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Per l'interpretazione del personaggio di Pallante nell'Eneide

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Academic year: 2021

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Dipartimento di Filologia, Letteratura e Linguistica

Corso di Laurea in Filologia e storia dell’antichità

Tesi di Laurea Magistrale

Per l’interpretazione del personaggio di Pallante nell’Eneide

Candidato

Relatore

Camillo Irene

Chiar.mo Prof. Gianfranco Lotito

Correlatore

Chiar.mo Prof. Alessandro Russo

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Ed i lor maschi voi mietean di spada, àlbatri verdi, e rami e ceree polle tesseano a farne un fresco di rugiada feretro molle,

su cui deporre un eroe morto, un fiore, tra i fiori; e mille, eletti nelle squadre,

lo radduceano ad un buon re pastore, vecchio, suo padre.

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Indice

Introduzione 6

I L’incontro e l’addio: genesi e funzione del personaggio di Pallante Premessa 1) L’incontro (VIII, 102-25) 9

2) L’addio (VIII, 554-91) 17

II L’ἀριστεία e l’ἄωρος θάνατος: variazione del modello omerico ed evoluzione del personaggio di Pallante Premessa 1) L’ἀριστεία di Pallante (X, 362-438) 27

2) L’ἄωρος θάνατος di Pallante (X, 439-509) 34

III I compianti funebri e il corteo: reazioni e conseguenze della morte di Pallante Premessa 1) Il compianto funebre di Enea (XI, 29-58) 51

2) Il corteo (XI, 59-99) 58

3) Il compianto funebre di Evandro (XI, 139-81) 67

Conclusione 72

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Introduzione

L’Eneide è un poema epico il cui modello è l’ἔπος omerico. Esiste un complesso di elementi comuni all’Iliade, all’Odissea, alle Argonautiche di Apollonio, al Bellum Poenicum di Nevio, agli

Annales di Ennio e all’Eneide virgiliana: si pensi ad esempio alla ricchezza della tradizione

mitologica o ai valori culturali collettivi. Un poeta, al momento di comporre un poema epico, attinge a questi valori ma al tempo stesso li interpreta in base ad una propria influenza, storicamente e socialmente data: egli infatti è chiamato ad interpretare la sostanza dei contenuti epici mediante precisi significati. Tale operazione – necessaria perché un’opera possa definirsi originale e non ripetizione di contenuti già espressi – non sarebbe possibile se, per assurdo, un poeta non si servisse del linguaggio. In letteratura, infatti, è la forma che comunica la sostanza dei contenuti, non il contrario. Questo perché il linguaggio è la prima istanza del testo con la quale il lettore deve misurarsi: il linguaggio è infatti il mezzo attraverso cui un dato contenuto può esprimersi. Se quindi provassimo ad interpretare un testo senza averlo dapprima colto nella propria forma, il contenuto risulterebbe indecifrabile. Il linguaggio letterario deve, dunque, farsi iconico del contenuto espressivo. Quanto detto vale anche nell’epica antica. È necessario chiedersi quale originalità Virgilio abbia conferito alla qualità epica dell’Eneide. Per intenderci, riprendiamo un celebre esempio di scuola. Come notato da Conte1, Omero intreccia azione divina e azione umana, pur mantenendo tali ambiti su piani individuali. L’epica latina arcaica traduce tale polarità secondo uno schema storico-politico: la contrapposizione divina fra Giove e Giunone si riflette, ad esempio, in quella storica fra Roma e Cartagine. In tal senso è possibile affermare che la polarità uomini/dei viene interpretata alla luce di presupposti storico-ideologici, insiti nel tessuto storico-sociale dei Romani. L’opposizione fra uomini e dei diviene quindi significativa, dotata ossia di determinati significati storico-ideologici. Virgilio, pur mantenendo tale opposizione significativa, carica il tessuto della macrostoria – la contrapposizione ideologica tra Giove/Roma e Giunone/Cartagine – della microstoria degli eventi personali dei personaggi coinvolti. L’opposizione originaria si complica inevitabilmente: lo scontro divino fra Giove e Giunone si riflette nella lotta ideologico-politica tra Roma e Cartagine che a sua volta si riverbera – ed è questa la sostanziale novità – nel conflitto tra Enea e Didone. In tal modo Virgilio non solo rivitalizza lo schema proprio del modello omerico, ma accoglie nell’Eneide anche altri punti di vista. Tale procedimento, ravvisabile in altre sezioni del poema, costituisce la cifra dell’originalità poetica dell’ἔπος virgiliano: in ottemperanza all’oggettività epica, il punto di vista è

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unico tanto in Omero quanto nell’epica latina arcaica; in Virgilio, al contrario, il testo si fa policentrico data la pluralità dei punti di vista. Cosa si intende con punto di vista nell’epica classica? Nient’altro che la “forma di relazione che intercorre tra il sistema semantico del testo e l’universo rappresentato: e propriamente il rapporto di verità che lega il modo della rappresentazione all’oggetto della rappresentazione stessa”2. Enea, ad esempio, vorrebbe fuggire da Cartagine3: per un attimo è il

suo punto di vista ad affiorare a discapito di quello impersonale, e non ancora maturato, del Fato. Se questo vale per Enea, a maggior ragione deve valere per altri personaggi: i punti di vista in Virgilio sono infatti autonomi e plurali. Da tutto ciò scaturisce una conseguenza importante per l’arte poetica di Virgilio: il carattere e il ruolo di ciascun personaggio nell’Eneide risultano di gran lunga più marcati rispetto a quelli degli eroi dell’epica precedente. I protagonisti dell’ἔπος virgiliano esprimono, dunque, con maggiore decisione una propria soggettività tanto in accordo quanto in disaccordo con la volontà del Fato. Questo il motivo del costante scavo psicologico a cui Virgilio sottopone i suoi personaggi. È impossibile dimenticare la follia amorosa di Didone, la violenza di Turno, il dolore di Evandro o la giovinezza di Pallante: sono questi tratti a rendere grandi i personaggi virgiliani. Come lettori potremmo immedesimarci tanto in essi, come in altri personaggi di diversi generi letterari: sarà tuttavia la loro caratterizzazione psicologica, visibilmente ostentata dal poeta, a renderli grandi. Dietro le quinte dell’ἔπος virgiliano si cela quindi la sapiente mano di un autore che aveva letto e studiato i poemi omerici a partire dai quali creò personaggi nuovi. La loro costruzione avrebbe inevitabilmente richiesto maggiore sforzo rispetto all’ammirato modello.

Tali presupposti teorici faranno da cornice al percorso che intendiamo seguire: obiettivo dell’elaborato sarà infatti analizzare il personaggio di Pallante e comprenderne le funzioni. Tra i personaggi dell’Eneide Pallante è sicuramente uno dei più commoventi e caratteristici: la sua giovanissima età, l’eroismo, la morte anzi tempo, l’amore profondo del padre Evandro, il grande affetto di Enea hanno conquistato alla sua figura quasi tutti i lettori dell’Eneide. Nel corso dell’elaborato studieremo come Virgilio sviluppa progressivamente il personaggio fra l’ottavo e l’undicesimo libro, senza dimenticare la sua ultima comparsa nel momento drammatico dell’uccisione di Turno. La sua figura verrà ricostruita a partire dalle relazioni fondamentali: con il padre Evandro Enea e Turno. Osserveremo inoltre come il personaggio travalichi i limiti della sua sola vita e come la sua importanza narrativa ingigantisca nelle imponenti esequie e finisca col suggellare la fine del poema.

2 Conte, op. cit., p. 68 s., nota 10.

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I

L’incontro e l’addio:

genesi e funzione del personaggio di Pallante

- Premessa

Turno ha dato inizio alla guerra. Di notte, su consiglio del dio Tevere, Enea viene inviato da Evandro, re degli Arcadi nemico dei Latini. Una volta giunti presso Pallanteo, Enea e i suoi saranno accolti dal figlio di Evandro, Pallante, e da Evandro stesso durante la festa in onore di Ercole. Enea ed Evandro rammentano le rispettive discendenze e banchettano insieme. Alla fine del banchetto il re Arcade racconta agli stranieri l’origine del culto dell’Ara Maxima. A sera Enea ed Evandro si dirigono lungo i luoghi, ancora selvaggi, dove un giorno sorgerà Roma. Il giorno seguente Evandro ed Enea stringono reciproca alleanza. Pallante, non Evandro, partirà al seguito di Enea. Evandro, piangendo, potrà dargli l’addio.

L’analisi di questo capitolo riguarderà due sezioni del libro VIII: l’incontro con Enea (102-25) e l’addio di Evandro (554-91). All’interno di questi versi, Virgilio presenta le caratteristiche principali del figlio di Evandro. L’analisi seguente, dunque, vorrà svelare i Leitmotive della vicenda di Pallante, senza i quali l’analisi del personaggio non rivelerebbe alcuna produttività. Quando si studia un personaggio di un’opera letteraria, capita alle volte di compiere un errore: del personaggio si colgono due soli aspetti, la fisionomia (laddove espressa) e le vicende. Se così limitata, l’analisi non centrerebbe il suo obiettivo: evidenziare la funzione di quel personaggio all’interno dell’opera. Solo il ruolo, in quanto dato di alterità di un soggetto rispetto all’altro, può distinguere l’originalità di un personaggio. Pallante ha caratteristiche proprie, evidenziate da Virgilio sin dal libro VIII. All’interno dei versi dell’incontro fra Enea e Pallante, il poeta definirà ad esempio le qualità principali del figlio di Evandro: il sentimento religioso, l’audacia, l’ospitalità (102-25). Di seguito Pallante varrà presentato come discepolo di Enea (514-9). L’addio del vecchio Evandro al figlio, intriso di πάθος, definirà la funzione di Pallante quale naturale estensione del vecchio padre, impossibilitato a combattere (554-84). Infine, nel corso della partenza di Pallante, sarà evidenziata da parte del poeta la giovinezza del personaggio (587-91). Queste caratteristiche influenzeranno tutta la vicenda del figlio di Evandro nel corso della sezione iliadica dell’Eneide.

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1) L’incontro (VIII, 102-25)

All’arrivo degli stranieri, il re Evandro sta compiendo un solenne4 rito in onore di Ercole e altri

dei. Sono presenti Pallante, i giovani nobili e il senato:

Forte die sollemnem illo rex Arcas honorem

Amphitryoniadae magno diuisque ferebat ante urbem in luco. Pallas huic filius una,

una omnes iuuenum primi pauperque senatus 105 tura dabant, tepidusque cruor fumabat ad aras. (VIII, 102-6)

Non stupisce il contrasto fra la paupertas del regno Arcade – res inopes (100), pauperque senatus (105) – e la solennità del rito – sollemnem … honorem (102) – dal momento che Virgilio stesso indica tanto la modesta condizione del popolo Arcade quanto la funzione regale di Evandro. Emerge il patronimico Amphitryoniadae che insieme all’attributo magno occupa quasi tutto il v. 103 e sottolinea la solennità del rito dell’Ara Maxima. Ad esso si contrappone il pauperque senatus: il lettore dell’epoca di Virgilio, consapevole della ricchezza dei propri senatori, avrà letto con stupore questa espressione. Allo stesso modo, durante la “passeggiata archeologica” (VIII, 306-69) Evandro mostrerà ad Enea i luoghi della futura Roma e ne illustrerà gli aspetti religiosi: “il poeta fa risaltare un motivo comune e forte dell’ideologia romana, il contrasto fra l’umiltà delle origini e la grandezza imperiale del presente; con questo motivo si unisce strettamente l’altro che l’impero è stato conquistato grazie alle virtù originarie e che con esse dovrà essere conservato”5. Ricordiamo, a tal

4 Non è tanto la solennità quanto la ritualità a creare un’atmosfera religiosa. Naturalmente ciò è in linea con lo spirito del

pius Enea: anche il mondo di Evandro è un mondo di devoti. Enea giunge da Evandro proprio durante il rito dell’Ara Maxima: Virgilio del resto ha assimilato Enea ad Ercole fin dall’inizio dell’opera. Per le vicende del protagonista, fato profugus … saeuae Iunonis ob iram (I, 2-4), si usa spesso la parola labor, corrispondente ad ἆθλος per Ercole (P. McGushin, Vergil and the Spirit of Endurance, “AJPh” 1964, p. 236). Alla fine del suo discorso alla Sibilla, Enea fa riferimento ad Ercole: quin memorem Alciden? et mi genus a Ioue summo (VI, 123). Un racconto epico, cui si ispirarono poeti antichi, riferiva della catabasi di Ercole (H. Lloyd-Jones, Heracles at Eleusis: P. Oxy. 2622 and P.S.I. 1391, “Maia” 1967, p. 206 ss.; R. J. Clark, Catabasis: Vergil and the Wisdom Tradition, Amsterdam 1979, p. 211 ss.). Dopo aver narrato la storia di Caco, Evandro esorta il tal modo l’eroe Troiano: te quoque dignum / finge deo (VIII, 364 s.). Ercole nell’Eneide è, dunque, visto come predecessore di Enea. Ciò è dovuto soprattutto alla predilezione che Augusto avrà avuto per il culto e il mito di Ercole: non a caso egli avrà scelto il 13 agosto, giorno della commemorazione annuale della fondazione dell’Ara Maxima, per le prime celebrazioni del suo triplice trionfo nel 29 a.C. (P. Grimal, Enée à Rome et le triomphe d’Auguste, “REA” 1951, p. 51 ss.). Opportuno precisare, tuttavia, che non abbiamo alcuna indicazione del fatto che Augusto promovesse un accostamento fra la sua persona e il mito di Ercole (G. K. Galisnsky, The Hercules-Cacus Episode in Aeneid VIII, “AJPh” 1966, p. 18 ss.; EV. II, p. 361 s.).

5 A. La Penna, L’impossibile giustificazione della storia. Un’interpretazione di Virgilio, Roma-Bari 2005, p. 349. L’ammirazione per la Roma augustea, ricca di nuovi monumenti, non è dunque in contrasto con l’interesse virgiliano per la Roma arcaica e pastorale. Anche Properzio, all’inizio del libro IV, si presenta da esperto antiquario che accompagna un hospes lungo la città: sul Palatino egli mostra la rupe Tarpea, il Foro Boario, la Curia. Nel discorso emerge il contrasto fra la natura agreste delle origini e lo splendore del presente: evidente ad esempio la semplicità della casa Romuli, umile capanna con un focolare. Allo stesso modo Evandro accompagna Enea dall’Ara Massima al Foro Boario: il vecchio padre mostra all’eroe Troiano l’ara e la porta Carmentale, il bosco dell’Asylum, la grotta del Lupercale, il nemus Argileti, il

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proposito, il ritratto di Evandro in Tito Livio: Euander tum ea, profugus ex Peloponneso, auctoritate

magis quam imperio regebat loca, uenerabilis uir miraculo litterarum, rei nouae inter rudes artium homines (I, 7, 8). Non è tuttavia da attribuire alla povertà degli Arcadi – come vorrebbe Servio (ad loc.) – il fatto che il rito in onore di Ercole si compia all’aperto: ante urbem in luco (103 s.). Già

Andromaca libava al cenotafio di Ettore ante urbem in luco (III, 302). La Cerda6 e Conington7 spiegano inoltre come in un remoto passato i sacrifici di Ercole fossero compiuti proprio all’aria aperta. A sottolineare la solennità del rito è soprattutto l’espressione tura dabant (106), così chiosata da Servio: ‘dabant’ uerbo sacrorum usus est: nam dici solebat in sacris ‘da quod debes de manu

dextra aris’ (ad loc.). Il verbo do, infatti, è tradizionale per i sacrifici8. A conclusione della scena del

sacrificio, Virgilio presenta un’ultima immagine: tepidusque cruor fumabat ad aras. Il sangue è tiepido come quello delle vittime animali del libro VI: supponunt alii cultros tepidumque cruorem /

succipiunt pateris (248 s.)9. Esso evapora e viene presentato sugli altari: il poeta prima fa un generico

riferimento al rito (sollemnem … honorem … ferebat), poi precisa il gesto dell’offerta dell’incenso (tura dabant), infine accenna al sacrificio (tepidusque cruor fumabat ad aras). Quest’ultima descrizione suggella al contempo la solennità e la tranquillità del rito in onore di Ercole, turbata a breve dall’arrivo degli stranieri.

Evidente a livello semantico, la solennità del rito è motivata dalle origini del popolo di cui Evandro è rex. Virgilio infatti precisa l’origine Arcade del re – rex Archas (102) – e pone subito Evandro in relazione al rito in onore di Ercole: sollemnem … honorem / Amphitryoniadae … ferebat (102 s.). Così ancora Tito Livio: (Romulus) sacra dis aliis Albano ritu, Graeco Herculi, ut ab Euandro

instituta erant, facit … (I, 7, 3 ss.). La leggenda di Evandro si pone infatti come momento fondante

del culto romano di Ercole: nelle stesse terre dove sorgerà Roma, Evandro – esule greco – ospita Ercole – eroe greco civilizzatore – e garantisce a quest’ultimo il culto prima della morte. Per questo, all’interno dei versi del libro VIII, Evandro è immerso nell’atmosfera religiosa del rito di Ercole: egli, fondatore del culto dell’Ara Maxima, è dunque uomo pio.

luogo dove sorgerà il tempio di Giove, le rocche di Giano e Saturno, la zona delle Carinae e infine i luoghi dove risiederà Augusto. Come notato da La Penna (L’integrazione difficile. Un profilo di Properzio, Torino 1977, pp. 187 ss.), la rievocazione della Roma primitiva si trova anche nell’elegia a Messalino di Tibullo (II, 5, 23-38): in questo caso la prospettiva è ancora dal Palatino e compare un accenno al Campidoglio.

6 J. L. de la Cerda, P. Virgilii Maronis Posteriores sex libri Aeneidos argumentis, explicationibus notis illustrati, Lione 1617, ad loc.

7 J. Conington – H. Nettleship, P. Vergili Maronis opera (Aeneis VII-XII), Londra 1881, ad loc.

8 CIL I, 9 DEDET TEMPESTATEBUS AIDE MERETO<D>. Tale uso del verbo è inoltre attestato in età augustea: Hor.

carm. IV, 2, 51 s. ciuitas omnis dabimusque diuis / tura benignis; Ovid. met. XII, 3 s. tumulo quoque nomen habenti inferias dederat cum fratribus Hector inanis; Liv. XXVI, 23, 8 quod exta perperam dederat (flamen).

9 A differenza di quest’ultimo passo, Servio (ad loc.) ritiene che per i versi dell’VIII si possa trattare di sangue non animale, bensì umano, “forse di ferite che s’inferivano i celebranti” (L. Canali – E. Paratore, Virgilio. Eneide (VII-VIII), Milano 1985, ad loc.): frustra quidem cruorem pecorum, sanguinem hominum uolunt: iam Iuuenalis ait (XII, 13) ‘sanguis iret et a magno ceruix feriendo magistro, Vergilius (IV, 687) ‘atque atros siccabat ueste cruores’.

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Date tali basi, conviene ora esaminare le implicazioni della religiosità del padre Evandro sul personaggio di Pallante. Significativo che nel corso del rito Pallante per primo figuri accanto al vecchio padre. A differenza di omnes iuuenum e di pauper senatus la cui vicinanza ad Evandro è solo spaziale – una (105) – Pallante è vicino ad Evandro e ne è il figlio: huic filius una (104). Pallante è infatti l’unico figlio di Evandro e il suo personaggio è tratto da una precisa forma della tradizione greca. Pausania menziona infatti un Pallante fondatore della città Arcade di Pallantion, di fatto proiezione eponomastica del nome della città: Πάλλας μὲν καὶ Ὀρεσθεὺς καὶ Φίγαλος Παλλάντιον, Ὀρεσθεὺς δὲ Ὀρεσθάσιον, Φιγαλίαν δὲ οἰκίζει Φίγαλος (VIII, 3, 1-2). Secondo Virgilio, tuttavia, non deriverebbe da Pallantion il nome del Palatino, bensì da un proauus di Evandro, di nome Pallante:

Arcades his oris, genus a Pallante profectum, / qui regem Euandrum comites, qui signa secuti, / delegere locum et posuere in montibus urbem / Pallantis proaui de nomine Pallanteum (VIII, 51-4).

La tradizione seguente, nota a Virgilio, fa di Pallante il figlio di Ercole e della figlia di Evandro. Così riferisce ad esempio Polibio (apud Dion. Hal. I, 32, 1): ὡς δέ τινες ἱστοροῦσιν, ὧν ἐστι καὶ Πολύβιος ὁ Μεγαλοπολίτης, ἐπί τινος μειρακίου Πάλλαντος αὐτόθι τελευτήσαντος· τοῦτον δὲ Ἡρακλέους εἶναι παῖδα καὶ Λαύνας τῆς Εὐάνδρου θυγατρός· χώσαντα δ' αὐτῷ τὸν μητροπάτορα τάφον ἐπὶ τῷ λόφῳ Παλλάντιον ἐπὶ τοῦ μειρακίου τὸν τόπον ὀνομάσαι. Varrone – apud Seru. (ad Aen. VIII, 51) – riprende questa tradizione: mons Palatinus … secundum Varronem at alios a filia Euandri Pallantia,

ab Hercule uitiata et postea illic sepulta. Servio e il Danielino (ad loc.) ammettono anche un’altra

versione che fa di Pallante il figlio dello stesso Evandro; costui – per giunta morto prematuramente – sarebbe rimasto vittima di una sedizione: uel certe a Pallante eius filio illic sepulto (Dan.) inmaturae

aetatis: alii a filio Euandri, qui post mortem patris seditione occisus est. Virgilio ha recuperato parte

di questa tradizione, senza però privare il personaggio di Pallante del tradizionale legame con Ercole. Alla sua prima apparizione, infatti, Pallante si presenta come il figlio di Evandro intento, dopo il padre, ad offrire sacrifici all’antico ospite e sarà proprio in virtù di tale hospitium che Pallante rivolgerà la preghiera ad Ercole prima dello scontro con Turno: ‘per patris hospitium et mensas, quas

aduena adisti /te precor, Alcide, coeptis ingentibus adsis’ (X, 460 s.). Pallante è dunque legato ad

Ercole, non individualmente ma come famiglia e popolo: è perciò a lui che sacrifica nell’VIII e si appella nel X.

È a causa della forte devozione per Ercole – oltre che per uno scrupolo religioso in generale – che Pallante, all’arrivo delle navi, impedisce che il rito venga interrotto e con audacia va incontro agli stranieri:

ut celsas uidere rates atque inter opacum adlabi nemus et tacitos incumbere remis, terrentur uisu subito cunctique relictis

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consurgunt mensis. audax quos rumpere Pallas 110 sacra uetat raptoque uolat telo obuius ipse et procul e tumulo: (…) (VIII, 107-12)

La leggerezza delle navi di Enea, che scivolano all’interno del bosco ombroso, è espressa da adlabi (108). Anche i rematori sono silenziosi: tacitos incumbere remis (ibid.)10. Tale silenzio non impedisce

tuttavia agli Arcadi di vedere l’arrivo degli stranieri. Le navi da guerra dei Troiani sono infatti così alte – celsas rates (ibid.)11 – che a vederle sono tutti gli Arcadi i quali, terrorizzati dall’arrivo non

annunciato delle navi – terrentur uisu subito (109) – lasciano le mense sacrificali e si alzano12.

L’arrivo, in effetti, appare improvviso poiché le navi sono nascoste per il tratto precedente dai boschi che ricoprono le rive; il silenzio delle ciurme poi non rivela la loro presenza: al loro apparire le navi sono ormai vicine, dal momento che nessuno le ha sentite o viste risalire il fiume. Di qui la sorpresa, lo sconcerto e il grande spavento: terrentur. Pallante, audax (110), non permette tuttavia che si interrompa il rito in onore di Ercole: brandisce una lancia, si slancia verso gli stranieri e da un rialzo della riva li chiama13. Pallante è l’unico a correre – telo obuius (111) – verso gli stranieri, gli altri invece si limitano a consurgere (110). L’audacia rappresenta, dunque, la qualità principale del suo personaggio. Essa si esprime nella rapidità della sua reazione e nel coraggio con cui fronteggia un’eventuale minaccia. Significativa, in modo particolare, la rapidità del suo intervento. Pallante ordina di proseguire il sacrificio in onore di Ercole, corre armato verso i Troiani e così si rivolge: (…) ‘iuuenes, quae causa subegit

ignotas temptare uias? quo tenditis?’ inquit,

‘qui genus? unde domo? pacemne huc fertis an arma?’ (VIII, 112-14)

10 Alla variante tacitis è da preferire la lezione tacitos: così Mynors (R. A. B. Mynors, P. Vergili Maronis Opera, Oxford 1969) e Conte (G. B. Conte, P. Vergilius Maro, Aeneis, Berlino 2005). Scelgono tacitisHeyne (C. G. Heyne, Publius Vergilius Maro (7-12), Lipsia-Londra 1833), Conington, (op. cit.), e Hirtzel (F. A. Hirtzel, P. Vergili Maronis Opera, Oxford 1900); tacitos MPRVωγ, Tib.: tacitis dfkzy, Seru. Non convince il ragionamento di Paratore che legge tacitis (op. cit., ad loc.): “adlabi, concordato con incumbere, ha per soggetto celsas … rates, che può metonimicamente funzionare anche da soggetto di incumbere”. Come potrebbero le navi ‘piegarsi’ sui remi? Sono piuttosto i rematori – silenziosi (tacitos) – a piegarsi sui remi (incumbere remis).

11 Nell’Eneide l’aggettivo celsus compare nove volte in ambito nautico (I, 183; II, 375; III, 527; IV, 396 s.; 554; VIII, 107, 680; X, 261; 653). Qui sottolinea quanto le navi appaiano grandi agli Arcadi.

12 Chiaro esempio di ὕστερον πρότερον.

13 Colpisce l’osservazione del Pascoli (G. Pascoli, Epos, Livorno, 1897, ad loc.): “la grazia di questo particolare mi ricorda le filatrici di lana trasparente, sui sedili di cristallo, coi capelli sparsi per il collo bianco: tra loro è Arethusa, la cacciatrice, che non può star ferma un momento. Suona, in quella profondità di fonte, una voce di pianto: le filatrici tremano: a fior dell’onda è già un capino biondo, che guarda chi è che piange. Arethusa è accorsa”. Pascoli si riferisce a Georg. IV, 334-52: sed ante alias Arethusa sorores / prospiciens summa flauum caput extulit unda. Tale memoria poetica, sebbene elaborata – essa infatti non compare in altri commenti – conferma la consueta originalità interpretativa del Pascoli: simili analogie, per nulla scontate, necessitano infatti di una sensibilità poetica, propria di un poeta del suo calibro.

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Il figlio di Evandro vuole sapere dagli stranieri il motivo del loro arrivo, il loro itinerario, la stirpe, la patria – qui genus? unde domo? (114)14 – e se infine vengono in pace o in guerra. Pallante in questo caso sta proteggendo il suo popolo dagli stranieri che con alte navi – dunque navi da guerra – sono improvvisamente entrati nel territorio Arcade. Si badi: non è Evandro, re degli Arcadi, che ordina di proseguire il rito e va incontro allo straniero, bensì suo figlio. Ciò è significativo del ruolo che in seguito verrà assunto da Pallante: egli – giovane – sostituirà il vecchio padre in guerra. Per definire tale ruolo, si parlerà d’ora in avanti di Pallante quale ‘estensione del padre Evandro’. Le azioni di questi versi anticipano l’ardore che il guerriero Pallante mostrerà durante la battaglia del X libro, quando rinsalderà le schiere Arcadi con le parole e l’esempio e richiamerà, nuovo comandante degli Arcadi, i propri combattenti al senso dell’onore (X, 362-438). Pallante già qui mostra, in nuce, la capacità di difendere e guidare il suo popolo. Sarà tuttavia la sua audacia, conseguenza del laudis

amor, a condurlo verso lo scontro impari con Turno: in questo caso non saranno degne di gloria né la

vita né la vittoria, ma la sua morte gloriosa.

Servio nota un’interessante analogia. L’attributo audax è emblematico anche di Turno: Irim

de caelo misit Saturnia Iuno / audacem ad Turnum (IX, 2 s.). La ragione, sempre secondo Servio, di

tale analogia con Pallante consisterebbe nel fatto che l’audacia di entrambi è sine fortuna: “‘audacem’ autem ubique dicit Vergilius, quotiens uult ostendere uirtutem sine fortuna: unde etiam

Turnum audacem uocat” (ad loc.). Sarebbe tuttavia sbagliato porre a confronto l’audacia di Turno e

di Pallante, personaggi profondamente diversi. L’audacia di Turno è certamente una delle qualità che più lo distingue: è la sua temerarietà, priva di ponderazione e moderazione. Egli è audax sin dall’incontro con Alletto: protinus hinc fuscis tristis dea tollitur alis / audacis Rutuli ad muros (VII, 408 s.)15. Non è da escludere tuttavia che Virgilio abbia definito alcuni dei risvolti più nobili del personaggio di Turno, più complesso peraltro del figlio di Evandro. All’interno del noto concilium dei Latini (XI, 225-444) non si può, infatti, che guardare con ammirazione al coraggio di Turno e di contro deplorare la calunniosa viltà di Drance. Ciò che invero risulta venir meno alla dignità bellica di Turno è la grauitas propria del re Latino. La risolutezza di Turno è ancora “disumanamente feroce e sarcastica. Il caso più notevole è, naturalmente, l’uccisione di Pallante. Qui non offende soltanto la sua tracotanza verso un giovane a lui impari per esperienza e per forze, ma la crudeltà verso il vecchio

14 Implicito il richiamo all’Odissea: τίς πόθεν εἰς ἀνδρῶν; πόθι τοι πόλις ἠδὲ τοκῆες; (I, 170). Qui genus è un accusativo di relazione, tipico costrutto della sintassi greca – come ad esempio in ἐξ Ἰθάκης γένος εἰμί (Od. XV, 267) – impiegato altrove nell’Eneide: Cressa genus, Pholoe (V, 285). Unde domo ricorda inoltre l’oraziano abi, quaere et refer, unde domo, quis, cuius fortunae, quo sit patre quoue patrono (ep. I, 7, 53 s.).

15 Simili ed entrambi riferiti a Turno IX, 126 at non audaci Turno fiducia cessit e X, 276 s. aut tamen audaci Turno

fiducia cessit / litora praecipere. Audaces inoltre sono tutti i Rutuli, non solo il loro re: VII, 475 dum Turnus Rutulos animis audacibus implet; IX, 518 s. nec curant caeco contendere Marte / amplius audaces Rutuli. Cf. M. N. Wetmore, Index verborum Vergilianus, Yale 1911 ad loc.; H. Merguet, Lexicon zu Vergilius, Lipsia 1912 ad loc.

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padre Evandro”16. Turno, inoltre, non è vile come Arrunte, la cui ambiziosa codardia è causa della

morte di Camilla. Celebre il suo paragone: lupus / conscius audacis facti (XI, 812 s.). Turno, infine, non è paragonabile a Mezenzio, comtemptor diuom. La sua audacia è tuttavia pura violenza.

Definire le caratteristiche dell’audacia di Pallante implicherà un esame ‘morale’ del nostro personaggio, delle sue qualità interne, tenendo presente il suo ruolo all’interno della narrazione. L’audacia di per sé non è una uirtus. Anche Catilina è audax: animus audax, subdolus, uarius, cuius

rei lubet simulator ac dissimulator, alieni adpetens sui profusus, ardens in cupiditatibus; satis eloquentiae, sapientiae parum (Sall. Cat. 5). Nel Protagora platonico l’interlocutore di Socrate fa

presente come molti uomini vili abbiano coraggio da vendere: εὑρήσεις γὰρ πολλοὺς τῶν ἀνθρώπων ἀδικωτάτους μὲν ὄντας καὶ ἀνοσιωτάτους καὶ ἀκολαστοτάτους καὶ ἀμαθεστάτους, ἀνδρειοτάτους δὲ διαφερόντως (349 d 6-8). Protagora tuttavia distingue l’ἀνδρεία dalle altre quattro virtù citate da Socrate (sapienza, temperanza, giustizia e santità): Ἀλλ' ἐγώ σοι, ἔφη, λέγω, ὦ Σώκρατες, ὅτι ταῦτα πάντα μόρια μέν ἐστιν ἀρετῆς, καὶ τὰ μὲν τέτταρα αὐτῶν ἐπιεικῶς παραπλήσια ἀλλήλοις ἐστίν, ἡ δὲ ἀνδρεία πάνυ πολὺ διαφέρον πάντων τούτων (349 d 1-5). Protagora sembra dunque intendere l’ἀνδρεία nel senso di audacia: quest’ultima, come in seguito verrà chiarito da Socrate, nel caso degli insipienti è al contrario pura follia (349 e – 351 b 2). In Virgilio il termine audacia possiede diversi significati. Essa consiste talvolta nella capacità di innovare, come Virgilio dice di sé quale auctor della poesia bucolica a Roma: me … dulcis alebat / Parthenope studiis florentem ignobilis oti, /

carmina qui lusi pastorum audaxque iuuenta (Georg. IV, 563-5). L’ampiezza semantica del termine

è tale da far pensare anche al significato negativo di ὕβρις come nel caso di Giuturna, il cui estremo tentativo di salvare Turno dalla morte è inaccettabile agli occhi di Giunone: quod Venus audaci

Nymphae indignata licere / accessit (XII, 786 s.).

Oltre al sentimento religioso e all’audacia, un ultimo tratto significativo del personaggio di Pallante emerge dai versi seguenti:

tum pater Aeneas puppi sic fatur ab alta 115 paciferaeque manu ramum praetendit oliuae:

‘Troiugenas ac tela uides inimica Latinis, quos illi bello profugos egere superbo. Euandrum petimus; ferte haec et dicite lectos

Dardaniae uenisse duces socia arma rogantis.’ 120 obstupuit tanto percussus nomine Pallas:

‘egredere o quicumque es’ ait ‘coramque parentem adloquere ac nostris succede penatibus hospes.’

16 A. La Penna, Virgilio e la crisi del modo antico, prefazione a: Publio Virgilio Marone, Tutte le opere, a. c. di E. Cetrangolo, Firenze 1966, LXXI.

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excepitque manu dextramque amplexus inhaesit;

progressi subeunt luco fluuiumque relinquunt. 125

(VIII, 115-25) Enea protende con la mano un ramo d’olivo, in segno di pace, e rassicura Pallante circa la propria

origine: il figlio di Evandro ha dinanzi a sé dei Troiani, nemici dei Latini e desiderosi di incontrare Evandro per stringere con questi un’alleanza, in vista dell’imminente guerra contro Turno. Evidente lo stupore di Pallante per la discendenza troiana di Enea: obstupuit tanto percussus nomine Pallas (121)17. Il figlio di Evandro accorda dunque ospitalità ad Enea. I due entrano nel bosco sacro e lasciano il fiume: lo ὕστερον πρότερον in tal caso serve ad evidenziare la fine della scena. Secondo quanto previsto dalle convenzioni del modello omerico, Pallante ospita l’eroe Troiano, senza tuttavia essere a conoscenza del suo nome: gli è bastato infatti venire a sapere l’origine Troiana degli stranieri. Il giovane accoglie Enea stringendogli forte la mano destra: excepitque manu dextramque amplexus

inhaesit (124). Sembra, più che un’accoglienza, già un vero segno di amicizia, come quella ormai

prossima fra Enea ed Evandro. Vengono in mente le parole piene di rimorso del compianto di Enea:

non haec Euandro de te promissa parenti / discedens dederam, cum me complexus euntem mitteret in magnum imperium (XI, 45-7). Di tale accoglienza, tuttavia, sarà lo stesso Pallante a pagare le

conseguenze. Dopo aver ucciso questi, rivolto idealmente ad Evandro, Turno esclamerà: qualem

meruit, Pallanta remitto (X, 492). Pallante pagherà con la morte l’ospitalità accordata ad Enea e

l’alleanza fra Arcadi e Troiani. Per questo l’audacia di Pallante – come scrive Servio – è sine fortuna: egli, al pari di Turno è atteso, da un destino di sventura. Turno infatti ucciderà il giovane Pallante: l’audacia di quest’ultimo verrà tuttavia ripagata, alla fine del poema, dalla fides di Enea che non verrà meno all’hospitium offerto da Pallante ed Evandro. Uccidendo Turno, Enea vendicherà inoltre la morte di Pallante, pronto ad imparare dal magister Enea, secondo quanto voluto dal padre Evandro. Quest’ultimo infatti sarà troppo vecchio per combattere: il figlio lo sostituirà apprendendo da Enea le realtà di guerra. Nei versi successivi Pallante è infatti accanto al padre durante l’incontro mattutino con Enea ed Acate (466). Infine, dopo il percorso lungo i luoghi primitivi di Roma, Evandro affida il figlio ad Enea:

‘hunc tibi praeterea, spes et solacia nostri,

17 Ben costruita appare la sintassi di questo verso: obstipuit e Pallas, predicato e soggetto rispettivamente aprono e chiudono il verso; percussus, predicativo, affiancato al centro del verso dal complemento nomine e dall’attributo di questi, tanto. Il verso ricorda vagamente obstipuit primo aspectu Sidonia Dido (I, 613). Pallante nell’ospitare Enea dice in seguito: ac nostris succede penatibus hospes. A ragione si potrebbe richiamare ancora la medesima scena del libro I: quare agite o tectis, iuuenes, succedite nostris (627). Durante la preparazione del feretro di Pallante (XI, 59-99), Enea estrae inoltre due drappi intessuti da Didone. Di uno di questi viene ricoperto il miserabile corpus del giovane figlio di Evandro. Nel corso dell’analisi di quei versi (Capitolo III, 2 infra) verrà offerto un confronto fra i due personaggi di Didone e Pallante.

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Pallanta adiungam: sub te tolerare magistro 515 militiam et graue Martis opus, tua cernere facta adsuescat primis et te miretur ab annis.

Arcadas huic equites bis centum, robora pubis

lecta dabo, totidemque suo tibi nomine Pallas.’ (VIII, 514-9)

Il vecchio padre offre anche duecento cavalieri per l’alleanza. Altri duecento vengono offerti suo

nomine da Pallante il quale, dunque, aveva già il comando di alcuni reparti. Pallante costituisce la

sola speranza per il futuro e l’unica consolazione di Evandro nella sua vecchiaia. Spes et solacia

nostri (514): egli, molto giovane, è l’unico figlio di un re, ormai anziano. Data l’età del padre, sarà

dunque Pallante a combattere tra le file di Enea. Evandro è costretto a sostituire sé con Pallante, da ora affidato ad Enea. Con tale gesto, Evandro presenta Enea quale magister del giovane figlio. Di tale comportamento si possono rammentare illustri precedenti epici, in modo particolare Nestore, che fa accompagnare Telemaco a Sparta dal figlio Pisistrato18, e Lico che affida come guida a Giasone il figlio Dascilo19. Già Eden20 e Conington21 evidenziavano alcune analogie fra l’arrivo di Enea presso gli Arcadi e quello di Telemaco a Pilo: situazioni analoghe ma non uguali. Quale dunque la novità virgiliana nel gesto di Evandro?

Nel caso dell’Odissea e delle Argonautiche le azioni di Nestore e di Lico si presentano come dati mitologici riferibili a gesti di ξενία epica. All’interno dei versi virgiliani, il poeta recupera e al contempo innova tale modulo epico: Pallante non dovrà solo accompagnare Enea ed essergli accanto in battaglia. La motivazione della propria militia tra le fila di Enea è dapprima educativa. L’educazione a Roma prevedeva infatti un momento di preparazione alla carriera politica. Nel comporre questi versi è evidente come Virgilio, pur guardando alla tradizione epica come modello principale dell’Eneide, sia stato influenzato dalle modalità dell’educazione romana. Egli ha trasferito dati socio-politici, propri della παιδεία romana, al mondo eroico-guerriero dell’ἔπος. È tuttavia evidente, a maggior ragione, l’influenza dell’educazione omerica. Com’è noto, l’eroe omerico vive e muore per incarnare l’ideale dell’ἀρετή, e per questo deve affermarsi come il migliore e distinguersi dagli altri: αἰὲν ἀριστεύειν καὶ ὑπείροχον ἔμμεναι ἄλλων (Il. VI, 208). Fine dell’eroe omerico è dunque l’ἀριστεία che lo “classificherà al primo posto davanti agli uomini, davanti ai viventi, e forse davanti alla posterità: ecco perché l’eroe vive e perché muore”22. Perché ciò avvenga, l’eroe ha però

bisogno di trarre ispirazione da alcuni modelli del passato. Fenice ad esempio propone ad Achille le

18 Od. III, 475 s. παῖδες ἐμοί, ἄγε Τηλεμάχῳ καλλίτριχας ἵππους / ζεύξαθ' ὑφ' ἅρματ' ἄγοντες, ἵνα πρήσσῃσιν ὁδοῖο. 19 Apoll. II, 804 s. ξυνῇ μὲν πάντεσσιν, ὁμόστολον ὔμμιν ἕπεσθαι / Δάσκυλον ὀτρυνέω, ἐμὸν υἱέα.

20 P. T. Eden, A Commentary on Vergil, Aeneid VIII, “Mnemosyne” Suppl. XXXV 1975, ad loc. 21 Ad loc.

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gesta di Meleagro: οὕτω καὶ τῶν πρόσθεν ἐπευθόμεθα κλέα ἀνδρῶν / ἡρώων (…) μέμνημαι τόδε ἔργον ἐγὼ πάλαι οὔ τι νέον γε / ὡς ἦν … (Il. IX, 520 ss.). Atena persuade Telemaco attraverso l’esempio di Oreste: οὐδέ τί σε χρὴ / νηπιάας ὀχέειν, ἐπεὶ οὐκέτι τηλίκος ἐσσί. / ἦ οὐκ ἀΐεις οἷον κλέος ἔλλαβε δῖος Ὀρέστης / πάντας ἐπ' ἀνθρώπους, ἐπεὶ ἔκτανε πατροφονῆα, / Αἴγισθον δολόμητιν (Od. I, 296-300). Allo stesso modo Pallante dovrà abituarsi, sotto la guida di Enea, a sopportare la faticosa vita militare, osservare le gesta del magister ed infine ammirarlo dai primi anni: sub te

tolerare magistro / militiam et graue Martis opus, tua cernere facta / adsuescat primis et te miretur ab annis (515-7). Enea dunque dovrà preparare Pallante alla battaglia e fungere da παράδειγμα per il

figlio di Evandro: quella di Pallante è dunque una vera e propria iniziazione alla guerra. Non a caso, di ritorno dall’Etruria, Pallante in piena notte porrà domande ad Enea circa la navigazione e le sue peregrinazioni per mare e per terra: domande che riveleranno l’ambizione del giovane Pallante e la sua voglia di imparare da Enea. Egli, prima inconsapevole delle realtà di guerra, durante la battaglia del X libro saprà esprimere la sua abilità di comandante tanto da guidare con ardore le schiere Arcadi e affrontare Turno con violenza: cernat semineci sibi me rapere arma cruenta / uictoremque ferant

morientia lumina Turni (X, 462 s.). Tuttavia, non appena Pallante avrà appreso tali realtà di guerra e

sarà divenuto valido comandante degli Arcadi, la sua audacia soccomberà dinanzi alla superbia di Turno. Il vecchio padre, del resto, era consapevole che solo i fati avrebbero determinato la vita o la morte del figlio: Evandro si dirà pronto ad entrambe le sorti e prima di salutare il figlio rivolgerà una preghiera agli dei.

2) L’addio (VIII, 554-91)

L’addio di Evandro è preceduto dall’intervento della Fama, diffusa nella modesta città Arcade. Essa ha il compito di annunciare l’immediata partenza dei cavalieri Arcadi e Troiani i quali si recheranno in seguito da Tarconte:

Fama uolat paruam subito uulgata per urbem

ocius ire equites Tyrrheni ad litora regis. 555 uota metu duplicant matres, propriusque periclo

it timor, et maior Martis iam apparet imago. (VIII, 554-7)

La celerità dei cavalieri emerge nell’avverbio ocius. Quest’ultimo ha valore positivo, non è un comparativo: esso dunque va inteso come sinonimo di celeriter e richiama il greco ὠκέως 23.

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L’espressione Fama uolat, inoltre, non è estranea al linguaggio dell’Eneide. Il sostantivo fama, seguito a inizio verso dal bisillabo uolat in cesura, è una formula presente altrove nell’Eneide: Fama

uolat pulsum regnis cessisse paternis / Idomenea ducem (III, 121 s.). È possibile indicare un parallelo

che darà rilievo ai versi virgiliani. Al lettore dell’Eneide non risulterà casuale come il preludio ai versi dell’addio di Evandro presenti forti analogie con i versi che precedono il compianto dello stesso Evandro al figlio, ormai defunto, nel libro XI. La consonanza fra i due passi è determinata soprattutto dal linguaggio ricco di πάθος adoperato da Virgilio, il quale insiste su questa affinità con evidenti paralleli. Deliberata l’analogia fra i primi versi di entrambi i passi. Come nel libro VIII si legge: Fama

uolat paruam subito uulgata per urbem (554), così nell’XI: Et iam Fama uolans, tanti praenuntia luctus (139). Non basta la sola Fama. In entrambi i passi le protagoniste sono le stesse: uota metu duplicant matres (VIII, 556) – matres … maestam incendunt clamoribus urbem (XI, 146 s.). Nei versi

dell’VIII libro, inoltre, l’enallage nell’attribuzione di proprius a timor (556 s.), intensificata dall’allitterazione di p e r, comunica la paura delle matres: in un primo momento esse pregano, in seguito il loro timore aumenta all’approssimarsi del pericolo. Quello delle matres è infatti un timore sempre più incombente – it proprius – il cui πάθος è rafforzato dall’imponente comparsa – maior

apparet – dell’imago Martis: “così nel momento supremo della partenza si disabbelliscono i sogni e

fuggono le speranze e le illusioni”24. Questo il commento del Pascoli che segue l’interpretazione di

Servio, secondo cui il testo andrebbe così inteso: le madri, per paura, rendono il timore più vicino al pericolo. Le parole di Servio sono inequivocabili: “‘it proprius’ id est ad periculum uicinus” (ad loc.). Tale esegesi si avvale – senza fondamento – del confronto del Danielino con le Georgiche: neu

proprius tectis taxum sine neue rubentis / ure foco cancros (IV, 47 s.). Premessa la totale alterità di

questo passo rispetto ai versi del libro VIII, l’esegesi serviana sembra non cogliere l’effetto retorico di proprius: riferito a timor per enallage, esso è da collegare logicamente a periclo. A tal proposito viene spontaneo richiamare un passo della Retorica aristotelica: τοῦτο γάρ ἐστι κίνδυνος, φοβεροῦ πλησιασμός (II, 1382a). All’interno della proposizione, l’enallage conferisce dunque maggiore emotività alla paura delle matres. Il testo comunica infatti una κλῖμαξ del timore che, da essere prima causa delle preghiere delle matres, diviene in seguito puro terrore al cospetto di Marte. Notevole in relazione a ciò lo studio sulle matres condotto da Bonfanti25. Tale lavoro scorge nelle matres virgiliane allusioni alle più note τειχοσκοπίαι omeriche, soprattutto quelle della fine dell’Iliade. L’originalità delle matres virgiliane è tuttavia riconosciuta dalla stessa studiosa, nonostante la

23 Servio (ad loc.): “positiuus antiquus est, i. e. ‘celeriter’; nec enim potest esse comparatiuus ubi nulla est comparatio”. Conclude il Danielino: “tractum ex Graeco ὠκέως”.

24 Pascoli, op. cit., ad loc.

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somiglianza tra il lamento funebre latino e quello greco26. Le matres, che nel libro VIII pregano e nell’XI si disperano, non sono le uniche a comparire in entrambe le circostanze, messe ora a confronto. I guerrieri, che partono ora intrepidi, torneranno poi piangendo: ocius ire equites Tyrreni

ad litora regis (VIII, 554) – contra turba Phrygum uenies plangentia iungit / agmina (XI, 145 s.).

Ciò che leggiamo all’interno versi del libro XI – maestam urbem (146) – altro non è che il compimento di quanto anticipato nel libro VIII: propriusque periclo / it timor (556).

I versi che precedono il compianto dell’XI vanno dunque letti in continuità con gli stessi versi che precedono l’addio del libro VIII. Tale continuità prepara il lettore ad un’altra affinità: i versi dell’addio di Evandro al figlio costituiscono con i versi del compianto di Evandro (XI, 148-81) un “dittico particolarmente patetico”27. Ora infatti vedremo l’addio al figlio Pallante, giovane in partenza

per la guerra, in seguito si assisterà all’addio al figlio, morto in guerra. Il personaggio di Pallante è inseparabile dal padre Evandro e con lui forma una coppia. Egli tuttavia non parla né in questo addio né – ovviamente – nell’ultimo. La sua funzione dipenderà dunque dalle sole parole del padre, tanto nell’VIII quanto nell’XI: sono infatti gli interventi paterni a definire l’evoluzione del personaggio di Pallante. Prima di salutare il figlio, Evandro è commosso:

tum pater Euandrus dextram complexus euntis haeret, inexpletus lacrimis, ac talia fatur:

(VIII, 558 s.) Il vecchio padre non rinuncerà mai alla, pur vana, speranza di rivedere vivo suo figlio. Egli è spe

captus inani (XI, 49). Solo dinanzi al miserabile corpus del giovane figlio potrà esclamare: nulli exaudita deorum / uota precesque meae! (XI, 157 s.). Tarda ἀναγνώρισις, quest’ultima, della volontà

del Fato. Prima di dire addio al figlio, egli piange: tum pater Euandrus dextram complexus euntis /

haeret, inexpletus lacrimans (558 s.). Evandro – scrive Virgilio – è ‘insaziato’ di pianto: inexpletus lacrimans. La giustapposizione sintattica dei due participi, uno perfetto con funzione predicativa,

l’altro presente, esprime l’inappagabile pianto di Evandro. Questi, sebbene spe captus inani, è consapevole del fatto che Pallante potrebbe non tornare vivo in patria: a breve sarà egli stesso a dirlo. Poiché costretto a non poter combattere, Evandro invia suo figlio e nutre la vana speranza, espressa

26 Basterà pensare alla τειχοσκοπία virgiliana nel finale del libro XI: e speculis percussae pectora matres / femineum

clamorem ad coeli sidera tollunt (XI, 877s.). L’importanza di questo episodio è sottolineata dai versi successivi: ipsae de muris summo certamine matres / monstrat amor uerus patriae - ut uidere Camillam, / tela manu trepidae iaciunt ac robore duro / stipitibus ferrum sudibusque imitantur obustis / praecipites primaeque mori pro moenibus ardent (XI, 891-5). Camilla è morta, il suo coraggio permane tuttavia nelle matres dei Latini le quali, alla fine del libro XI, si presentano come sua estensione. Nel libro VIII le madri Arcadi pregano e temono la morte dei propri figli. Nell’XI gli sforzi delle madri Latine saranno vani: non rivedranno mai più in vita i loro figli a cui le mura sono state serrate e non resta che soccombere ai Troiani.

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dalle lacrime incessanti, del ritorno in patria di Pallante vivo. Virgilio ha reso il pianto di Evandro degno di συμπάθεια: intriso di πάθος è infatti tutto il dolore del vecchio padre. Questi non è semplicemente inexpletum lacrimans, come vorrebbe una sintassi non particolarmente marcata. Non a caso inexpletum è lezione di prima mano del Palatino e della mano correttrice del Guelferbytanus: questa lezione rappresenta dunque una semplificazione del costrutto con doppio participio, reso quindi mediante un sintagma affine, solo per il significato originario, a inexpletus lacrimans 28. A difesa della lezione inexpletus si potrebbe addurre in un primo momento la chiosa di Servio: “multi

hic distinguunt ut sit ‘inexpletus haesit et talia locutus est lacrimans’; alii legunt ‘inexpletus lacrimis’; honestius tamen est ‘inexpletum lacrimans’ ut sit nomen pro aduerbio” (ad loc.).

Risultano, inoltre, analoghi alla lezione inexpletus lacrimans gli esempi addotti da Conington29:

saxosus sonans (Georg. IV, 370); lenis crepitans (III, 70); creber … adspirans (V, 764). Da tenere

presenti anche altri passi paralleli: arduus arma tenens (VIII, 299); immensus surgens lacrimis (XI, 832). In tutti i casi la prima componente del sintagma è avverbiale. Nei versi del libro VIII, dunque, lo scarto semantico prodotto da inexpletus è imparagonabile all’immediatezza dell’avverbiale

inexpletum. Tale scelta sintattica amplifica il πάθος del pianto di Evandro che così si rivolge:

‘o mihi praeteritos referat si Iuppiter annos, 560 qualis eram cum primam aciem Praeneste sub ipsa

straui scutorumque incendi uictor aceruos et regem hac Herulum dextra sub Tartara misi, nascenti cui tris animas Feronia mater

(horrendum dictu) dederat – terna arma mouenda, 565 ter leto sternendus erat; cui tunc tamen omnis abstulit haec animas dextra et totidem exuit armis -: non ego nunc dulci amplexu diuellerer usquam nate, tuo, neque finitimo Mezentius umquam, huic capiti insultans tot ferro saeua dedisset 570 funera, tam multis uiduasset ciuibus urbem. (VIII, 560-71)

È possibile articolare i versi dell’addio di Evandro in tre parti. Nella prima (560-71) compare il rimpianto dell’anziano Evandro il quale non è in grado di ripetere le gesta passate. Come spunto di questo addio, Virgilio ha tenuto presente il rimprovero che Nestore rivolge ai Danai i quali si attardano a combattere contro Ettore (Il. VII, 132 ss.). Da ricordare inoltre un secondo episodio dell’Iliade, quello sempre di Nestore che chiede a Patroclo di richiamare Achille in battaglia (XI, 668

28 Cfr. Conte, (G. B. Conte, P. Vergilius Maro, Aeneis, Berlino 2005): inexpletus MP(1) (in ras., ex inexpletum fide Ribb.,

Sabb. et Geym.) bdjrtwzy: inexpletum ωγ1: inpletus R: in amplexu ac. 29 Op. cit., ad loc.

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ss.). In entrambi i passi Nestore incoraggia i Greci rammentando il suo glorioso passato bellico. Egli ha infatti un unico compito: ammonire i Danai30. Nestore non ricorda le sue gesta con lo stesso rimpianto di Evandro né dovrà separarsi da qualcuno che per questo faccia le sue veci in battaglia. Evandro un tempo combatté contro il re Erulo, ora invece è costretto per l’età ad inviare suo figlio in guerra. È ancora l’impossibilità di combattere da parte di Evandro ad aver facilitato le stragi di Mezenzio. Le gesta di Evandro sono inserite, inoltre, all’interno di una sintassi forzata: evidente infatti la presenza di un periodo ipotetico anomalo. Al congiuntivo presente della protasi della possibilità – si referat (560) – corrispondono nell’apodosi dell’irrealtà prima il congiuntivo imperfetto passivo diuellerer (568) e poi due congiuntivi piuccheperfetti, dedisset (570) e uiduasset (571): ‘se Giove mi rendesse gli anni trascorsi, (…) ora non sarei mai strappato dal tuo dolce abbraccio, figlio, e mai Mezenzio (…) avrebbe provocato col ferro tante crudeli morti, e privato la nostra città di così tanti abitanti’. Tale struttura sintattica esprime il senso del rimpianto di Evandro, spe captus inani: alla possibilità di riavere da parte di Giove la forza di un tempo (protasi del II tipo), corrisponde l’ineluttabile separazione dal figlio e la ferocia delle stragi di Mezenzio (apodosi del III tipo). Per questo Evandro rammenta le sue gesta, passate e irripetibili: non sarà più il padre a dar prova del valore, bensì il figlio. Sia chiaro: prima di passare – di colpo – ad invocare la protezione di Giove su Pallante, il vecchio padre non accenna ad un passaggio di testimone al figlio. A quest’ultimo il vecchio padre racconta i particolari della sua ἀριστεία: Evandro, ora impossibilitato a combattere, si pone come primo modello del figlio, da ora posto sotto la tutela di Enea, nuovo modello. Il re Arcade, in tal senso, rammenta al figlio la sua responsabilità: essere degno delle gesta paterne. Anche Pallante, nel corso della propria ἀριστεία, sarà in grado di uccidere tanti nemici e guidare la schiera Arcade. L’unica differenza fra le gesta di Evandro e quelle di Pallante sarà la morte gloriosa di quest’ultimo. Prima di salutarlo, Evandro rivolge la seguente preghiera:

at uos, o superi et diuum tu maxime rector Iuppiter, Arcadii quaeso miserescite regis et patrias audite preces. si numina uestra

30 Chiara differenza tra le due ‘memorie di gloria’ deriva anche dal contesto italico delle gesta di Evandro. Scutorum

incendi uictor aceruos (562): Warde Fowler (Aeneas at the Site of Rome, Oxford 1917, p. 96), sulla scorta di Servio (ad loc.) e Livio (I, 37, 3), intravedeva in queste parole un riferimento all’incendio degli scudi nemici in onore di Vulcano da parte del re Tarquinio Prisco. Tale gesto sarebbe poi divenuto uso dell’esercito romano. Di rilievo inoltre la riflessione di Pisani (Mantissa, Brescia 1978, p. 162) sul nome della dea Feronia. La prima sillaba lunga di Feronia presuppone un primitivo Fersefonia, la cui connessione con Φερσεφόνη è proposta da Dionigi di Alicarnasso (III, 32, 1): Μετὰ δὲ τοῦτον τὸν πόλεμον ἕτερος ἀνέστη Ῥωμαίοις ἐκ τοῦ Σαβίνων ἔθνους, ἀρχὴ δὲ αὐτοῦ καὶ πρόφασις ἐγένετο τοιάδε· ἱερόν ἐστι κοινῇ τιμώμενον ὑπὸ Σαβίνων τε καὶ Λατίνων ἅγιον ἐν τοῖς πάνυ θεᾶς Φερωνείας ὀνομαζομένης, ἣν οἱ μεταφράζοντες εἰς τὴν Ἑλλάδα γλῶσσαν οἱ μὲν Ἀνθοφόρον, οἱ δὲ Φιλοστέφανον, οἱ δὲ Φερσεφόνην καλοῦσιν. È tuttavia da precisare che si tratta in Dionigi di un’ipotesi di derivazione fatta ad orecchio. Feronia è inoltre una dea della zona del Circeo, abitata dai Rutuli, storici nemici degli Arcadi. Per ultimo, nelle parole di Evandro, compare Mezenzio, anch’egli nemico degli Arcadi. Lo spunto di questo motivo è dunque omerico e rimanda a due episodi dell’Iliade che hanno Nestore come protagonista. L’originalità dei versi virgiliani è tuttavia dovuta anche all’influenza del mondo italico.

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incolumem Pallanta mihi, si fata reseruant, 575 si uisurus eum uiuo et uenturus in unum:

uitam oro, patior quemuis durare laborem. sin aliquem infandum casum, Fortuna, minaris, nunc, o nunc liceat crudelem abrumpere uitam, dum curae ambiguae, dum spes incerta futuri, 580 dum te, care puer, mea sola et sera uoluptas,

complexu teneo; grauior neu nuntius auris uulneret.’ haec genitor digressu dicta supremo

fundebat; famuli conlapsum in tecta ferebant. (X, 572-84)

Evandro teme la morte del figlio. A nulla valgono le speranze che nutre all’inizio della seconda parte del suo addio (572-7). Evandro chiede agli dei – soprattutto a Giove – di avere pietà e di ascoltare le sue preghiere: sarà il destino a determinare il ritorno di Pallante. Se questi tornerà, Evandro accetta di sopportare qualunque affanno. Da notare, a tal proposito, l’allitterazione della u (uisurus; uiuo;

uenturus; uitam): è lo stesso Evandro peraltro a chiedere la vita (uitam oro, 577). Se al contrario la Fortuna minaccia indicibili sventure, Evandro vuole morire mentre è ancora ignoto il destino del

giovane figlio. Nella terza parte del discorso di Evandro (578-83), la vita, prima desiderata, diviene ora crudele: crudelem abrumpere uitam (579). L’insistere sulla vita, prima espresso dall’allitterazione della u, si trasforma mediante l’anafora di dum nello “slancio con cui Evandro anelerebbe a morire in un momento in cui la sciagura non si è ancora manifestata”31. Si rende infine più vicino l’annuncio

della Fama, tanti praenuntia luctus (XI, 139): gauior neu nuntius auris / uolneret (582 s.). Sinora Evandro ha stretto la destra del figlio Pallante, sola et sera uoluptas (581): complexu teneo (582). Da notare come, alla fine del suo discorso, il vecchio padre faccia riferimento al gesto che il poeta aveva descritto già prima: tum pater Euandrus dextram complexus euntis. Come nel caso di Amata (XII, 54 ss.), “la gestualità attua una compenetrazione con il discorso così stretta da portare il livello di relazione, proprio nella forma in cui è espresso dal gesto, ad invadere i canali tipici del livello di contenuto, cioè il linguaggio verbale”32. Il legame fra Pallante e il padre è infatti così forte che, una

volta reciso, Evandro, dopo aver smesso di parlare, perde i sensi. I servi da ultimo lo portano in casa:

famuli conlapsum in tecta ferebant (584).

“L’importanza di Pallante nell’Eneide sta specialmente in questo, nel valore che la sua vita ha per Evandro. La tragedia di Pallante sarà non soltanto quella di una morte prematura, ma anche quella della perdita subita da un padre per cui il figlio era la sola gioia e la sola speranza per l’avvenire”33. 31 Paratore, op. cit., ad loc.

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L’addio di Evandro costituisce un unicum. Virgilio dà forma al carattere di Evandro esprimendo le ansie e i timori del personaggio: ciò costituisce il πάθος di cui è intriso il discorso di Evandro. In tal senso i personaggi di Evandro e Pallante si inseriscono all’interno delle vicende del poema, che alla fine li costringerà ad arrendersi alla volontà del Fato: all’interno dei versi del libro VIII si può dunque apprezzare l’ἦθος di Pallante – la sua audacia – e percepire il πάθος con il quale verrà compianto,

miserabile corpus, fra le braccia di Evandro. L’ἐμπάθεια che attraversa i versi dell’addio viene alla

fine compensata dalla συμπάθεια, ‘commento lirico’34 del poeta: da ultimo compare infatti l’espressione digressu supremo. Così il Danielino: “quia periturus erat Pallas” (ad loc.). Supremus è il distacco tra il padre e il figlio: l’attributo scelto dal poeta induce il lettore a temere che il figlio non tornerà mai più vivo dal padre. La partenza di Pallante, infatti, è immediata: per questo motivo, nel momento in cui il padre sviene, Pallante né viene in aiuto né risponde ad Evandro. Questo particolare colpisce il lettore del libro VIII. Pallante, ormai, sa di essere a capo dell’esercito Arcade e si affretta a partire, lasciando solo il vecchio padre: in tal senso dovrà non solo sostituire il padre in

33 EV. IV, p. 942 (Rosivach).

34 La terminologia utilizzata (ἐμπάθεια, συμπάθεια, ‘commento lirico’) possiede una storia che merita di essere esposta in questa sede. La sostanza dei contenuti o – per meglio dire – l’ἦθος dell’Eneide è epico; il linguaggio invece è in parte tragico, ha come scopo il πάθος e s’ispira alla τραγική λέξις del teatro attico di V secolo. La presenza della τραγική λέξις nel linguaggio virgiliano è facilmente intuibile e giustificabile. L’Eneide si sarebbe dovuta distinguere dal modello omerico non tanto per i contenuti – sostanzialmente affini – quanto piuttosto per un nuovo linguaggio, scevro da stereotipie e formule ricorrenti. Virgilio seppe creare, sotto l’influsso della dramma, un nuovo linguaggio che mirasse al πάθος ma che al contempo si adattasse all’ἦθος epico dell’Eneide: questa la finalità letteraria della τραγική λέξις. L’obiettivo, al tempo stesso, della τραγική λέξις all’interno della narrazione epica dell’Eneide è l’ὁμοιοπαθεῖν del lettore per le dolorose vicende di un personaggio. Di ognuno di questi vengono infatti accentuati i tratti più dolorosi (R. Heinze, op. cit., p. 506 ss.): sono essi che “rendono il cammino di Enea un itinerario di dolore” (Conte, op. cit., p. 85). Virgilio, inoltre, mira all’ὁμοιοπαθεῖν attraverso due coefficienti stilistici, che la critica in passato ha messo in rilievo: ἐμπάθεια e συμπάθεια. Già Heinze aveva individuato due coordinate fondamentali della parola virgiliana: Empfindung, la compenetrazione tra narratore e personaggio, e la Subjektivität, il commento narrativo del poeta. Su questa linea B. Otis (B. Otis, A Study in Civilized Poetry, Oxford 1964) ha proposto una nuova terminologia: empathy e sympathy. Numerose le critiche sollevate a queste categorie da La Penna (“Dial. Arch.” 1967, pp. 220 ss.) e Klingner (Virgil. Bucolica Georgica Aeneis, Zurigo-Stoccarda 1967, pp. 434, 451 e passim): nel loro caso, a ragione, si preferisce per sympathy la designazione di “commento lirico” o “inserzioni liriche”. Gli studi di G. B. Conte (op. cit., p. 81 s.; Virgilio. L’epica del sentimento, Torino 2002, p. 117 s.) inseriscono tali categorie nel dibattito circa la forma epica dell’Eneide e del suo rapporto con il tragico: l’ἐμπάθεια consente l’espressione della soggettività dei personaggi, che viene successivamente dominata dalla συμπάθεια del poeta. La funzione di quest’ultima sarebbe dunque quella di reintegrare la pluralità dei punti di vista nella prospettiva oggettiva del Fato, salvando così la vocazione epica dell’Eneide. La componente drammatica sembra tuttavia interessare solo l’ambito formale del poema: mediante l’ἐμπάθεια Virgilio permette al personaggio di esprimere il suo punto di vista, le sue aspettative, la sua storia; tale personaggio è però destinato a soccombere dinanzi alla volontà del Fato; ecco allora emergere il ‘commento lirico’ del poeta, la συμπάθεια, la cui funzione non è salvare la vocazione epica dell’opera – essa non è in discussione – bensì richiamare le ragioni del destino di quel personaggio alla volontà del Fato e in tal modo accrescere l’effetto patetico nel lettore. Quest’ultimo, in tal modo, non solo comprende la volontà oggettiva del Fato ma riesce ad immedesimarsi meglio nel personaggio. Il linguaggio tragico dell’Eneide si serve così di due elementi, τραγική λέξις e ὁμοιοπαθεῖν. Il primo destinato a distinguere sul piano letterario lo stile virgiliano da quello del modello omerico; il secondo finalizzato, attraverso il rapporto ἐμπάθεια – συμπάθεια, a suscitare compassione nel lettore per i personaggi del poema. L’Eneide è infatti un poema epico, la cui sostanza dei contenuti è tratta univocamente dall’ἔπος ma viene altresì arricchita di una particolare caratterizzazione dei personaggi. Il loro punto di vista in alcuni casi entra in conflitto con l’oggettività epica del Fato. Tali conflitti non conoscono soluzione dialettica ma la loro drammaticità si esprime sul lato formale. L’originale linguaggio virgiliano si può dunque definire tragico, poiché basato sulla τραγική λέξις del dramma attico di V secolo e finalizzato, attraverso l’effetto della compassione, al πάθος.

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