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L’ἄωρος θάνατος di Pallante (X, 439-509)

Giuturna tenta di evitare lo scontro fra Enea e Turno e per questo è definita ‘colei che soccorre’:

Iuturna quae iuuat (XII, 872)55. Tale sforzo, al contrario, si rivelerà causa della morte del fratello.

Significativo infatti l’epiteto con il quale viene introdotta: soror alma (439). Inutile ricordare che la sorella di Turno è alma – ‘divina’ – in quanto ninfa. È tuttavia nella connotazione etimologica dell’epiteto alma che si avverte il paradosso: Giuturna non è infatti ‘colei dà la vita’ – quae alit56

bensì colei che porterà suo fratello alla morte. L’etimologia di alma è adatta al teonimo Iuturna, quae

iuuat: per evitare infatti lo scontro con Enea, Giuturna suggerisce a Turno di subentrare a Lauso57. Il

fratello ben presto sconfiggerà Pallante la cui morte è il presupposto narrativo e morale della fine dell’Eneide58. Narrativo in quanto la fine di Pallante crea l’attesa di un duello fra Enea e Turno, così

come la morte di Lauso provoca lo scontro fra Enea e Mezenzio. Morale poiché la ὕβρις di Turno verso Pallante e il rapporto con Enea motiveranno l’uccisione del fratello di Giuturna, soror alma.

A seguito dell’intervento della sorella, Turno ordina ai suoi di smettere di combattere59:

(…) ‘tempus desistere pugnae: solus ego in Pallanta feror, soli mihi Pallas debetur; cuperem ipse parens spectator adesset.’ (X, 441-3)

Il Rutulo infatti ha deciso di scontrarsi da solo con Pallante. Tale volontà viene enfatizzata da tre poliptoti simmetrici solus … soli, ego … mihi, in Pallanta … Pallas (442). Al centro del verso il mediopassivo feror – ‘mi muovo’ – che separa le due serie nominali. Il verbo impiegato da Turno,

debeo (443), ricorre in situazioni analoghe. Prima di uccidere Camilla e pagarne le conseguenze,

Arrunte è definito fatis debitus (XI, 759). Nel compiangere la morte di suo figlio, il vecchio Evandro esclama sors ista senectae / debita erat nostrae (XI, 165). Il verbo debeo tuttavia indica non solo la necessità del Fato ma anche quella della vendetta. È infatti mediante lo stesso verbo che, ancora nel compianto, Evandro reclama da Enea la morte di Turno: Turnum gnatoque patrique / debere uides

55 Varr. ling. lat. V, 71. Serv. Dan., ad loc.

56 I, 618 Alma Venus (cf. Lucr. I, 2); II, 591 alma parens. Stesso significato in I, 306; III, 311; VII, 644 etc. Cf. Merguet e Wetmore, ad loc.

57 Da notare – a tal proposito – l’uso dell’infinito succedere, poetismo sintattico caro a Virgilio il quale presenta l’infinito al posto di ut e congiuntivo dopo i verbi moneo, impello e suadeo: I, 9-11 tot uoluere casus / insignem pietate uirum, tot adire labores / impulerit; XII, 813-4 Iuturnam misero, fateor, succurrere fratri / suasi.

58 A. Traina, op. cit., p. 84.

59 Non sorprende il genitivo pugnae: numerosi i grecismi sintattici in Virgilio. Allo stesso modo Il. VII, 263 ἀπέληγε μάχης; XVI, 721 μάχης ἀποπαύεαι; Hor. carm. II, 9, 17-8 desine … querellarum.

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(XI, 178 s.). Come dunque Turno si vendica – mediante Pallante – dell’ospitalità offerta dal padre Evandro a Enea, Evandro – tramite Enea – si vendica della morte del giovane figlio. Per Evandro l’unica consolazione sarà infatti riferire al figlio, presso i Mani, l’annuncio della sua vendetta: non

uitae gaudia quaero / nec fas, sed gnato Manis perferre sub imos (XI, 180-1). Il rapporto fra i versi

del discorso di Turno e quelli del compianto di Evandro è provato dalle parole conclusive di Turno. Da queste traspare infatti la ὕβρις del Rutulo: cuperem ipse parens spectator adesset (443). Nell’epica di Virgilio non esiste crudeltà maggiore che uccidere un figlio ante ora parentum. L’uccisione di Polite da parte di Pirro, obbligherà Priamo a richiedere la vendetta da parte degli dei (II, 526-43): Pirro muore in seguito per mano di Oreste (III, 330). Simile a quello di Pirro il destino di Turno che dal canto suo non è responsabile della sola morte di Pallante. Egli vorrebbe che il vecchio Evandro, incapace di combattere, fosse presente e guardasse (spectator adesset) la morte del figlio. Il comportamento di Turno è dunque più grave di quello di Pirro. A differenza di quest’ultimo, infatti, Turno sa che Evandro non vedrà suo figlio morire sul campo di battaglia. Il desiderare tutto questo,

cuperem, è da parte sua un atto di feroce superbia che poco dopo si manifesta sul corpo senza vita di

Pallante: dopo averlo ucciso Turno strappa al cadavere il balteo. Egli, come farà presente il poeta, è incapace di seruare modum (X, 502). Evandro, pur riconoscendo la morte gloriosa del figlio, affida a Enea il compito di vendicarlo. Alla fine del poema Enea, prima di intravedere il balteo, sembrerà voler risparmiare Turno: la ὕβρις di questi vanificherà invece l’appello finale alla pietas di Enea.

Ubbidienti a Turno, i socii si ritirano dal campo: socii cesserunt aequore iusso (444)60. Pallante, coraggioso, non si lascia intimidire dalle parole del Rutulo: egli infatti lo osserva per poi ribattere alle sue parole. Agli occhi di Pallante, Turno appare come un tyrannus (448) che impone

iussa superba (445). In Virgilio l’aggettivo superbus ha significato per lo più morale e negativo e

tende o all’idea di orgoglio smisurato o a quella di ὕβρις61. Il sostantivo tyrannus a partire dal II a. C.

assume carattere ingiurioso in opposizione al rex62, soprattutto nell’invettiva politica63: i tyranni del resto non sono nobili di sangue, come i re. Nell’Eneide tuttavia prototipo del tiranno è Mezenzio, non Turno, la cui qualifica di tyrannus è quindi da leggere in continuità con iussa superba: nella prospettiva di Pallante la superbia di Turno ha significato morale64. Tale prospettiva coincide con

60 Evidente l’ipallage di iusso per iussi in et socii cesserunt aequore iusso.

61 In totale le ricorrenze dell’aggettivo sono 38: 13 volte esso ha significato neutro, 18 negativo (X, 445; 514; IV, 424; VIII, 118; XI, 15; XII, 877), mentre negli altri casi esso non ha significato morale ed indica il portamento, il meritato orgoglio (V, 473; VIII, 202) o l’imago di un uomo (XII, 326).

62 Nell’Eneide, su 7 occorrenze, tyrannus ha significato neutro 3 volte (IV, 320; VII, 266; 342), negativo 4 (I, 361; VIII, 483; X, 448; XII, 75).

63 Celebre la descrizione del tiranno fatta da Cicerone in fin. III, 75.

64 Per una maggiore bibliografia sul concetto di tyrannus anche in Virgilio: J. Béranger, Tyrannus. Notes sur la notion de

tyrannie chez les Romains, particulerment à l’époque de César et de Cicéron, “Rev. Et. Lat.” 1935, p. 85 ss.; V. Sirago, Tyrannus. Teoria e prassi antitirannica in Cicerone e i suoi contemporanei, “Ren. Acc. di Arch. Lett. e Belle Arti di Napoli” 1956, p. 179 ss.; R. B. Lloyd, Superbus in the Aeneid, “Am. Journ. Phil.” 1972, p. 125 ss.; S. Lanciotti, Silla e la

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quella del poeta nel momento in cui commenta il comportamento di Turno (X, 501-2). Seguiamo ora la risposta di Pallante a Turno:

‘aut spoliis ego iam raptis laudabor opimis aut leto insigni: sorti pater aequus utrique est. tolle minas.’ (…) (X, 449-51)

Lampante il coraggio di Pallante che intima al Rutulo di smettere di minacciare65. Egli sa di poter

strappare le armi di Turno oppure morire in maniera gloriosa. Evandro è pronto ad accettare entrambe le sorti: Pallante meriterà la gloria, laudabor (449), tanto con la vittoria quanto con la morte. È ancora il laudis amor ad indurre Pallante allo scontro impari con Turno. Come lui molti giovani, ad esempio Ascanio: ipse etiam, eximiae laudis succensus amore, / Ascanius curuo direxit spicula cornu (VII, 496-7). Il laudis amor conduce anche altri giovani alla morte. Eurialo ad esempio rimane stupito dal desiderio di gloria dell’amico Niso: obstupuit magno laudum percussus amore / Euryalus (IX, 197- 8). A differenza di Eurialo e Niso, Pallante ha inoltre una ragione in più per desiderare la gloria. Egli vuole dimostrare di saper competere con il padre in gloria: spem meam, patriae quae nunc subita

aemula laudi (X, 371). Di fatto Pallante è divenuto in poco tempo un comandante capace e ha ucciso

molti nemici presentandosi quale modello per i propri socii in battaglia. Ora, al contrario, gli Arcadi non possono più venire in suo aiuto: egli infatti deve combattere da solo contro Turno. Significativa, infatti, la reazione dei socii nel momento del duello. Consapevoli dell’inferiorità del giovane comandante, essi hanno paura: frigidus Arcadibus coit in praecordia sanguis (X, 452)66. La chiosa di

Servio conferma la nostra interpretazione: “praesagio mortis futurae”(ad loc.). Tale è l’emozione dei compagni di Ettore all’avanzare di Aiace: τὸν δὲ καὶ Ἀργεῖοι μὲν ἐγήθεον εἰσορόωντες, / Τρῶας δὲ τρόμος αἰνὸς ὑπήλυθε γυῖα ἕκαστον (Il. VII, 214 s.). In entrambi i casi gli ἑταῖροι vivono emotivamente la scena senza poter intervenire nello scontro, come del resto prevedevano le regole del duello fra campioni: Pallante accetta il duello e da quel momento tutti i socii devono essere spettatori. Anche dunque la loro prospettiva cambia: come Pallante ritorna il giovane audax pronto allo scontro impari con Turno, i socii – non più horrida Volcania acies (408) – osservano lo scontro e temono l’ormai prossima fine del loro comandante. Pallante dunque si dice pronto sia alla vittoria sia ad una morte gloriosa.

tipologia del tiranno nella letteratura latina repubblicana, “Quaderni di Storia” 1977, p. 129 ss.; M. P. Martin, L’image et la fonction du roi-tyran dans l’Enéide, in: Presence de Virgile, Acte du Colloque des 9, 11 et 12 Décembre 1976, Paris 1978, p. 63 ss.

65 Da notare l’uso di tolle al posto del più colloquiale aufer.

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Come la reazione dei socii, anche i versi seguenti anticipano l’esito dello scontro: desiluit Turnus biiugis, pedes apparat ire comminus; utque leo, specula cum uidit ab alta stare procul campis meditantem in proelia taurum, aduolat: haud alia est Turni uenientis imago. (X, 453-6)

Turno salta giù dal carro67 per combattere contro Pallante. L’immagine del suo arrivo suggerisce al poeta la similitudine con il leone, che dall’alto osserva un toro prepararsi alla lotta. Tale immagine è icastica di Turno: non è casuale che su una decina di paragoni con animali da preda, sette siano riferiti a Turno e nessuno a Enea68. Come notato da Harrison69, la similitudine ricorda quella del libro XVI dell’Iliade all’interno della quale Patroclo è paragonato al leone, Sarpedone al toro: ἠΰτε ταῦρον ἔπεφνε λέων ἀγέληφι μετελθὼν (Il. XVI, 487). Così Ettore prima di uccidere Patroclo: ὡς δ' ὅτε σῦν ἀκάμαντα λέων ἐβιήσατο χάρμῃ (Il. XVI, 823). Anche Automedonte, vincitore di Aleto, viene paragonato ad un leone che ha sbranato un toro: ὥς τίς τε λέων κατὰ ταῦρον ἐδηδώς (Il. VII, 542). In Omero l’immagine del leone è dunque riferita all’eroe che risulta vincitore in battaglia. Così in Virgilio70 che, a differenza del modello omerico, inserisce tale similitudine prima del vero scontro fra Turno e Pallante. Se infatti Patroclo ed Ettore vengono paragonati al leone quando hanno già sconfitto l’avversario, Turno è simile ad un leone sin dal proprio arrivo: Turni uenientis imago (456). Evidente dunque come tale similitudine serva ad anticipare l’esito dello scontro con Pallante: come il leone della similitudine, sarà Turno a prevalere sul figlio di Evandro. Attraverso la reazione dei socii e la similitudine ‘anticipata’, Virgilio suscita nel lettore l’attesa della morte di Pallante. I versi seguenti ed in modo particolare l’intervento di Giove confermano tale volontà poetica:

ire prior Pallas, si qua fors adiuuet ausum uiribus imparibus, magnumque ita ad aethera fatur: ‘per patris hospitium et mensas, quas aduena adisti, 460 te precor, Alcide, coeptis ingentibus adsis.

cernat semineci sibi me rapere arma cruenta uictoremque ferant morientia lumina Turni.’ (X, 458-63)

67 A dire il vero, biiugi sarebbe la coppia di cavalli aggiogati al cocchio: è chiara la metonimia. 68 EV V, p. 327 (Traina).

69 S. J. Harrison, Vergil, Aeneid 10, Oxford 1991, ad loc.

70 Non stupisce ad esempio che Mezenzio venga paragonato ad un leone durante la sua ἀριστεία: impastus stabula alta

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La superbia di Turno è contrastata dall’audacia Pallante. Sebbene cosciente della propria inferiorità, il figlio di Evandro osa scontrarsi con Turno: ausum / uiribus imparibus (458 s.). Prima di lanciare, egli rivolge una breve preghiera ad Ercole. È nota la devozione di Pallante per Ercole. Nel libro VIII fa proseguire il rito in onore di Ercole e nel X, prima di uccidere Aleso, rivolge una preghiera al dio Tevere, nella quale chiede di uccidere il nemico e promette al dio di offrire le spoglie. La preghiera rivolta ai vv. 460-3 appare diversa da quella al dio Tevere. All’inizio Pallante ricorda ad Ercole l’ospitalità e l’offerta del cibo da parte del padre Evandro (VIII, 362 ss.). Chiaro il rapporto allusivo tra l’ospitalità di Evandro ad Ercole e quella accordata ad Enea: il verso per patris hospitium et

mensas quas aduena adisti (460) riecheggia alla fine del passo, quando Enea viene a sapere della

morte di Pallante: Pallas, Euander, in ipsis / omnia sunt oculis, mensae, quas aduena primas / tunc

adiit, dextraeque datae. (X, 515-7). Pallante ed Enea alludono al concetto di hospitium, istituzione

che regolava i rapporti con i forestieri. Tramite un foedus i contraenti erano tenuti ad una reciproca assistenza che vincolava l’honos di entrambi71. Nonostante l’ospitalità Ercole non potrà salvare

Pallante. Al contrario sarà Enea ad assumersi la vendetta del figlio di Evandro. Il modello dell’hospitium orienta in questo modo tutta la catena degli eventi successivi. Dopo la vittoria su Pallante Turno dice che al vecchio Evandro costerà cara l’ospitalità accordata ad Enea: haud illi

stabunt Aeneia paruo / hospitia (X, 494-5). Successivamente Evandro ricorderà ai Troiani il patto

ospitale – foedera nec quas / iunximus hospitio dextras (XI, 164-5) – e affiderà ad Enea il compito di vendicare l’uccisione del figlio. Come il Priamo omerico, Evandro è troppo vecchio per combattere e vendicare il figlio: il suo sostituto non può che essere Enea il quale, memore dell’obbligazione personale con Evandro, alla vista del balteo ucciderà Turno. Il legame fra Enea e Pallante, messo già in luce nel libro VIII e nella breve scena notturna del X (160-3), risulta così ispirato anche dal modello dell’hospitium.

Nel resto della preghiera Pallante chiede ad Ercole di essergli propizio nell’arduo scontro con Turno. Desideroso di uccidere l’avversario, Pallante vorrebbe infatti che l’ultimo sguardo di Turno in agonia carpisse l’immagine di sé vittorioso nell’atto di spogliarlo delle armi insanguinate. Pallante sa quanto sia arduo vincere contro Turno, proprio per questo prega Ercole, dal momento che con la sua sola forza non potrebbe sconfiggere l’avversario: coeptis ingentibus adsis (461). È tuttavia il

laudis amor che induce Pallante ad affrontare Turno e a desiderarne le armi, pur consapevole della

propria inferiorità. Pallante, inoltre, rivolge la sua preghiera a Ercole nel momento in cui lo scontro è già iniziato. Turno infatti è pronto ad andare incontro a Pallante il quale, nel momento in cui ritiene

71 Circa l’ospitalità antica e la pratica del contubernium: L. J. Bolchazy, From Xenophobia to Altruism: Homeric and

Roman Hospitality, “The Ancient World” 1978, p. 45 ss. e G. Williams, Technique and Ideas in the Aeneid, New Haven- London 1983, pp. 103 ss.

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il nemico a tiro di lancia, si muove per primo: hunc ubi contiguum missae fore credidit hastae, / ire

prior Pallas (X, 456-7). Tanto la preghiera quanto l’episodio successivo introducono dunque una

pausa nello scontro e creano attesa nel lettore per l’inevitabile morte di Pallante. Anche la preghiera rivolta durante l’ἀριστεία al dio Tevere costituiva una breve pausa nella sequenza delle uccisioni compiute da Pallante, ma qui la sua preghiera è più lunga e articolata; la sua importanza riguarda tanto la componente narrativa quanto la caratterizzazione del personaggio. Resta da capire come mai il figlio di Evandro debba rivolgersi in questo momento proprio ad Ercole. Nel caso di Pallante, a dire il vero, il modello dell’hospitium indica probabilmente un rapporto di parentela più che di semplice ospitalità. Era infatti presente a Virgilio la tradizione che faceva di Pallante un figlio di Ercole72. Non è casuale inoltre che nei versi seguenti sia Giove a consolare Ercole dalla prossima morte di Pallante: il modello omerico dei versi virgiliani è il colloquio iliadico tra Zeus ad Hera alla fine del quale Zeus accetta la morte di suo figlio Sarpedone. Alla luce del modello omerico è alquanto probabile che Virgilio risenta dell’associazione Ercole/Pallante, parallela alla coppia Zeus/Sarpedone.

Eracle ascolta la preghiera di Pallante, soffoca nel fondo del cuore un grande gemito e piange. Le sue lacrime sono vane, poiché non può salvare il suo protetto:

audiit Alcides iuuenem magnumque sub imo corde premit gemitum lacrimasque effundit inanis. 465 tum genitor natum dictis adfatur amicis: ‘stat sua cuique dies, breue et inreparabile tempus omnibus est uitae; sed famam extendere factis, hoc uirtutis opus. Troiae sub moenibus altis tot gnati cecidere deum; quin occidit una 470 Sarpedon, mea progenies; etiam sua Turnum fata uocant metasque dati peruenit ad aeui." Sic ait atque oculos Rutulorum reicit aruis. (X, 464-473)

Le lacrime di Ercole costituiscono un vero omaggio a Pallante. Nell’Ippolito euripidea Artemide esclama κατ' ὄσσων δ' οὐ θέμις βαλεῖν δάκρυ (1396). Le lacrime di Ercole sono dunque un unicum nella tradizione antica: egli infatti è ἀστένακτος αἰὲν (Soph. Trach. 1074) e αἰὲν ἄδακρυς (Teocr. XXIV, 31). La ragione di queste lacrime sta nel successivo intervento di Giove che si rivolge al figlio con parole affettuose, dictis amicis (466)73. Egli infatti consola Ercole ricordando di non essere

72 Dion. Hal. Ant. Rom. I, 32 ὡς δέ τινες ἱστοροῦσιν, ὧν ἐστι καὶ Πολύβιος ὁ Μεγαλοπολίτης, ἐπί τινος μειρακίου Πάλλαντος αὐτόθι τελευτήσαντος· τοῦτον δὲ Ἡρακλέους εἶναι παῖδα καὶ Λαύνας τῆς Εὐάνδρου θυγατρός· χώσαντα δ' αὐτῷ τὸν μητροπάτορα τάφον ἐπὶ τῷ λόφῳ Παλλάντιον ἐπὶ τοῦ μειρακίου τὸν τόπον ὀνομάσαι; 43 Λέγουσι δέ τινες αὐτὸν καὶ παῖδας ἐν τοῖς χωρίοις τούτοις, ἃ νῦν Ῥωμαῖοι κατοικοῦσιν, ἐκ δύο γυναικῶν γενομένους καταλιπεῖν· Πάλλαντα μὲν ἐκ τῆς Εὐάνδρου θυγατρός, ᾗ Λαῦναν ὄνομά φασιν εἶναι, Λατῖνον δὲ ἔκ τινος ὑπερβορίδος κόρης.

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riuscito ad evitare la morte di suo figlio Sarpedone: quin occidit una / Sarpedon, mea progenies (470 s.). Queste parole di Giove hanno la loro origine poetica nel colloquio tra Zeus ed Era alla fine del quale Zeus riconosce la propria impotenza di fronte al destino di suo figlio (Il. XVI, 431-61)74. Zeus del resto aveva già predetto la morte di Sarpedone per mano di Patroclo. A questa sarebbe seguita quella di Patroclo per mano di Ettore, infine ucciso da Achille: Πηλεΐδεω Ἀχιλῆος· ὃ δ' ἀνστήσει ὃν ἑταῖρον / Πάτροκλον· τὸν δὲ κτενεῖ ἔγχεϊ φαίδιμος Ἕκτωρ / Ἰλίου προπάροιθε πολέας ὀλέσαντ' αἰζηοὺς / τοὺς ἄλλους, μετὰ δ' υἱὸν ἐμὸν Σαρπηδόνα δῖον. / τοῦ δὲ χολωσάμενος κτενεῖ Ἕκτορα δῖος Ἀχιλλεύς (Il. XV, 64-8). All’interno del XVI libro, Zeus prima si dice inquieto, φρεσὶν ὁρμαίνοντι (435): egli non sa infatti se salvare – ancora una volta75 – suo figlio o accettarne la morte. Zeus soffre per la sorte di Sarpedone e sembra incapace di dominare il destino. In realtà fra la μοῖρα e le intenzioni del dio non c’è mai differenza, dal momento che Zeus accetta l’inevitabilità di ciascun destino76. Zeus

alla fine obbedisce ad Hera: se ancora intervenisse sulla sorte del figlio, meriterebbe il biasimo degli dei e li spingerebbe a fare altrettanto. Zeus accetta dunque la morte di Sarpedone e versa sulla terra ‘gocce sanguigne’ per onorare suo figlio:

Ὣς ἔφατ', οὐδ' ἀπίθησε πατὴρ ἀνδρῶν τε θεῶν τε· αἱματοέσσας δὲ ψιάδας κατέχευεν ἔραζε παῖδα φίλον τιμῶν, τόν οἱ Πάτροκλος ἔμελλε φθίσειν ἐν Τροίῃ ἐριβώλακι, τηλόθι πάτρης. (Il. XVI, 458-61)

La pioggia di sangue non è di per sé un simbolo di pianto77: si tratta piuttosto di un prodigio. Così ad esempio Hera e Atena fanno echeggiare in cielo un rombo per onorare Agamennone (Il. XI, 45 ss.) o lo stesso Zeus invia una ‘rugiada di sangue’ (Il. XI, 53-5). Fra i prodigi che annunciano la morte di Cesare, Ovidio inoltre ricorda le guttae … cruentae (met. XV, 788) ma, come notato da Barchiesi78, l’interpretazione del “pianto di Zeus” non è estranea a Virgilio. Già Platone ritiene grave che Omero descriva Zeus commuoversi per la morte di Sarpedone (Rep. 388 b-c). Per evidenziare la μίμησις negativa del passo iliadico, Platone cita l’inizio del discorso di Zeus non con ὤ μοι – lezione concordemente tramandata – ma con αἲ αἲ, locuzione estranea ad Omero e riferita a manifestazioni di pianto79. L’influsso di Platone è evidente nell’atetesi operata da Zenodoto sull’intero colloquio di

74 Così nell’Eneide Diana prima della morte di Camilla (XI, 535 ss.) e Giuturna prima della fine di Turno (XII, 872 ss.). 75 Il. V, 662; XII, 402 ss.

76 Cf. P. Chantraine, Les divin et les dieux chez Homère, in “Entr. Hardt” I, Vandoeuvres-Genève 1952, p. 47 ss. (pp. 70- 3); H. Lloyd-Jones, The Justice of Zeus, Berkeley-Los Angeles-London 1971, p. 5.

77 Risultano pertanto errate le letture di R. D. Williams, The Aeneid of Virgil. Books 7-12, Basingstoke-London 19772, p. 352 e R. J. Forman, A Commentary on Vergil, Aeneid 10, New York 1973, p. 200.

78 A. Barchiesi, op. cit., p. 19-24.

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Zeus ed Hera80: sarebbe infatti un’incongruenza che Zeus, ἄκλαυστος, versi lacrime. Di qui l’interpretazione simbolica delle ‘lacrime di sangue’ che si sovrappone a quella corretta del prodigio. La prima, tuttavia, è così forte da divenire l’unica lettura del passo omerico fino ai cristiani81. Tale

lettura influenza anche Virgilio che trasferisce il ‘pianto di Zeus’ – in origine semplice prodigio – alle lacrime di Ercole.

Il colloquio fra Hera e Zeus ha inoltre valore gnomico: anche gli dei sono costretti ad accettare il destino. Nel dimostrare tale principio, Cicerone illustra in questi termini il colloquio fra Hera e Zeus: Si enim nihil fit extra fatum, nihil leuari re diuina potest. Hoc sentit Homerus, cum querentem

Iouem inducit quod Sarpedonem filium a morte contra fatum eripere non posset (diu. II, 25). Virgilio

dunque recupera non solo la lettura simbolica delle lacrime di Giove ma, come Cicerone, anche il valore gnomico del passo omerico. Stat sua cuique dies (467)82: secondo Giove stabilito è a ognuno

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