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gennaio marzo 2014
La condizione postumana
a cura di Giovanni Leghissa
Premessa 3
Giovanni Leghissa Ospiti di un mondo di cose. Per un rapporto postumano
con la materialità 10
Roberto Marchesini Alla fonte di Epimeteo 34 Marina Maestrutti Potenziati ma inadatti al
futuro. Dal cyborg felice al cyborg virtuoso 52 Davide Tarizzo Al di là del principio di realtà:
sulla Vita Artificiale 72
Rocco Ronchi Figure del postumano. Gli zombi, l’onkos e il rovescio del Dasein 82 Francesca Gruppi Animal symbolicum e uomo
toolmade. Hans Blumenberg tra umanesimo
e postumanesimo 97
Fabio Minazzi “Salire sulle proprie spalle”?
Simondon e la trasduttività dell’ordine
del reale 110
Antonio Lucci Primi passi nel Postum(i)ano 130 Francesco Monico Premesse per una costituzione
ibrida: la macchina, la bambina automatica
e il bosco 144
Fabio Polidori Di un sintomo e alcune
appartenenze 164
VICINO/LONTANO
Stefano Moriggi, Raffaele Simone Il sapere
nella rete 181
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Finito di stampare nel marzo 2014
Premessa
S iamo sicuri di sapere cosa sia l’umano?
Disponiamo di definizioni condivise dell’u- mano? Utili non solo in sede scientifica, ma anche tali da permettere la costruzione di una piattaforma etica condivisa? E ancora: siamo sicuri di aver fatto i conti fino in fondo con la tradizione dell’umanesimo, la quale ci consegna in eredità non solo immagini obsolete dell’umano, a volte addirit- tura politicamente sospette (perché non universalizzabili, perché troppo eurocentriche, o addirittura perché francamente razziste), ma anche gli unici strumenti concettuali di cui poter disporre per condurre a termine un’efficace critica dell’umano, ovvero una riflessione capace di unire la conoscenza di ciò che l’uomo è alla comprensione di ciò che l’uomo potrebbe – o dovrebbe – essere?
Rispondere affermativamente con troppa fretta potrebbe
costare caro. E non perché l’umanesimo, comunque lo si voglia
considerare, è il luogo della nostra provenienza; nemmeno perché
non si può essere così avventati – e ingenui – da credere che, una
volta preso congedo dall’umanesimo, si disponga di un’alternativa
a esso, di un dispositivo concettuale e metaforico bell’e pronto,
capace di aiutarci a pensare l’umano in termini completamente
nuovi. Ma perché forse significherebbe che si è compiuta la para-
bola di quel modo di fare filosofia che tenta, con alterne vicende,
di mettere a tema la posizione del soggetto che pensa mentre questi
si rapporta al pensato, mentre accede alla concettualità del pensato
in quanto tale. A molti non dispiace ritenere che tale parabola sia
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conclusa. In fondo, basta far coincidere la filosofia con la scienza e il gioco è fatto. Voilà, ecco che in quel caso ci si ritrova a riflettere sull’attività del pensare guardandola dal di fuori, da un punto di vista che ha i tratti del fondamento inconcusso. Ma, con buona pace di teologi e amanti di una filosofia scientifica, c’è ancora chi si ostina a ritenere essenziale per le sorti della filosofia la volontà di porre il cominciamento là dove questo incrocia l’umano, non per far coincidere il cominciamento con la finitezza del soggetto, ma per permettere al cominciamento di essere quel che è, ovvero confronto necessario con la contingenza.
Le precisazioni appena compiute dovrebbero illuminare il senso che si vuole conferire al tentativo espresso in questo fasci- colo: esplorare le potenzialità filosofiche di una possibile teoria del postumano. Possibile perché in fondo ancora da costruire – e ancora da definire in modo preciso, soprattutto rispetto a quelle posizioni che del “postumano” hanno già fatto un’etichetta, una bandiera, capace di mobilitare risorse (anche accademiche). Per dirla in modo ancora più netto: se ci rifiutiamo di prendere con- gedo troppo in fretta dall’umanesimo, e se crediamo che questa prudenza sia connessa alla volontà di mantenere uno sguardo vigile sulle condizioni di possibilità della pratica filosofica, allora non possiamo imbarcarci sulla nave di un postumanesimo che è supposto sapere dove si trovi l’Eldorado di una condizione uma- na migliore – migliore perché libera da ogni zavorra umanistica, migliore perché già capace di incarnare il senso di un’ulteriorità contenente le più belle e allettanti promesse di emancipazione. Del resto, se ci sono fondate ragioni per nutrire un qualche sospetto nei confronti dell’umanesimo tradizionale, ciò avviene anche perché quest’ultimo ha spesso unito le proprie sorti a quelle dei profeti che annunciavano l’arrivo di una qualche fine, di una qualche apocalisse, di un qualche “post” – e questi profeti, a volte, si sono rivelati complici dei peggiori regimi totalitari della storia.
Ma allora di quale “postumano” vorremmo parlare qui? In
modo diverso, con accenti diversi, con riferimenti a declinazioni
diverse, in alcuni casi con un esplicito richiamo ad alcune delle
posizioni che hanno reso possibile l’affermarsi di un discorso sul
postumano in anni a noi vicini, gli articoli presenti in questo fa- scicolo tentano di tracciare una mappa, che si vuole provvisoria, di una specifica costellazione teorica. Provo, di seguito, a fornire una descrizione di tale costellazione.
Ricordiamo innanzi tutto ciò che si associa nel modo più ovvio e banale alla nozione di postumano: il riferimento alla dimensione del cyborg, all’impiego delle nuove tecnologie per uscire da una conditio humana segnata da caducità, finitezza, debolezza, fragilità.
È la letteratura fantascientifica – spesso con esiti visionari – ad aver proposto per prima questa peculiare declinazione della questione.
In riferimento agli scenari orrorifici che a volte popolano il mondo della science fiction si è svolta una parte del dibattito sugli esiti di molte trasformazioni dell’umano che vorrebbero sostituire l’u- manità così come la conosciamo con qualcosa che rimanda a una dimensione qualificabile come “postumana” nel senso di “meglio che umana”. Al sospetto di chi associa l’enfasi sull’enhancement ai prodromi di una società totalitaria si sono contrapposte le voci di chi, utilizzando invece la carica utopica ed eversiva che altre volte caratterizza la science fiction, ha salutato nel tema del cyborg l’avvento di una nuova era, in cui sia possibile disfarsi di vecchie concezioni etichettate come veteroumanistiche per far strada a una visione dell’umano dai tratti fortemente emancipativi.
Ma non è solamente da questo ambito di discussioni che vale la pena trarre spunto per cogliere la portata, sia politica che filosofi- ca, della questione. Altrettanto gravida di conseguenze, infatti, è quella declinazione della nozione di postumano che rimanda alla possibilità di vivere in un mondo che non pone l’uomo quale unico custode della casa dell’essere, ma colloca l’uomo sullo stesso piano sia degli altri viventi che delle cose, degli oggetti inanimati. In un mondo del genere siamo vissuti da sempre: ma si è fatto finta, per così dire, che la divisione tra umani e cose da un lato, tra umani e altri esseri viventi dall’altro, fosse così ovvia e così scontata da non richiedere alcuna messa in questione.
Varie tradizioni di pensiero novecentesche, per la verità, hanno
affrontato la questione della deantropologizzazione, intesa come
messa in discussione della presunta posizione centrale e domi-
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nante che l’uomo occuperebbe sul pianeta che condividiamo con gli artefatti e con l’insieme degli enti naturali (animali compresi).
Tuttavia, sarebbe poco produttivo limitarsi a sottolineare le con- tinuità – che pure ci sono – tra la declinazione del postumano a cui si vuole qui fare riferimento e le filosofie novecentesche che hanno voluto porre sotto accusa l’umanesimo tradizionale e la volontà che lo animava di considerare intangibile la presunta superiorità dell’umano all’interno della grande catena dell’essere.
Forse, allora, siamo già in grado di descrivere i passi ulteriori che resterebbero da compiere – consapevoli, come dovrebbe essere chiaro da quanto detto sopra, dei rischi che ciò comporta.
Il primo passo va in direzione di un posizionamento radicale dell’umano entro la dimensione dell’animalità – e qui l’uso dell’ag- gettivo “radicale” non è enfatico: si tratta di negare la possibilità che vengano offerte spiegazioni non naturalistiche della storia umana e dei significati che all’interno di questa vengono prodot- ti. Animale tra altri, peculiare certo – e unico – perché animale parlante e desiderante, ma pur sempre animale, l’uomo potrebbe in tal modo cominciare a leggere la propria storia nell’ottica di un darwinismo dotato di valenze quasi-trascendentali, che dialoga con gli esiti della psicologia evolutiva, ma ne supera anche certe ristrettezze (alcune delle quali francamente regressive dal punto di vista politico). Si tratta in altre parole di leggere la storia umana come storia naturale, come deep history, che comincia ancor prima del Paleolitico, e che si srotola non nel senso delle magnifiche sorti e progressive, ma si declina come processo mai concluso (costi- tutivamente mai concluso) di ominizzazione. Il che lascia aperta la possibilità di una prossima (seppur lontanissima) mutazione di specie – o perlomeno di una uscita dall’orizzonte neolitico nel quale siamo ancora immersi (dominio maschile, esito bellico e militare dei conflitti intraspecifici, dieta carnea, relazioni apotropaiche con i defunti, culto di divinità e/o di potenze extracorporee).
In stretta correlazione con il primo passo, ve n’è un secondo,
che mira a declinare il “postumano” entro una cornice etica volta
a giustificare un rapporto paritetico con le altre specie. Da tempo
la filosofia discute la possibilità di accordare diritti agli animali. La
prospettiva postumanistica in realtà sposta lo sguardo in un’altra direzione, che in qualche modo sembra precedere la questione – pur centrale e decisiva – del diritto. Si tratterebbe qui di pensare all’animale come vero e proprio simile, come compagno di strada, come coabitatore del mondo. Non per ecologismo (se trattiamo male le altre specie alla fine danneggiamo anche noi stessi) né per amore o compassione verso tutti gli esseri senzienti. È la presa di coscienza della propria animalità ciò che dovrebbe spingere l’uomo a intrattenere un diverso rapporto con l’animale. Il che comporta però uno sforzo di riconcettualizzazione dell’intera questione, che comincia con una decostruzione del modo in cui la tradizione ha pensato la dicotomia animale/uomo e finisce con la proposta di una nuova articolazione semantica di cui dotarsi per definire il sistema delle differenze tra animali di specie diverse.
L’ultimo passo, infine, sarebbe quello in virtù del quale la nozio- ne di “postumano” indica la possibilità di un’accoglienza ospitale dell’artefatto, del cosale, dell’oggettuale. Qui è in gioco la messa in questione della infinita produttività dell’umano o del naturale (il che è lo stesso: l’homo faber è tale perché imita la natura). Una volta che sia possibile prendere congedo da una concezione che relega sia i manufatti che gli oggetti inanimati a meri prodotti (i quali alla fine si riducono sempre a prodotti di scarto, a rifiuti di una ciclicità del produrre virtualmente infinita), si fa strada l’idea di una democrazia della natura, che vede gli oggetti come parte integrante del nostro universo non solo cognitivo ma anche affettivo ed emotivo. Da qui la possibilità di ripensare il sociale come ambiente in cui umani e artefatti (e, ovviamente, animali) interagiscono formando vari livelli di realtà – uno dei quali, che non potremmo definire più come “il più alto”, anche se per noi resta quello più importante, è costituito dalla capacità umana di osservare il mondo e di descriverlo usando le parole.
Ora, va subito precisato che gli articoli presenti nel fascicolo
non coprono nella sua interezza la costellazione di temi e sugge-
stioni appena delineata. Si tratta di avvicinamenti nella direzione
che qui si suggerisce. In apertura, è presente una riflessione sulla
dimensione del cosale e dell’oggettuale intesa quale sfera in cui
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da sempre è immerso il processo di ominizzazione (Giovanni Le-
ghissa). Roberto Marchesini, che ha contribuito con i suoi lavori
in maniera decisiva ad avviare una riflessione seria sul tema del
postumano, interroga senso e portata di una prospettiva filosofica
che intende coinvolgere assieme temi etici ed epistemologici e che
si presenta capace di ridefinire i confini disciplinari all’interno dei
quali poter affrontare in modo inedito la posizione dell’umano tra
le specie viventi. Non manca una disamina dei modi attraverso i
quali la tematica del postumano si è intrecciata a quella del poten-
ziamento, inteso come superamento dei limiti che caratterizzano
un ente finito e vulnerabile come l’uomo – superamento che a
tratti si presenta connotato in termini quasi escatologici (Marina
Maestrutti). Se si interroga il senso della vita, dell’elemento vitale,
che la nozione di postumano mette necessariamente in gioco, non
si può trascurare né la complessità di questa nozione – o, meglio,
la sua non immediata maneggiabilità – né la fitta rete di relazioni
in cui essa è inserita. Il fatto di pensare che una filosofia del post-
umano possa iniziare il proprio percorso a partire da una nozione
di “vita” non discutibile perché neutra, perché in qualche modo
già chiara e fruibile, sarebbe infatti non solo cifra di una notevole
ingenuità, ma si presterebbe anche a divenire veicolo di posizioni
politicamente assai discutibili (Davide Tarizzo). Parimenti effi-
cace ci è parso interrogare le soglie tra il vivente e il non vivente
che il discorso sul postumano comporta. Per farlo, si è ricorso a
un’indagine che sonda quali effetti – non solo di straniamento –
si ottengano esplorando i processi di soggettivazione attraverso
la messa in gioco di una categoria come quella di zombi (Rocco
Ronchi). Sono presenti saggi che contribuiscono a inquadrare
l’apporto che può venire da autori come Blumenberg (Francesca
Gruppi) o Simondon (Fabio Minazzi). Si tratta di autori che non
hanno certo svolto le loro riflessioni in vista di una teoria del
postumano, ma la loro opera ci è parsa costituire un punto di
partenza imprescindibile in tale direzione. Più in generale, non
poteva mancare una ricognizione del modo in cui il discorso sulla
postumanità attraversi vari momenti della riflessione filosofica
contemporanea, seguendo un percorso che parte dall’antropologia
filosofica e dall’etologia lorenziana per giungere fino al pensiero
di Peter Sloterdijk (Antonio Lucci). Si è anche cercato di porre
attenzione alla riformulazione a cui vanno sottoposte le categorie
in virtù delle quali concepiamo l’agentività – in particolare se legata
alla nozione di standing – non appena si voglia prendere sul serio il
suggerimento, avanzato tra gli altri da Bruno Latour, secondo cui
le categorie della modernità si rivelerebbero oggi insufficienti per
definire i confini dell’arena politica (Francesco Monico). Infine,
non poteva mancare una presa di posizione a tratti anche molto
critica verso la stessa nozione di “postumano”, che mettesse in
luce i rischi, ai quali si è fatto cenno all’inizio, di un’assunzione
troppo entusiastica, troppo celebrativa, in fin dei conti ingenua,
del programma postumanista (Fabio Polidori). [G.L.]
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aut aut, 361, 2014, 10-33Ospiti di un mondo di cose.
Per un rapporto postumano con la materialità
GIOVANNI LEGHISSA
1. Forme della postumanità
Per lungo tempo, la riflessione filosofica ha articolato la questione della posizione dell’uomo nel cosmo come se questa potesse esse- re una posizione di assoluto e indiscusso privilegio. Privilegio nei confronti dell’animale non umano, e privilegio nei confronti della sfera popolata dalle cose materiali. Del primo aspetto, che merita una decostruzione a parte, non mi occuperò in questa sede.
1Cer- cherò invece di proporre valide alternative alla tesi secondo cui gli umani, in virtù della loro costituzione ontologica, siano in grado di porsi in un rapporto con la cosalità che renda questa o un ambito in cui ergersi quali padroni capaci di esercitare un dominio, oppure un ambito caratterizzabile come assolutamente esteriore rispetto all’umano che con essa si mette in relazione. Vorrei suggerire che il mondo delle cose e degli artefatti vada invece collocato sullo stesso piano in cui l’animale uomo esperisce la propria storicità,
1. La prospettiva postumanistica inaugura sia un nuovo modo di concepire l’animalità dell’uomo, intesa come unico orizzonte entro il quale comprendere l’azione umana, sia un nuovo modo di concepire i rapporti tra homo sapiens e gli animali di altre specie. Si tratta di una prospettiva che acquista senso e diventa plausibile solo se va di pari passo con un profondo rimescolamento delle carte in seno all’enciclopedia, rimescolamento che pone la teoria darwiniana là dove abitualmente si colloca il fondamento del sapere. Ma prima di intraprendere tale opera di sovversione, sarebbe necessario decostruire quei postulati in base ai quali il soggetto umano (il solo in rapporto al quale abbia senso articolare la questione della fondazione) viene concepito come ciò che esclude l’animalità. Non potendo qui ap- profondire la questione, mi limito a segnalare il fatto che tale opera di decostruzione viene magistralmente svolta in J. Derrida, La Bestia e il Sovrano. Volume
I(2001-2002) (2008), trad.
di G. Carbonelli, Jaca Book, Milano 2009, e Id., La Bestia e il Sovrano. Volume
II(2002-2003)
(2009), trad. di G. Carbonelli, Jaca Book, Milano 2010.
e identificherò in questa tesi una componente essenziale di una prospettiva filosofica di tipo postumanistico.
In apertura, vorrei evidenziare uno degli aspetti epistemologi- ci apparentemente paradossali di tale tesi, poiché si tratta di un aspetto che mi pare caratteristico di qualunque filosofia del post- umano. Se da una parte si suggerisce di prendere congedo dall’idea secondo cui essere umani sia in sé e per sé un segno di distinzione o di superiorità, in virtù del quale si può guardare con sufficienza sia all’animalità di tutte le specie viventi (compresa l’animalità di homo sapiens), sia alla muta materialità delle cose, l’atteggiamento postumanistico non comporta tuttavia un abbandono, bensì una rilettura del principio secondo cui l’uomo sarebbe la misura di tutte le cose (Platone, Teeteto, 152a). Il paradosso qui evocato, dicevo, è apparente. Il motto protagoreo va in primis inserito nel quadro di un “darwinismo trascendentale” volto a collocare la teoria dell’e- voluzione alla base di qualunque progetto enciclopedico.
2Fatto questo passo, diventa improponibile postulare una qualsivoglia superiorità dell’ente umano, tale da fargli occupare, rispetto agli altri enti, la posizione dell’osservatore privilegiato, distaccato, non partecipe – posizione di cui il soggetto trascendentale, per certi versi, è stato la proiezione fantasmatica. Il motto, allora, potrebbe venir così formulato: l’uomo, in virtù delle strutture cognitive di cui si è dotato nel corso della propria evoluzione biologica, si pone come il solo osservatore in grado di conferire senso a quell’insieme di fenomeni che le suddette strutture cognitive rendono visibili.
Presente già in un autore per molti versi estraneo al mainstream filosofico come Lorenz,
3questa linea di pensiero non comporta semplicemente un abbandono della prospettiva trascendentale, né comporta una ingenua naturalizzazione della stessa. Si tratta, più profondamente, di prendere sul serio il fatto che il mondo che appare a un rettile (tanto per nominare un vertebrato a noi filoge-
2. Qui non mi soffermo sui dibattiti interni alla teoria dell’evoluzione, per una disamina dei quali rimando a K. Sterelny, La sopravvivenza del più adatto. Dawkins contro Gould (2001), trad. di T. Pievani, Raffaello Cortina, Milano 2004.
3. Cfr. K. Lorenz, L’altra faccia dello specchio (1973), trad. di C. Beltramo Ceppi, Adelphi,
Milano 1991.
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neticamente prossimo) non ha le stesse caratteristiche del mondo che appare a homo sapiens – pur restando, ontologicamente, lo stesso mondo.
4E, parimenti, si tratta di riconoscere che la scienza, se interpretata quale insieme di dispositivi che rendono visibile il reale (o, meglio, dispositivi che aprono, in modi diversi, campi di visibilizzazione entro cui collocare determinate classi di oggetti), non si pone al di fuori del processo che porta alla costituzione di homo sapiens, ma è parte integrante di esso – al punto che si potreb- bero svolgere interessanti considerazioni sull’analogia istituibile tra le procedure con cui opera la scienza per costruire i propri campi oggettuali e il modo in cui le specie viventi si evolvono interagendo con l’ambiente che le ospita.
5Ora, l’osservazione preliminare appena esposta non è estranea al senso delle riflessioni che seguono, in quanto una filosofia volta a ripristinare il ruolo dell’oggettuale nel processo di costituzione dell’umano va di pari passo con quelle riflessioni sul costituirsi del sapere scientifico secondo le quali le teorie in base a cui costruiamo le ipotesi che guidano il processo della scoperta si collocano allo stesso livello in cui operano quei dispositivi tecnici senza i quali nessuna azione potrebbe avere luogo in un laboratorio di fisica o di chimica. Si tratta insomma di capire che non c’è soluzione di
4. Mi rendo conto che qui sarebbero necessarie precisazioni di ben più ampia portata. In questa sede, tuttavia, mi limito alla seguente osservazione. È opportuno distinguere tra atti del giudizio e giudizi. I secondi si riferiscono sempre al mondo in quanto “unità oggettuale totale che corrisponde al sistema ideale di ogni verità di fatto ed è da esso inseparabile” (E.
Husserl, Ricerche logiche, 1900-1901, a cura di G. Piana, il Saggiatore, Milano 1988, vol.
I, p. 135 [
HUAXVIII, 121]). Dire che vi è un unico mondo significa allora riferirsi al referente ultimo di quel sistema di tutti i giudizi possibili che hanno la proprietà di essere validi in- dipendentemente dagli atti di giudizio effettivamente compiuti. Se invece ci muoviamo sul terreno in cui vengono effettuati questi ultimi, appare assai poco sensato prescindere dalle strutture cognitive, evolutesi nel corso della storia naturale, di cui è dotato un soggetto in grado di formulare giudizi.
È chiaro che tutto ciò comporta anche una ridefinizione del trascendentale e della sua funzione in seno all’argomentazione filosofica. In questa direzione si è mosso con grande acume Hans Blumenberg, un autore che difficilmente si può fare a meno di evocare se si discute la questione della postumanità. Cfr., in particolare, H. Blumenberg, Beschreibung des Menschen, a cura di M. Sommer, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 2006.
5. Cfr. K. Popper, Conoscenza oggettiva. Un punto di vista evoluzionistico (1972), trad.
di A. Rossi, Armando, Roma 1975; D.T. Campbell, Epistemologia evoluzionistica (1974),
trad. di M. Stanzione, Armando, Roma 1981.
continuità tra un chopping tool preistorico, senza il quale l’uomo non si sarebbe evoluto fino al punto da articolare il linguaggio,
6e quanto serve a un fisico per svolgere il suo lavoro, dall’accelera- tore di particelle all’equazione di Schrödinger – elementi, questi ultimi, che vengono qui posti sullo stesso piano, visto che la teoria pura è parte integrante di un insieme che comprende dispositivi tecnici, software per elaborare dati, codici, culture condivise da una comunità scientifica data, frammenti di altre parti dell’enciclope- dia.
7Per dirla in modo ancora più chiaro: costruite dall’uomo, le teorie servono a migliorare la prassi adattativa; ma nessuna prassi costruttiva a livello teorico si può svolgere senza intrecciarsi con la manualità del costruire artefatti, e né l’una né l’altra prescindono dal fatto che l’interazione con l’ambiente è, prima di tutto, interazione con oggetti materiali.
2. Heidegger e Latour: il pensiero dell’oggettuale dalla filosofia alla sociologia delle reti
Per la verità, sono registrabili alcuni luoghi in cui la riflessione novecentesca sull’umano ha messo in luce, almeno parzialmente, in che senso ogni processo di individuazione risulti inconcepibile se si prescinde dal rapporto con l’oggetto materiale.
8A titolo di esempio, merita considerare innanzi tutto un paio di luoghi tratti dal pensiero di Heidegger, un autore la cui opera, complessivamen-
6. Cfr. le ormai classiche riflessioni sul tema svolte in A. Leroi-Gourhan, Il gesto e la parola (1964-65), vol.
I: Tecnica e linguaggio, vol.
II: La memoria e i ritmi, trad. di F. Zannino, Einaudi, Torino 1977.
7. Cfr. I. Hacking, L’autogiustificazione delle scienze di laboratorio, in A. Pickering (a cura di), La scienza come pratica e cultura (1992), trad. di L. Paglieri, Edizioni di Comunità, Torino 2001, pp. 33-75.
8. Mi limito a segnalare in nota alcuni testi, osservando che ciascuno di essi meriterebbe una disamina a parte al fine di ricostruire una sorta di genealogia di un possibile pensiero della materialità: G. Simondon, Du mode d’existence des objets techniques (1958), Aubier, Paris 2001; J. Baudrillard, Il sistema degli oggetti (1968), trad. di S. Esposito, Bompiani, Milano 2004;
M. Sahlins, Cultura e utilità (1976), trad. di B. Amato, Bompiani, Milano 1982; M. Douglas, B. Isherwood, Il mondo delle cose (1979), trad. di G. Maggioni, il Mulino, Bologna 1984; P.
Bourdieu, La distinzione. Critica sociale del gusto (1979), trad. di G. Viale, il Mulino, Bologna
1983; A. Appadurai (a cura di), The Social Life of Things. Commodities in Cultural Perspective,
Cambridge University Press, Cambridge 1986; F. Orlando, Gli oggetti desueti nelle immagini
della letteratura. Rovine, reliquie, rarità, robaccia, luoghi inabitati e tesori nascosti, Einaudi,
Torino 1994
2; B. Brown (a cura di), Things, University of Chicago Press, Chicago 2004.
34
aut aut, 361, 2014, 34-51Alla fonte di Epimeteo
ROBERTO MARCHESINI
I l problema dell’identità, che alla fine dell’Ot- tocento catalizzava sull’individuo e sull’e- spressione della soggettività il proprio focus di problematicità – si pensi alle tematiche proustiane sulla vulnera- bilità del lavoro aggregativo della memoria1 o a quelle di Pirandello sull’incertezza del profilo nei contesti sociali e relazionali
2 – lungo tutto il Novecento ha investito la condizione umana nella sua glo- balità, ponendo al centro la questione antropologica ancor prima che quella psicologica.
L’erosione di un limes, che nelle espressioni umaniste appariva nitido e sicuro, avveniva sotto l’influenza di una pluralità di fattori:
l’azzeramento di alcuni operatori disgiuntivi antropotropici come le dicotomie “natura vs cultura”, “uomo vs animale”, “biologico vs macchinino”; la crescente messa in mora dell’antropocentrismo a seguito dello sviluppo del pensiero darwiniano, nel definire per l’uomo uno spazio di parzialità adattativa ovvero non di univer- salismo e parimenti nel creare un’interfaccia di commercio e di prossimità con gli altri animali; la modificazione del corpo ope- rata dalla declinazione tecnomorfica, portata a ridefinire i canoni estetici che da antropoplastici assumono sempre di più profili derivali ossia disgiuntivi rispetto al modello vitruviano, verso un
1. M. Proust, Alla ricerca del tempo perduto (1913-27), trad. di M.B. Bertini, Einaudi, Torino 1966.
2. L. Pirandello, Il fu Mattia Pascal (1904), Einaudi, Torino 2005.
sublime tecnologico e un bello teriomorfico. Da tutto questo e da altro ancora emerge quella riflessione sul futuro dell’uomo che siamo soliti chiamare questione postumana, che non indica di per sé l’uscita dell’uomo dalla dimensione umana quanto piuttosto una riflessione sull’evoluzione della condizione umana, intesa quest’ultima non tanto come semplice appartenenza di taxon bensì come “modo di esserci” nei parametri intenzionali, relazionali, di interfaccia, declinativi e performativi.
Sulla questione postumana diverse possono essere le posizioni filosofiche di interpretazione, ancor prima che di giudizio; nel mio saggio Post-human
3ho distinto una posizione iperumanista, por- tata a ritenere la techné come fureria tecnopoietica a disposizione dell’essere umano per rendere finalmente concreti e raggiungibili gli obiettivi elevativi e disgiuntivi propri della proposta umanista pichiana, da una posizione postumanista che, viceversa, considera la techné un canale di comunicazione e di congiunzione con le alterità e un volano che antropodecentrando favorisce la capacità di assumere una posizionalità meno parziale e più critica.
Da questo si può evincere chiaramente una differenza netta tra la questione postumana e la filosofia postumanista, che spesso non solo vengono confuse ma banalmente si considera la prima come il frutto delle ellissi tecnologiche in essere e futuribili, e la seconda la sua elegia celebrativa. Gli argomenti messi sul tavolo di discussione dalla filosofia postumanista ci chiedono prima di tutto di sospendere per un attimo le fantasmagorie di certa pub- blicistica – basate su programmi di emancipazione dal biologico, trasmigrazione in dimensioni eteree, esistenze in iperurani infor- matici, diaspore della specie in multiformi biotipi, performatività iperboliche, accessi alla vita eterna – che catalizzano l’attenzione sui loro accenti pindarici ma non aiutano a comprendere le vere questioni in campo. Rischiamo di confinare i termini del problema all’interno della dimensione stuporosa, ovviamente polarizzando gli astanti in tecnofili e tecnofobi, rimettendo poi a un improvvisato
3. R. Marchesini, Post-human. Verso nuovi modelli di esistenza, Bollati Boringhieri,
Torino 2002.
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giudizio etico questioni che andrebbero prima di tutto esaminate sotto il profilo ontologico ed epistemologico, all’interno di una cornice interpretativa ben più complessa.
Innanzitutto il termine postumanistico va chiarito e contrad- distinto rispetto ai programmi più o meno fantasiosi di transuma- nazione e ai cosiddetti “progetti postumani”, attribuibili più alla fantascienza che all’analisi filosofica. Il fatto è che la proiezione fantascientifica ha a che fare con il presente, è transrealista – per utilizzare le parole dello scrittore Rudy Rucker
4–, vale a dire è portata a cogliere e a esprimere gli spazi-del-possibile situati oltre la superficie del reale stesso.
La fantascienza porta in evidenza i campi virtuali in essere nel presente, per cui negli anni sessanta, abbacinati dai missili spaziali, immaginavamo per il “Duemila” viaggi interplanetari alla portata di ciascuno e non eravamo in grado di prevedere la rivoluzione digitalica. Questo significa che a oggi è impossibile dire quali delle proiezioni in essere – ciò che abbiamo definito come contenuti transreali – si potranno avverare e quali eventi imprevedibili al contrario andranno a dare una connotazione specifica al futuro che ci attende. Mettiamo perciò tra parentesi il luna park tecno- fantasioso e cerchiamo di perimetrare le coordinate di pensiero al cui interno si muove la filosofia postumanista.
Con il termine di “postumanismo” intendiamo una matrice di pensiero che non si pone in antitesi all’umanismo ma come rivisitazione di questo – non è un antiumanismo – definendo alcuni aspetti di cui si propone come continuatore e acceleratore e altri che viceversa vengono rigettati in quanto considerati non più pertinenti nel milieu culturale che si è venuto a configurare soprattutto a partire dalla seconda metà del XIX secolo. Rispetto ai punti in comune tra postumanismo e umanismo, vanno ricordati:
la considerazione diacronica dell’identità e la collocazione storica dell’autore, la differenza tra dimensione di specie e condizione umana, l’individuazione nella cultura del volano antropopoietico,
4. R. Rucker, Filosofo cyberpunk (2000), trad. di G. Carlotti, Di Renzo, Roma 2000.
Potenziati ma inadatti al futuro.
Dal cyborg felice al cyborg virtuoso
MARINA MAESTRUTTI
T i posi nel mezzo del mondo, perché di là meglio tu scorgessi tutto ciò che è nel mondo. Non ti ho fatto né celeste né ter- reno, né mortale né immortale, perché di te stesso quasi libero e sovrano artefice ti plasmassi e ti scolpissi nella forma che avresti prescelto.”1 Queste parole, tratte dall’Oratio de hominis dignitate di Giovanni Pico della Mirandola, descrivono una concezione moderna del rapporto dell’umanità con il mondo che lascia all’iniziativa umana il compito di tracciare un percorso tra le pos- sibili forme di esistenza. In un libro recente, Francesco Remotti definisce il “fare umanità” come l’azione di un’“antropopoiesi”, di un modellamento di sé e del mondo che comporta sia progetti programmati e intenzionali che azioni e interventi inconsapevoli.
L’idea feconda e stimolante di Remotti è che “da un lato tutti ‘noi’, esseri umani, siamo tenuti, quasi ‘condannati’, a costruire, in un modo o nell’altro, umanità, ma dall’altro lato c’è una forte carenza di mezzi, di idee, di condizioni, di strumenti”.
2Questo work in progress produce spesso situazioni in cui i modelli e le realizzazioni si traducono in drammatici fallimenti, soprattutto nei momenti in cui sembra che il modello sia più certo, più perfetto, la realizza- zione più completa. La domanda importante è, infatti, quella su
1. G. Pico della Mirandola, Oratio de hominis dignitate (1486), trad. di E. Garin, Studio Tesi, Pordenone 1994, p. 7.
2. F. Remotti, Fare umanità. I drammi dell’antropo-poiesi, Laterza, Roma-Bari 2013, p.
V. Per un approfondimento del concetto di antropopoiesi, si rinvia in particolare al capitolo
II.
“
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chi debba “fabbricare l’umano”,
3e se il modello della fabbrica e dell’ingegnere che ne progetta la produzione sia il più adatto. O se invece non sia più saggio scegliere il modello artigianale, anzi
“amatoriale”, quello del bricoleur. Il bricoleur, che Claude Lévi- Strauss considera l’esperto della “scienza del concreto”,
4è colui che utilizza mezzi diversi rispetto all’uomo di “mestiere”, colui che si accontenta di ciò che ha tra le mani e che non può disporre degli strumenti potenti dell’ingegnere. L’ingegnere è il fautore di un intervento efficace sulla realtà, egli garantisce il progresso scientifico e tecnologico, ma a volte è chiamato anche a realizzare quello sociale e politico.
L’idea antropologica che l’umano sia un prodotto dell’azione co- stante e modellante della cultura, l’esito dunque dell’antropopoiesi, trova conferma anche nella riflessione filosofica morale. A questo proposito è interessante la definizione che Peter Sloterdijk fornisce dell’antropotecnica in Regole per un parco umano
5in quanto si avvi- cina a quella di Remotti e apre a prospettive di riflessione in parte si- mili. Sloterdijk descrive il fenomeno della domesticazione dell’uomo attraverso la lettura dei testi classici e la disciplina dello studio dell’u- manismo come una delle varie forme possibili di antropotecnica, ma ne segue la storia e i cambiamenti anche nell’epoca contemporanea, fino a individuarne due tipi: le antropotecniche primarie e quelle secondarie. Le antropotecniche sono da considerarsi “coestensive e consustanziali alla venuta all’Essere dell’animale sapiens”
6e, come già sottolineato da Remotti, possono essere messe in pratica in modo non programmatico oppure programmaticamente (un esempio può essere costituito dalle antropotecniche psico-sociali messe in atto dai regimi totalitari del XX secolo). Come afferma Antonio Lucci,
3. B. Bonato, C. Tondo (a cura di), Fabbricare l’uomo. Tecniche e politiche della vita, Mimesis, Milano-Udine 2013.
4. C. Lévi-Strauss, Il pensiero selvaggio (1962), trad. di P. Caruso, il Saggiatore, Milano 1964, pp. 30 e 33.
5. P. Sloterdijk, “Regole per il parco umano. Una replica alla Lettera sull’‘umanismo’ di Heidegger” (1999), in Non siamo ancora stati salvati. Saggi dopo Heidegger (2001), trad.
di A. Calligaris e S. Crosara, Bompiani, Milano 2004, pp. 239-266.
6. A. Lucci, Il concetto di tecnica nel pensiero di Peter Sloterdijk, in B. Bonato, C. Tondo
(a cura di), Fabbricare l’uomo, cit., p. 115.
le antropotecniche primarie “si basano su routines, convenzioni culturali, habitus, programmazioni pedagogico-sociali”.
7Tutta- via, l’uso contemporaneo dell’ingegneria genetica rende sempre maggiormente possibili le antropotecniche secondarie, legate allo sviluppo dell’ingegneria genetica e alle biotecnologie, che “secondo Sloterdijk porranno alla filosofia futura il problema di pensare la loro essenza, eticità, liceità”.
8Il problema delle antropotecniche risiede però altrove rispetto a quello della liceità, in quanto la questione principale, per Sloterdijk, sembra piuttosto essere quella “di chi applica le antropotecniche (il soggetto che mette in atto queste tec- niche di domesticazione e antropopoiesi) e di come queste pratiche si incarnano nei soggetti che ne sono il destinatario”.
9In particolare, fa problema l’applicazione del dispositivo antropotecnico, sia esso primario o secondario, imposto “dall’alto”, in modo programmatico e intenzionale, secondo quelle modalità che per Platone definivano l’attività politica nel Politico (la metafora dell’allevamento), o per Michel Foucault quelle della biopolitica: un dominio che si impone sui corpi stessi, sui comportamenti e le abitudini.
L’antropopoiesi attiva e programmatica è l’approccio chiara- mente rivendicato dal movimento transumanista che ne declina il senso in modo particolarmente intenzionale e ingegneristico.
Parte delle idee transumaniste trova una traduzione filosofica nelle proposte di etica pratica che alcuni autori europei, in particola- re, formulano da una decina d’anni. Il dibattito transumanista, generalmente collocato all’interno di un concetto più ampio che è quello di postumano, si svolge in un contesto, quello delle de- mocrazie liberali occidentali, caratterizzato da un inedito (anche se da sempre possibile) ventaglio di aperture a modelli diversi di umanità in cui si rimettono in discussione le frontiere cognitive e giuridiche tra umano e animale, si ridefiniscono le differenze di genere e i rapporti tra naturale, artificiale e tecnologie. In questo stesso contesto, tuttavia, si diffonde anche una forma di “panico”
7. Ibidem.
8. Ivi, p. 116.
9. Ibidem.
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aut aut, 361, 2014, 72-81Al di là del principio di realtà:
sulla Vita Artificiale
DAVIDE TARIZZO
S tando a quanto sosteneva Ivan Illich già vent’anni fa, la Vita oggi è diventata un dio artificiale, una “pseudo-divinità e una nega- zione del Dio che si è incarnato e ci ha redento […]. Pensare alla vita ci fa agire come se esistesse la vita, anche se gli scienziati non usano mai il termine e nessun filosofo o eticista dotato di senno oserebbe mai introdurre questo termine nel suo discorso senza metterlo tra virgolette. Siamo di fronte all’apparizione di una sorta di giustificazione ultima che serve a farci amministrare da un nuovo clero, da un clero manageriale, pianificatore, dittatoriale, peggiore di tutto ciò che finora eravamo riusciti a immaginare”.1 Nelle pagine che seguono discuterò questa idea di Illich concentrandomi su una particolare personificazione del dio artificiale, la Vita, che è oggetto del suo monito: la Vita Artificiale. Come siamo arrivati a concepire una cosa del genere all’alba del terzo millennio? Dal mio punto di vista, la risposta non si nasconde nell’ambito della Vita Artificiale stessa, ossia nell’ambito della ricerca informatica e della scienza computazionale. Si nasconde piuttosto in alcuni assunti, in certi a priori epistemici che stanno dietro lo sviluppo di due scienze diverse:
la biologia e l’economia.
Benché Illich avesse certamente ragione ad ammonirci sull’emer- genza di quello che chiamava un nuovo “clero manageriale”, aveva
1. D. Cayley, Ivan Illich in Conversation, Anansi Press, Toronto 1992, pp. 276-278.
certamente torto ad affermare che gli scienziati non usano mai il termine o la nozione di Vita. Al contrario, la Vita è quel costrutto scientifico, o quella moderna astrazione scientifica, sullo sfondo della quale l’idea stessa di vita artificiale diventa concepibile per gente come noi. Questa astrazione è in primo luogo il frutto delle indagini e delle speculazioni sulle proprietà biologiche di tutto ciò che è vivo.
Che cosa è vivo? Dai tempi di Darwin fino ai giorni nostri la risposta scientifica a questa domanda è stata sempre più o meno la stessa: “Definiamo viva ogni popolazione di entità che possieda le proprietà della moltiplicazione, dell’eredità e della variazione. Una simile definizione si motiva in questo modo: ogni popolazione dotata delle suddette proprietà evolverà per selezione naturale”.
2In questo brano il concetto chiave è selezione naturale ma la parola chiave è, in realtà, popolazione. Nell’ottica della biologia darwiniana o neo- darwiniana, non è l’essere vivente individuale – sia esso il corpo o l’organismo del singolo individuo – che può essere definito vivo.
Soppesando bene le parole, ci accorgiamo che in effetti solo una
“popolazione di entità” può essere davvero dotata della proprietà della Vita. Nella misura in cui una “popolazione di entità” evolve per selezione naturale, nella misura in cui essa migliora le sue ca- pacità di sopravvivenza e prolifera nell’ambiente, si può affermare sul piano scientifico che qualcosa, cioè questa o quella “popolazio- ne”, è viva. Dunque, nella prospettiva della biologia darwiniana o neo-darwiniana, la Vita va descritta come un processo selettivo di auto-perfezionamento e di proliferazione delle “popolazioni” – non come una proprietà dei singoli esseri viventi. Ciò detto, di quali
“entità” sono fatte le “popolazioni”? Una volta escluso che i corpi o gli organismi individuali siano le autentiche espressioni della Vita, dobbiamo andare in cerca di “entità” di altro tipo. Ed è a questo punto che ci imbattiamo in una delle più enigmatiche e ubique
“entità” della scienza moderna: il “comportamento”. Questa è la parola che dà accesso alla nostra Vita.
Di sicuro, gli esseri viventi non sono gli unici a comportarsi.
Anche un oggetto inanimato può farlo. Per esempio, posso dire
2. J.M. Smith, The Theory of Evolution, Penguin, Harmondsworth 1975, pp. 96-97.
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che “l’automobile che sto guidando si comporta bene nel traffi- co”. Tuttavia, se si comportasse male, la stessa automobile non potrebbe correggere da sola il suo comportamento. L’automobile non potrebbe correggere, migliorare, perfezionare da sola le sue performance. Questa potenzialità, invece, è la caratteristica della Vita. Qualcosa di vivo è qualcosa che può comportarsi male e può correggere il suo comportamento. In un certo senso, qualcosa di vivo è qualcosa che già sempre si sta comportando male e già sempre sta lottando per comportarsi meglio, per migliorare le sue performance comportamentali.
Di qui la nostra visione della Vita come una fonte di cattivi com- portamenti, di errori, di sbagli, di difetti. Prendiamo per esempio la visione filosofica della Vita fatta propria da Georges Canguilhem e dall’ultimo Michel Foucault. Per entrambi, “la vita stessa con- tiene nella sua essenza la possibilità, se non l’inevitabilità, degli errori”.
3Due conseguenze si possono fare derivare da quest’unica premessa. Primo, se la Vita in sé e per sé contiene l’inevitabilità degli errori, se la Vita è caratterizzata da un’esposizione spontanea a sbagli e difetti che possono condurla fino alla morte, allora la Vita dovrà contenere in sé anche una tendenza diametralmente opposta, ossia un’interna e spontanea opposizione a tutti quegli sbagli e difetti che possono portarla a estinguersi – altrimenti la Vita non potrebbe sopportare se stessa, non potrebbe sopravvivere a se stessa. Nella sua essenza, quindi, la Vita va concepita come una fonte di errori e al contempo come una forza, o una pulsione, che di continuo contrasta i propri errori, correggendo e regolando il suo comportamento. Come lo stesso Canguilhem scrive, “il dato della vita [...] è la sua auto-preservazione per mezzo dell’auto- regolazione”.
4Secondo, se la Vita in quanto tale si dispiega in un processo di auto-preservazione e di auto-regolazione, allora la Vita – quella forza o pulsione naturale che la scienza moderna chiama Vita – emerge anche come la fonte ultima del valore. Giacché la
3. P. Rabinow, French Enlightenment: Truth and Life, “Economy and Society”, 2-3, 1998, p. 199.
4. G. Canguilhem, Idéologie et rationalité dans l’histoire des sciences de la vie, Vrin,
Paris 2000, p. 124.
Figure del postumano. Gli zombi, l’onkos e il rovescio del Dasein
ROCCO RONCHI
Perché gli zombi?
Perché gli zombi? Perché occuparsi filosoficamente di un genere cinematografico decisamente “minore”, che appartiene all’immagi- nario popolare? Gli zombi sono strane creature che abitano la soglia impalpabile che divide la vita dalla morte, che separa l’essere dal non essere. Sono creature caratterizzate dalla doppia negazione: né…
né…, né veramente morte né veramente vive. Creature del limite, cre- ature segnate da una inquietante “neutralità”. Creature che non pos- sono nemmeno dirsi propriamente creature, dal momento che, a ben considerarle, più che creature sono “decreature”: non cessano, infat- ti, di disfarsi senza però mai giungere al punto in cui cesserebbero in- fine di essere (a meno che qualcuno non fracassi loro la testa
1). Crea- ture che non possono morire più di quanto non possano vivere.
Creature dell’intervallo, insomma. Un intervallo nel quale il tempo è sospeso. In cui non c’è più tempo come orizzonte di comprensione del senso dell’essere. Non c’è per gli zombi “freccia del tempo”, non c’è direzione futuro, non c’è durata creatrice. C’è solo ripetizione, anzi pura coazione a ripetere, mera Wiederholungszwang.
Come il vampiro, si obietterà, e con buone ragioni, ma a differenza del vampiro, i living dead
2sono decreature ben più
1. Nella grammatica del genere, tale modo di eliminare gli zombi è codificato da George Romero nel classico Night of the Living Dead del 1968. I fanatici del genere segnalano un precedente, del tutto casuale, in The Walking Dead del 1936 (diretto da Michael Curtiz, il regista di Casablanca).
2. I living dead, o più semplicemente i dead, non sono esattamente la stessa cosa dello zombi haitiano. Sono il frutto della rielaborazione del mito haitiano operata in modo particolare da Nul homme, à moins d’être un mort-vivant,
ne peut se sentir à l’ancre en cette vie.
René Char
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invasive, ben più insistenti, ben più comuni, ben più ordinarie, come il loro abbigliamento da supermercato dimostra. Sulla dif- ferenza fondamentale tra zombi e vampiri si dovrà ritornare: per ora ci basti questo appunto sull’eleganza un po’ retrò dei secondi e sulla trasandatezza dei primi, segno del carattere aristocratico del vampiro e della vocazione invece radicalmente democratica degli zombi. In L’uomo senza qualità Musil faceva dire a Ulrich che se l’umanità del suo tempo fosse stata capace di fare un so- gno collettivo avrebbe senz’altro sognato Moosbrugger, il mostro massacratore di prostitute. Della democrazia di massa i B-movies sugli zombi (spesso Z-movies) sono allora in qualche modo il sogno collettivo. Il cinema ha insomma fornito il pensiero del suo nuovo personaggio concettuale e lo ha fatto nei luoghi più inattesi: non nelle sale d’essai o nei festival dell’arte cinematografica, ma nei drive-in e grazie a produzioni a low-budget.
3Appare allora forse un po’ più chiara la ragione per la quale crediamo sia utile introdurre gli zombi in filosofia. Perché questi anti-eroi della democrazia di massa rappresentano il rovescio speculare del Dasein, vale a dire del protagonista assoluto del pensiero novecentesco. Perché gli zombi portano alle estreme conseguenze la crisi del processo di individuazione, perché sono l’effetto più mirabolante dello stallo della “macchina antropologica”
4e perché, vagando senza meta in una terra ridotta a deserto, indicano la strada che porta finalmente fuori dal “mondo” in un “reale” che resiste a ogni assimilazione nell’ordine del simbolico.
George Romero a partire dagli anni sessanta. Non posso qui ricostruire le principali tappe di questa vicenda, peraltro di straordinario interesse. Mi limito a ricordare in questa sede come il genere zombi, per quanto prodotto del folklore haitiano, sia fin dall’inizio un genere soprattutto cinematografico. Se per conoscere vampiri, fantasmi, cadaveri restituiti alla vita da scienziati deliranti ecc., dobbiamo soprattutto leggere dei romanzi e dei racconti, la maggior parte dei quali risale all’epoca romantica, per conoscere gli zombi dobbiamo soprattutto andare al cinema. O, almeno, esserci andati.
3. Il film “più brutto di tutti tempi”, Plan 9 from Outer Space (1959) di Ed Wood, è uno zombie-movie a bassissimo budget. Inutile dire che soprattutto dopo la rilettura che ne ha dato Tim Burton nel suo biopic Ed Wood (1994) è stato assunto nell’empireo dei film più sublimi di tutti i tempi.
4. Con tale espressione, coniata da Giorgio Agamben a partire da quella di “macchina
mitologica” di Furio Jesi, si intende il divenire umano come effetto di un insieme di pratiche.
Dopo il Dasein e dopo il mondo
Il Dasein è l’umanità dell’uomo afferrata alla sua radice. E la sua radice è la finitudine, l’essere per la fine. Finitudine, molto meglio del più neutro finitezza, non è un fatto, ma un atto, l’atto antropo- genetico per eccellenza. Da esso, non a caso, secondo la vulgata heideggeriana, sono esclusi i non-umani, gli dei come gli animali (e le piante). I primi, se sono, sono fuori dal tempo, i secondi cessano, non muoiono. L’uomo fa eccezione perché è per-la-fine, perché è tempo in ogni fibra del suo essere. Non c’è neanche bisogno, scrive Heidegger in Kant e il problema della metafisica, di mostrare come finitezza e trascendenza (nel senso dell’atto del trascendersi della coscienza verso il mondo, nel senso della intenzionalità husserliana, dell’“esplodere-verso” che costituisce il senso di quella intenzionalità) siano il medesimo, tanto è evi- dente.
5Se abbiamo un mondo (Dasein è in-der-Welt-sein), invece di esserne semplicemente parte, è perché nell’uomo la finitezza è una finitezza “fattasi esistente”, perché incide la nostra carne da sempre e per sempre (a differenza dell’animale e del dio dei teologi e a differenza, naturalmente, della cosa semplicemente presente).
Anzi, come scrive ancora Heidegger nel libro su Kant, se abbiamo una carne è perché siamo ontologicamente finiti.
6Il mondo, come Umwelt, il mondo come orizzonte di senso e di non senso (nella misura in cui il mondo è sempre sottoposto, come insegna Ernesto De Martino, all’ipoteca della “crisi della presenza”, dell’“apocalissi culturale”
7), c’è solo per un essere radicalmente fi- nito, c’è solo per il Dasein, cioè per l’uomo finalmente riconsegnato alla sua essenza più propria: l’e-sistenza, l’essere per la fine. Die Welt weltet
8non significa altro, in ultima analisi, se non che il mondo è per l’uomo e l’uomo è per il mondo: i due si danno in una correlazione oltre la quale non è possibile risalire. La correlazione enunciata in
5. M. Heidegger, Kant e il problema della metafisica (1929), Laterza, Roma-Bari 1985, p. 197.
6. Ivi, p. 34.
7. E. De Martino, Morte e pianto rituale nel mondo antico. Dal lamento pagano al pianto di Maria (1958), Bollati Boringhieri, Torino 2000, p. 15 sgg.
8. L’espressione già presente nel saggio Sull’essenza del fondamento (1929), la si trova
in L’origine dell’opera d’arte (1935), in M. Heidegger, Sentieri interrotti, La Nuova Italia,
Firenze 1968, p. 30.
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