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ἄλλῳ μέρει ἑαυτοῦ L’ipotesi che il pensiero di sé richieda una suddivisione del

Testo e traduzione di V 3 [49], 1-

32. Nel medesimo capitolo Plotino chiarisce inoltre che nell’unione con l’Intelletto

5.1 ἄλλῳ μέρει ἑαυτοῦ L’ipotesi che il pensiero di sé richieda una suddivisione del

proprio soggetto in una parte pensante e una pensata, già considerata da Sesto Empirico in Adv. Math. VII 310-12 (si veda qui sopra il commento a 1.1-2), era stata introdotta in termini generali, discussa e respinta all’inizio dello scritto (1.1-12). La medesima ipotesi viene qui riproposta specificamente a proposito del pensiero di sé dell’Intelletto e sottoposta a una seconda e più ampia confutazione (5.1-21), la quale funge da parte destruens della trattazione relativa al pensiero divino e prelude all’analisi positiva dei rapporti fra soggetto, oggetto e atto di intellezione che sarà sviluppata nelle righe 21-48 di questo quinto capitolo. – L’impiego del termine μέρος in relazione al pensiero di sé dell’Intelletto rappresenta forse una consapevole ripresa del lessico impiegato da Sesto Empirico in Adv. Math. VII 310.6-311.1: εἴπερ γὰρ ὁ νοῦς ἑαυτὸν καταλαμβάνεται, ἤτοι ὅλος ἑαυτὸν καταλήψεται, ἢ ὅλος μὲν οὐδαμῶς, μέρει δέ τινι ἑαυτοῦ πρὸς τοῦτο

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χρώμενος. È questa, ad ogni modo, la più significativa fra le poche corrispondenze lessicali che sussistono fra i due testi (cfr. Theiler p. 375); per le altre si vedano qui sopra i commenti a 1.7-8 e 1.11-12 τὸ ζητούμενον. Nella storia degli studi l’importanza del paragone con Sesto Empirico è stata spesso sopravvalutata, a partire da Bréhier (Notice pp. 37-41), che vede nel capitolo 5 la risposta di Plotino all’obiezione di Sesto contro la possibilità della conoscenza di sé dell’Intelletto. Per una critica approfondita di questa prospettiva storiografica rinvio qui sopra al cap. 2.3 del Saggio introduttivo. Sia qui sufficiente osservare che l’intelletto di cui parla Sesto Empirico è quello umano, mentre la trattazione plotiniana verte sull’Intelletto divino. La nozione di un intelletto trascendente che pensa se stesso rinvia alla filosofia di Aristotele, e in particolare alle riflessioni relative all’attività cognitiva del primo motore immobile contenute in Metaph. Λ 9, che Plotino segue da vicino nella parte construens del suo discorso (cfr. qui sotto il commento a 5.39-41). Nella filosofia di Plotino, che si presenta come un’interpretazione degli scritti di Platone, questa dottrina aristotelica è messa al servizio dell’esegesi del Timeo. L’Intelletto di cui parla Plotino è l’intelletto del demiurgo, che contempla le idee contenute nel «vivente che è» (cfr. Tim. 39 E cit. qui sotto nel commento a 5.1-2 καθορᾷ). Affermare che l’Intelletto pensa se stesso equivale, per Plotino, a identificare l’Intelletto con le Forme intelligibili che esso contempla, ossia a sostenere che l’intelletto demiurgico e il modello intelligibile, che nella narrazione del Timeo si presentano come distinti, sono in realtà un solo principio, di natura intellettuale, che pensa se stesso (cfr. qui sopra il commento a 1.1 τὸ νοοῦν ἑαυτὸ). Plotino ritiene che l’identità reciproca di questi due termini coesista, tuttavia, con la distinzione fra i due aspetti di soggetto pensante e di oggetto pensato, sicché l’Intelletto, nella misura in cui pensa se stesso, è allo stesso tempo una cosa sola e due cose differenti (cfr. qui sopra il commento a 1.1 ποικίλον e i luoghi ivi indicati). In questa prospettiva, l’ipotesi che l’Intelletto pensi una parte di sé per mezzo di un’altra, che Plotino contesta, rappresenta un possibile tantativo di dettagliare la posizione plotiniana facendo ricorso al rapporto fra il tutto e le sue parti: l’Intelletto è duplice in quanto consta di due elementi differenti, uno pensante e uno pensato, ed è unitario in quanto questi due elementi appartengono alla medesima totalità. Come argomento qui sopra nel Saggio introduttivo, cap. 2.3, questa opzione presenta alcuni punti di contatto con le tesi sostenute sia in ambito teologico, sia in materia di esegesi platonica, dall’allievo di Plotino Amelio di Etruria. Plotino non intende, dunque, rispondere alle obiezioni sollevate dai filosofi scettici al fine di stabilire la possibilità della

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conoscenza di sé, che anzi dà per scontata. La ripresa del dilemma posto da Sesto Empirico ha piuttosto lo scopo di chiarire la posizione di Plotino sul rapporto fra l’Intelletto divino e l’oggetto del suo pensiero, sgomberando il campo da possibili fraintendimenti.

5.1-2 καθορᾷ - Il verbo καθορᾶν, appartenente al campo semantico della visione, è qui

impiegato in senso traslato in riferimento all’intellezione, in luogo del più appropriato νοεῖν (cfr. anche 4.25). Nello stesso senso vengono usati, all’interno di questa stessa sezione, i verbi sinonimi βλέπειν (4.30) e ὁρᾶν (4.31; 5.2-7; 5.15; 5.17). Questa scelta, che risponde probabilmente anche ad esigenze di ordine stilistico legate al modulo retorico della variatio (cfr. l’impiego ripetuto dei verbi θεωρεῖν e γιγνώσκειν nelle rr. 9- 21 del capitolo con il medesimo significato), sortisce l’effetto di mettere in evidenza il carattere non-discorsivo della conoscenza di tipo intellettivo. Nel caso specifico del verbo καθορᾶν, l’uso metaforico del termine in riferimento alla contemplazione delle realtà intelligibili è platonico. In Tim. 39 E l’intelletto demiurgico «vede le idee contenute nel vivente che è» (νοῦς ἐνούσας ἰδέας τῷ ὃ ἔστιν ζῷον[…] καθορᾷ, κτλ. ibid. rr. 7-9). In Phaedr. 247 D, nell’ambito del mito della biga alata, si dice che, raggiunto il luogo sovraceleste, il pensiero del dio (θεοῦ διάνοια ibid. 247 D 1) «nel suo moto circolare vede la giustizia stessa, vede la temperanza, vede la scienza, etc.» (ἐν δὲ τῇ περιόδῳ καθορᾷ μὲν αὐτὴν δικαιοσύνην, καθορᾷ δὲ σωφροσύνην, καθορᾷ δὲ ἐπιστήμην, κτλ. ibid. rr. 5- 7); fra le anime non divine, la migliore «a stento riesce a vedere le cose che sono» (μόγις καθορῶσα τὰ ὄντα ibid. 248 A 4-5). Che l’occorrenza presente costituisca un rimando implicito ma volontario ad uno di questi due luoghi platonici non è improbabile, perché Plotino li conosce entrambi a memoria. Il primo di essi è citato e fatto oggetto di esegesi in III 9 [13], 1, in II 9 [33], 6.14-24 e in VI 2 [43], 22.1-10; del secondo si trova una parafrasi interpretativa in IV 7 [2], 10.42-47. Di questi luoghi il più pertinente al tema del pensiero di sé dell’Intelletto è III 9 [13], 1, dove, in relazione all’esegesi di Tim. 39 E, viene riccamente discussa la questione del rapporto fra il νοῦς, che «vede» le Forme intelligibili, e lo ὃ ἔστιν ζῷον che è detto contenerle. In questo contesto viene avanzata sia l’ipotesi che i due termini si riferiscano a un’unica realtà, di cui esprimono i due differenti aspetti di soggetto e oggetto dell’attività di pensiero (cfr. ibid. rr. 12-15), sia l’ipotesi alternativa che essi siano due intelletti contenuti l’uno dentro l’altro (cfr. ibid. rr. 15-21). Sul contenuto di questo luogo, sulla sua interpretazione e sui rapporti che esso

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intrattiene con il contesto presente e con l’esegesi di Tim. 39 E che era stata proposta dal platonico Numenio di Apamea (cfr. Procl. In Tim. III, 103.28-32 Diehl = Numenio fr. 22Des Places) si vedano qui sopra il Saggio introduttivo, cap. 2.3, e la bibliografia ivi indicata.

5.2-3 ἀλλ' οὕτω…οὐκ “αὐτὸ ἑαυτό.” - Viene qui concisamente ricapitolato l’argomento

prodotto in 1.5-12 contro la possibilità che ciò che pensa se stesso si serva di una propria parte per pensare le altre: se le cose stessero così non si avrebbe davvero pensiero di sé, bensì una cosa che ne pensa un’altra. Su questo argomento si veda qui sopra il commento a 1.8-11. Nella sua concisione, questa riformulazione dell’argomento mette in evidenza la ragione fondamentale per cui la concezione proposta risulta inadeguata: il pensiero di sé richiede che fra pensante e pensato si dia identità.

5.3 “αὐτὸ ἑαυτό.” - Sottinteso è l’infinito νοεῖν, come già in 1.12 e 4.28, oppure, ma con

lo stesso significato, l’infinito ὁρᾶν, in continuità con le righe immediatamente precedenti; cfr. qui sopra il commento a 5.1-2 καθορᾷ.

5.3-7 τί οὖν…πρὸς τὸ ὁρώμενον – L’ipotesi dell’omeomeria dell’Intelletto, che Plotino

non condivide (si veda qui sotto il commento a 5.4), viene introdotta per salvare dalla confutazione la proposta di partenza, secondo cui l’Intelletto penserebbe una parte di sé per mezzo di un’altra. Assumendo che l’Intelletto sia omeomero è possibile tentare di conciliare l’idea, soggiacente a questa proposta, che i due ruoli di soggetto e oggetto di pensiero siano svolti da due parti differenti dell’Intelletto, con l’esigenza, messa in luce dalla confutazione, che soggetto e oggetto siano identici. Le parti di una totalità omeomera sono numericamente distinte l’una dall’altra, ma reciprocamente identiche per natura, perché l’unica natura propria del tutto le accomuna. Affermare che, nell’Intelletto che pensa se stesso, pensante e pensato si rapportano come due parti di una totalità omeomera, equivale dunque a interpretare l’identità di pensante e pensato come identità di natura o di essenza e la dualità pensante-pensato come distinzione numerica. Ne risulta una concezione secondo cui l’Intelletto è una totalità uniforme articolata in due parti che, pur condividendo la medesima natura, svolgono le due differenti funzioni di soggetto pensante e oggetto pensato. L’identità di natura fra le due parti permette che la parte pensante conosca se stessa, ossia la propria natura, contemplandola nella parte pensata. Questa concezione viene respinta con due ordini di obiezioni alle righe 7-15. – Halfwassen (n. 71, pp. 24sg.) ritiene che a partire da questa frase l’argomentazione di

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Plotino abbia di mira la teologia di Numenio di Apamea. Per una critica di questa interpretazione si veda ancora qui sopra il Saggio introduttivo, cap. 2.3.