qualche modo, si è cercato di attenuare con un corrispondentemente pesante carico di tutoraggio a carico di docenti e (forse soprattutto) ricercatori. L’impegno, in altre parole, richiesto alla classe discente e alla classe docente è diventato estremamente gravoso.

È bene insistere su questo punto perché troppo spesso si sentono accuse ingenerose nei confronti di studenti e ancora più professori (fra cui i ricercatori in prima fila).

Almeno fra i docenti di materie scientifiche (ma certo non solo) l’impegno è cresciuto moltissimo con la riforma ed è stata richiesta una abnegazione che meriterebbe un forte riconoscimento in termini morali ma anche materiali.

Un ulteriore elemento che, fortemente positivo all’inizio per risolvere il problema dell’accumulo di ritardi nelle carriere dei docenti e nel reclutamento dei ricercatori, si è rapidamente trasformato in uno strumento deteriore e in alcuni casi decisamente perverso, è stato il meccanismo dei concorsi con un numero di idoneità (prima tre e poi due) superiore a quello dei posti messi a concorso. Chi scrive ha potuto verificarne di persona quegli aspetti perversi notati sopra.

Torneremo su questo punto nell’ultima parte di queste considerazioni.

Malgrado tutti i non pochi problemi e le non poche criticità segnalate sopra, credo che si possa comunque tranquillamente dire (parlo sempre ed unicamente per le aree scientifiche ma solo perché sono quelle che conosco meglio) che i risultati della riforma sono complessivamente positivi e, anche se so che molti miei colleghi non condividono questo mio ottimismo di fondo, credo che questo permetta di affermare che la riforma se non ha, certo, risolto tutti gli aspetti negativi più seri del sistema universitario VO li ha, almeno, fortemente ridotti.

Vari segnali sono disponibili in questo senso.

Per cominciare, una rassegna a metà corsa (cioè dopo due anni di applicazione della riforma) promossa dalla Conferenza Nazionale Permanente dei Presidi delle Facoltà di Scienze e Tecnologie e realizzata dal coordinatore dei corsi di studio in fisica italiani, la professoressa Josette Immè (Università di Catania) (vedi il sito www.con-scienze.it) ha

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permesso di verificare che nella metà circa degli Atenei che sono stati in grado di fornire risultati analizzabili (fra cui molti piccoli atenei come Ancona, Camerino, Cosenza, Ferrara, Trento, Udine, Varese ma anche non pochi grandi atenei come Bologna, Milano, Padova, Pisa, Roma3 e Torino), la frazione di studenti che hanno superato esami per un consistente numero di Crediti Formativi Universitari (CFU) è assai confortante (tipicamente ≥50%) e che il numero di studenti che non hanno dato nessun esame (assimilabile agli abbandoni) è piuttosto contenuto (tipicamente ≤20%).

In effetti, entrando più nel dettaglio, lo studio disaggrega i dati per classi di laurea e dà informazioni assai interessanti. Per esempio la Figura 2 mostra che nelle classi 21, 25 e 32 (Chimica, Fisica e Matematica) oltre il 65%

degli studenti supera almeno oltre il 50% dei crediti e più del 30% degli studenti acquisiscono oltre il 75% dei crediti. Questi sono segnali complessivamente positivi anche se, probabilmente, da attribuire in parte alla riconosciuta motivazione con cui gli studenti che li scelgono, si iscrivono a questi corsi di laurea.

Figura 2 Indice di successo nelle diverse classi di laurea scientifiche a metà corsa.

I risultati precedenti hanno ricevuto conferma dalle molto più approfondite analisi di Almalaurea usciti nell’autunno 2005 a cui rimandiamo (vedi www.almalaurea.it). Dati

complessivi sui laureati sono anche stati forniti dal CNVSU che, per esempio, nella Tabella 13 del suo Sesto Rapporto sullo stato del Sistema Universitario del 7 Settembre 2005

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fornisce il numero di laureati in corso del NO nell’anno solare 2004. Si tratta di 40707 unità su un totale di 92304 (44.1%) a fronte di 289747 immatricolati tre anni prima con un tasso di regolarità del 14%. Questi valori vanno confrontati con il corrispondenti numeri riferiti ai laureati in corso del VO nell’anno solare precedente 2003. In questo caso si trattava di 8147 unità su un totale di 164375 (5.0%) a fronte di 245225 iscritti 4, 5 e 6 anni prima con un tasso di regolarità del 3%. Si tratta, quindi, in conclusione, di dati positivi anche se, forse, inferiori alle attese.

Recentemente (23 febbraio 2006), Almalaurea ha anche fornito le prime valutazioni per quello che riguarda la condizione occupazionale dei laureati. Quest’ultima, tuttavia, è ancora troppo sbilanciata verso i dati dei laureati VO ed è troppo pesantemente condizionata dalla congiuntura economica sfavorevole per poter essere di reale informazione sui meriti o demeriti complessivi della riforma. Semmai, l’informazione aggiuntiva (non inaspettata) che ne emerge è la conferma che la grande maggioranza dei laureati prosegue gli studi verso la laurea magistrale. Rinviamo, in ogni modo, al sito già segnalato per il necessario approfondimento.

Non vorrei essere frainteso: sicuramente si sarebbe potuto fare meglio (soprattutto con più adeguati mezzi di supporto alla didattica); certamente vi sono i molti aspetti negativi che ho già richiamato e il sistema è molto vicino al limite di rottura. Un segnale molto indicativo, prendendo ad esempio il mio Ateneo, è che le schede di valutazione degli studenti, anche dove esprimono un riconoscimento fortemente positivo al docente indicano, comunque, al 100% e sulle schede relative a tutti i docenti indifferenziatamente che il corso è giudicato troppo gravoso dagli studenti. Malgrado queste forti riserve, non mi sento, comunque, di sottoscrivere la visione totalmente negativa che ho sentito esprimere nei confronti della riforma da molti colleghi soprattutto nelle aree umanistiche.

Bisogna insistere molto sul fatto che il sistema universitario italiano è al limite della rottura. Non si possono richiedere altri sacrifici gratuiti (soprattutto ai ricercatori, pardon, professori aggregati) e senza un adeguato intervento a tempi brevi è difficile immaginare che si possa sostenere a lungo questo ritmo.

Accingendomi a passare la mano come Presidente della Conferenza dei Presidi delle Facoltà di Scienze e Tecnologie ho l’obbligo di

fare con forza questa segnalazione che spero venga recepita e affrontata con coraggio dal Governo che uscirà dalle urne il 9 Aprile (al quale, sia detto per inciso, non invidio il compito che lo aspetta e faccio molti auguri che, credo, sono molto necessari).

CENNI SULLA 270/04: COSA CAMBIERÀ? CONCLUSIONI.

Si sarebbe tentati di rispondere “non molto ma sempre troppo presto” ma, inaspettatamente, forse, non è così vero che non cambierà molto almeno a giudicare dalle ultime varianti introdotte nel DM che accompagna le classi di laurea alle commissioni parlamentari per l’ultimo passaggio legislativo.

Tutta la classe universitaria italiana, credo all’unanimità, ha giudicato troppo affrettata la decisione di rivedere la 509/99 prima che se ne potessero fare le valutazioni di merito che, come abbiamo visto sopra, sono tuttora inadeguate e, comunque, solo oggi cominciano ad essere elaborate. Già nel 2003, invece, è stato avviato un processo di riesame che, partendo dalla discussione e dalla rielaborazione di un documento originalmente predisposto dalla cosiddetta Commissione di Maio, ha portato nel 2004 alla riforma della riforma e cioè alla legge 270/04. A questa approvazione ha fatto seguito la costituzione di 6 Tavoli Tecnici (TT) presieduti da altrettanti Presidenti di Conferenze Nazionali di Presidi delle relative Facoltà Universitarie italiane che sono stati richiesti di discuterne in tempi strettissimi l’applicazione rivedendone le classi di studio e i loro relativi protocolli. A fine gennaio 2005 e cioè, essenzialmente nei tempi accordati ai Tavoli, le proposte sono state presentate dai TT e acquisite dagli Organi Ministeriali. Qui i tempi si sono dilatati in maniera inaspettata e solo alla fine del 2005 si è compiuto l’ultimo passo prescritto, la revisione degli ordinamenti da parte del CUN con il successivo ritorno al Tavolo centrale. Il risultato di queste operazioni è apparso talora in forte contrasto con quanto era stato elaborato dai TT e il DM che, come previsto, ne ha accompagnato la trasmissione finale alle Commissioni delle Camere ha suscitato le proteste di tutte le componenti universitarie dalla CRUI al CUN alle Conferenze dei Presidi per le molte e in certi casi devastanti novità introdotte all’ultimo minuto quali la proposta di riconoscimento obbligatorio integrale dei CFU in una certa

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classe da parte di tutti gli Atenei (e la tanto conclamata Autonomia delle Università?) poi, forse, ridotto agli stessi ambiti, alla libertà concessa (e già rifiutata da tutti) di applicare la nuova legge già dall’AA 2006-2007 per concludere con il disposto di accorpare tutti i diversi esami in non più di 10 (poi diventati 8) esami all’anno. Al di là dei meriti o demeriti comparativi della 270/04 rispetto alla 509/99, queste ultime novità sono apparse a molti come affrettate e non sufficientemente meditate nella loro formulazione ma, forse, l’esperienza insegna che potrà ancora cambiare qualcosa.

Non sono, peraltro, molti gli elementi veramente innovatori introdotti nella 270/04.

Uno è la possibilità del cosiddetto percorso ad Y dove, cioè, dopo 60 CFU in comune, può seguire un percorso più professionalizzante. Un altro, forse anche più rilevante è la scomparsa della disposizione della 509/99 per cui ad una laurea (triennale) seguiva almeno una specialistica e il modello era quello del “3+2”.

Con il nuovo schema, ad una triennale può seguire, almeno in linea di principio, qualsiasi magistrale (eventualmente con debiti formativi) in quello che viene chiamato il modello del “3 e 2”. Detto in parole diverse, mentre con la 509/99 il percorso formativo veniva costruito su 180+120 CFU (300 complessivamente), ore verrà strutturato in due tranches separate, una di 180 e una di 120.

Vi sono altri elementi di una certa rilevanza;

scompaiono, per esempio, gli ambiti che non siano di base o caratterizzanti e questo introdurrà certo più flessibilità.

Peraltro, riferendoci in particolare alle classi di ambito scientifico, compaiono anche elementi di maggiore rigidità. Per esempio, una buona parte delle classi introduce, infatti, SSD (caratterizzanti secondo la 509), già negli ambiti di base, contestualmente aumentando sia il numero di CFU minimi delle basi, sia il numero di CFU dedicati a settori specifici della classe; per es. nella classe L27 sono stati aggiunti 20 CFU di chimica nelle attività di base già dai Tavoli, e lasciati 50 CFU sempre di chimica nei caratterizzanti, per un totale di ben 70 CFU obbligatori nei settori della Chimica, su un totale di 90; per la classe L30 questo maggior vincolo non era presente nella tabella proposta dai Tavoli, ma é comparso dopo la revisione del CUN portando a 70 su 90 i CFU di Fisica; per la classe L34 negli ambiti di base compaiono 12 CFU delle discipline caratterizzanti confermato dal CUN

fissando 63 CFU su 87 totali; nella classe L35 i CFU della disciplina sono 30 CFU di base più 30 CFU caratterizzanti per un totale di 60 su 75 CFU, che, pur rappresentando una percentuale alta, in assoluto é sempre un numero inferiore a quello delle altre classi citate; nella classe L13 compaiono 24 CFU negli ambiti di base e 30 CFU (Tavoli Tecnici) negli ambiti caratterizzanti per un totale di 54 CFU su 90 portati a 24 CFU più 42 CFU dopo il CUN per un totale di 66 CFU su 90.

Invece nella classe L9 ingegneria industriale, che si presta per sua natura a realizzare ordinamenti differenti nella stessa classe, questa variazione di filosofia rispetto alla 509 non é statia introdotta, indicando solo 45 CFU delle discipline della ingegneria negli ambiti caratterizzanti su un totale di 81 CFU.

Maggiori vincoli sono stati introdotti, rispetto alla 509, dove si specifica, a volte con grande dettaglio, quanti CFU devono essere riservati nelle attività caratterizzanti ai singoli ambiti disciplinari: per esempio, nella classe L27 i 50 CFU caratterizzanti sono suddivisi in 4 ambiti completamente specificati (10 +20 +5 +15); nella classe L13 i 42 CFU caratterizzanti sono suddivisi in tre ambiti (12 + 12 + 9) che specificano 33 CFU su 42;

nella classe L30 invece i 50 CFU sono suddivisi in 4 ambiti senza specificazione;

nella classe L9 non compare alcuna specificazione di CFU per ambito.

Si tratterà, comunque di vedere quale sarà il risultato dopo l’approvazione (imminente, se non già avvenuta) da pare delle Commissioni parlamentari per verificare se alcune delle distorsioni serie introdotte in fase di trasmissione alle medesime saranno corrette come si spera.

Un ultimo punto che non è direttamente collegato alla riforma e cioè all’approvazione della 270/04 ma che è destinato ad influire pesantemente, nel bene e nel male (chi dice più nel male che nel bene) sulla vita degli Atenei è la normativa sullo stato giuridico dei docenti universitari che è stata approvata con la 230/04 una volta di più con l’opposizione (quasi) compatta del mondo accademico e sulla quale non mi soffermerò sia perché, come ricordato sopra non è direttamente collegato alla riforma (se non, per esempio, per aver modificato il sistema del reclutamento che viene riportato ad essere su base nazionale e speriamo che non si ripropongano i gravissimi ritardi del VO) sia e soprattutto, perché la sua disamina richiederebbe un articolo ad essa dedicato e,

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ancora più, per le veementi polarizzazioni (quasi tutte negative, devo dire, ma non proprio tutte) che essa ha prodotto.

Solo il tempo ci dirà se questo complesso di riforme (e di riforme delle riforme) darà un esito positivo oppure negativo ma,certo, se da un lato gli spazi per l’ottimismo sono molto pochi, è anche indubitabile che il sistema ha bisogno di una certa stabilità.

Quindi, mentre da un lato si deve sperare che il prossimo futuro permetta di correggere

qualcuna delle storture e delle criticità già verificate o che saranno verificate, è in ugual misura da sperare che il sistema non venga sottoposto a stravolgimenti ulteriori che potrebbero essergli fatali.

Il paese ha bisogno di una forte iniezione di ottimismo da un lato ma di risorse dall’altro che gli permettano di affrontare una sfida che non avrà appello verso la modernizzazione cui solo l’innovazione scientifica (alla lunga) potrà permettergli di arrivare.

ENRICO PREDAZZI

Preside della Facoltà di Scienze MFN dell'Università di Torino dall'A.A. 2000/01 e Presidente della Conferenza Nazionale dei Presidi delle Facoltà di Scienze. Laureato in Fisica nel 1958, professore ordinario di Fisica Teorica all'Università di Torino dal 1976; attività di ricerca scientifica nel campo della fisica teorica delle particelle elementari e della Meccanica Quantistica. È autore di oltre 260 pubblicazioni, di tre libri di ricerca in inglese e di due di didattica in italiano. È membro dell'Accademia delle Scienze di Torino dal 1994. Ha ricoperto numerosi incarichi di organizzazione-direzione della ricerca anche presso l'INFN (Istituto Nazionale di Fisica Nucleare).

Contatti:

Università di Torino V. P Giuria 15 10125 Torino

Tel. +39.011.6707869 Fax: +39 011.6707895 Email: predazzi@to.infn.it

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