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L’abuso del diritto

4.1. Oltre alle norme antielusive speciali ed a quelle generali, si è recentemente

affermato in giurisprudenza un nuovo approccio al contrasto delle pratiche elusive che fa leva sul concetto di abuso del diritto.

Già abbiamo illustrato nel cap. I della parte generale che la figura dell’abuso del diritto, per quanto controversa sul piano civilistico, può dar luogo all’inefficacia degli atti negoziali e, dunque, a ricadute sui presupposti impositivi che si basano sugli effetti giuridici di tali atti.

La Corte di Cassazione, tuttavia, in una serie di pronunce a partire dal 2006, ha affermato l’esistenza di un principio generale che sancirebbe il divieto di abuso del diritto in materia tributaria. Si tratterebbe di un principio che presenta talune specificità rispetto a quello civilistico, per quanto modellato sullo stesso schema di deviazione tra il risultato conseguito attraverso l’applicazione di una disciplina ed il fine per il quale la disciplina stessa era stata concepita.

Le peculiarità principali sono essenzialmente due. Da un lato il divieto di abuso del diritto è stato considerato uno strumento antielusivo generale, tale da ricomprendere anche fattispecie estranee al periodo di vigenza e all’ambito applicativo delle norme antielusive espresse (speciali e non). In questo modo, in sostanza, l’abuso è stato equiparato all’elusione.

Dall’altro lato, il principio è stato fatto risalire a fonti normative di matrice prettamente tributaria. In numerose pronunce la fonte è stata individuata nell’ordinamento comunitario e solo da ultimo, con sentenza recente delle SS.UU., è stata individuata nell’ordinamento interno ed in particolare nell’art. 53 della Cost.

Ai nostri fini, nell’ottica di valutare quale sia il ruolo della sostanza economica degli atti d’impresa rispetto al concetto di abuso, è senz’altro opportuno distinguere l’evoluzione delle pronunce della Sezione Tributaria della Cassazione dall’ultima sentenza a Sezioni Unite.

Capitolo V

Dal 2006 fino ad oggi, in svariate sentenze oggetto di plurimi commenti, la Cassazione (tra le quali cfr. sent. n 21221 del 2006, n 8772 del 2008, n.10257 del 2008 e n.25374 del 2008) ha messo a fuoco una nozione di abuso del diritto che fa leva essenzialmente sulle elaborazioni della giurisprudenza comunitaria.

Pur dando atto che l’abuso del diritto in materia tributaria trova emersione in altri ordinamenti come quello francese (art. 64, 64° e 64b del Libres des procedures fiscales) e tedesco (par. 42 del Abgabeordnung) e nell’art. 9 del Commentario OCSE sulle convenzioni contro le doppie imposizioni, la Cassazione invoca fondamentalmente la giurisprudenza comunitaria maturata in tema di IVA. Nei casi decisi con sentenze del 21 febbraio 2006 (C-255/02 Halifax; C-223/03 University of Huddesfield e C-419/02 Bufa Hospitals) la Corte di Giustizia ha enunciato il princpio secondo cui ricorre una pratica abusiva delle direttive in materia di IVA quando: 1) le operazioni nel loro insieme procurano un vantaggio fiscale la cui concessione sarebbe contraria all’obiettivo perseguito dalle disposizioni comunitarie; 2) risulti da un insieme di elementi obiettivi che lo scopo è essenzialmente l’ottenimento di un vantaggio fiscale. L’abuso del diritto determina l’inapplicabilità delle norme invocate dal contribuente, posto che, in termini generali, ai fini dell’applicazione di una disciplina, è necessario che la condotta sia conforme non solo alla lettera ma anche alla sua ratio.

La Cassazione per lungo tempo ha affermato che le elaborazioni della giurisprudenza comunitaria in parola dovessero avere portata generale. Più precisamente ha affermato da un lato che il divieto di abuso deve ritenersi operante anche al di fuori del comparto dei tributi armonizzati in quanto, pur essendo la materia dei tributi diretti attribuita alla competenza degli Stati membri, questi ultimi sono comunque tenuti al rispetto dei principi fondamentali dell’ordinamento comunitario. La Corte ha altresì ritenuto che il divieto di abuso del diritto nella scelta dei modelli organizzativi meno onerosi dal punto di vista fiscale, avendo ad oggetto l’esercizio di fondamentali diritti riconosciuti sul piano comunitario (come la libera circolazione dei servizi e dei capitali e di stabilimento), sarebbe coessenziale alle libertà fondamentali del Trattato UE, assurgendo al rango di principio generale dell’ordinamento comunitario.

In quest’ottica, la violazione del divieto di abuso del diritto potrebbe (rectius dovrebbe) essere accertata d’ufficio dal giudice nazionale anche in mancanza di una specifica contestazione in tal senso da parte dell’Amministrazione finanziaria. Sussistendo un principio generale di questo tenore, valido per ogni imposta e per ogni tipo di operazione, le singole disposizioni antielusive costituirebbero una mera conferma indiretta della validità del principio stesso.

4.2. L’orientamento che è andato consolidandosi in seno alla Corte di Cassazione è

stato accolto in dottrina con una serie di obiezioni e di critiche129.

In primo luogo è stata contestata l’estensione della giurisprudenza comunitaria in materia di IVA al settore delle imposte sui redditi. Al riguardo è stato osservato che come in tale ambito la Corte di giustizia si fosse espressa in modo molto più cauto e cioè per il disconoscimento delle sole costruzioni di puro artificio (C.196/04 Cadbury Schweppes) facendo altresì rilevare che nella sentenza 5 luglio 2007 n. C- 321/05 (Kofoed) la Corte di Giustizia ha affermato che, laddove lo Stato membro non abbia introdotto una clausola antielusiva interna per le fusioni intracomunitarie (ai sensi dell’art. 11 della direttiva 90/434/CE) la direttiva non comporta alcun divieto a carico del contribuente. In tal modo la Corte ha confermato che nel settore delle imposte dirette le pratiche elusive possono essere combattute con i soli mezzi normativi interni senza poter invocare il diritto comunitario.

In secondo luogo sono state messe in evidenza le profonde criticità dell’innesto di questo principio nell’ordinamento interno sia sotto il profilo della difficile compatibilità con il principio della riserva di legge (art. 23 Cost.) e con la

129 Si vedano in proposito, tra gli altri, ATTARDI, Abuso del diritto e giurisprudenza comunitaria: il perseguimento di un vantaggio fiscale come scopo essenziale dell'operazione elusiva, in Dir. e prat. trib. 2008, 637 e ss; FICARI, Elusione ed abuso del diritto comunitario tra diritto giurisprudenziale e certezza normativa in Boll. Trib. 2008, 1775 e ss.; ZIZZO, L’abuso dell’abuso del diritto, in GT Riv. Giur. Trib. 2008, 465 e ss; STANCATI, Il dogma comunitario dell’abuso della norma comunitaria in Rass. Trib,. 2008, 784 e ss.: TESAURO, Divieto comunitario di abuso del diritto (fiscale) e vincolo da giudicato esterno incompatibile con il diritto comunitario, in Giur. It, 2008, 1025 e ss; SALVINI

L’elusione Iva nella giurisprudenza nazionale e comunitaria, in Corr, trib 2006, 3102 e ss.; BASILAVECCHIA, Elusione e abuso del diritto: una integrazione possibile in GT Riv. Giur. Trib. 2008, 741 e ss. GIACONCELLI, Contrasto all’elusione fiscale in materia di imposte sui redditi e divieto comunitario di abuso del diritto, in Giur. It. 2008, 1300 e ss.

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democraticità del prelievo130, sia sotto il profilo della compressione del diritto di difesa del contribuente, tenuto conto che l’applicazione d’ufficio del principio, con disconoscimento della condotta del contribuente, potrebbe avvenire al di fuori di un regolare contraddittorio. Quest’ultimo effetto, in particolare, potrebbe prodursi non solo per l’assenza di norme procedurali antecedenti all’emenazione dell’accertamento simili a quelle previste dall’art. 37 bis, che impongono un confronto preventivo con l’Amministrazione sull’elusività della condotta, ma anche per ciò che può verificarsi in fase contenziosa, in cui l’argomento della violazione del divieto di abuso – stante il suo asserito rango comunitario- dovrebbe essere esaminato anche al di fuori ed al di là della motivazione dell’accertamento impugnato.

Le critiche alla prospettazione dell’esistenza di un principio comunitario antiabuso valido anche per il settore delle imposte sui redditi sono invero avvalorate dalla comunicazione delle Commissione UE Com (2007) 785 del 10 dicembre 2007 avente ad oggetto l’applicazione di misure antiabuso nel settore dell’imposizione diretta. In tale sede la Commissione ha evidenziato non solo l’assenza di un principio generale riferibile anche al settore delle imposte sui redditi, ma anche la legittimità alla luce della giurisprudenza comunitaria delle scelte compiute per ridurre l’onere fiscale, salvo solo il caso in cui ciò avvenga tramite costruzioni fittizie o di puro artificio.

E’ altrettanto vero, tuttavia, che la Corte di Giustizia, sollecitata dalla stessa Corte di Cassazione con ordinanza n. 21371 del 10 marzo 2006, ha confermato, con sentenza 21 febbraio 2008 nel procedimento C-425/06 (Part Service), l’esistenza di un principio di rango comunitario che vieta di abusare delle disposizioni della VI direttiva IVA che assicurano il diritto di detrazione ed ha ribadito che l’abuso del diritto è riscontrabile qualora, nonostante l’applicazione formale delle norme comunitarie: a) il risultato conseguito sia contrario al loro obiettivo; b) da elementi verificabili (quali l’assenza di valide ragioni economiche) emerga che lo scopo essenzialmente perseguito era quello di conseguire tale vantaggio tributario. In tale

130VACCA, Abuso del diritto ed elusione fiscale in Riv. Dir. Trib. 2008, 1069 e ss. Cfr. anche CARPENTIERI L'ordinamento tributario tra abuso e incertezza del diritto in Riv. Dir. Trib. 2008, 1053 e ss.

pronuncia tra l’altro la Corte ha chiarito che il riferimento allo scopo esclusivo anziché allo scopo essenziale quale elemento soggettivo qualificante della condotta elusiva - che risultava menzionato in qualche passaggio della sentenza Halifax - doveva intendersi riferito alla specifica fattispecie (in cui la soglia della essenzialità o prevalenza dello scopo fiscale era in concreto stata superata), legittimando in quella sede il richiamo all’esclusività. In termini generali, invece, rimane ferma, ai fini della sussistenza dell’abuso, la rilevanza dello scopo essenziale perseguito.

Al di là di ogni altra obiezione in ordine all’indirizzo dei giudici di legittimità fondato sull’abuso del diritto di fonte comunitaria non si può dubitare, dunque, che ai fini dell’IVA, un principio comunitario antiabuso sussista e che in base a tale principio sia possibile considerare fiscalmente irrilevanti i comportamenti che rientrano nella nozione comunitaria di abuso del diritto.

4.3. Si rende perciò indispensabile approfondire quali siano i rapporti tra il

concetto di abuso del diritto e quello di elusione così come emergente dall’art. 37 bis/600 e se la sostanza economica delle operazioni abbia una qualche funzione ai fini dell’individuazione della condotta abusiva.

Al riguardo a noi sembra che condotta elusiva e condotta abusiva abbiano una matrice comune. Invero, se si aderisce alla tesi che abbiamo illustrato nel paragrafo precedente, gli elementi costitutivi dell’elusione inopponibile ai sensi dell’art. 37 bis sono quelli a) del conseguimento di un vantaggio tributario indebito b) tramite una serie di atti preordinati essenzialmente all’aggiramento dei principi dell’ordinamento tributario.

Secondo la ricostruzione che riteniamo preferibile, dunque, le valide ragioni economiche rilevano ai fini dell’accertamento, sia pure su basi obiettive, dello scopo elusivo e non rappresentano un elemento costitutivo autonomo (positivo o negativo che sia) della nozione di elusione.

Lo stesso schema “bipolare” si ritrova nella nozione di abuso del diritto essendovi sostanziale equivalenza 1) sia tra il conseguimento di un vantaggio indebito e di un risultato contrario all’obiettivo di una disposizione comunitaria, da un lato e 2) sia

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tra lo scopo essenziale di aggirare il sistema e quello di conseguire un vantaggio fiscale attraverso la condotta abusiva, dall’altro.

In entrambi i casi, cioè, vi è un elemento oggettivo costituito dal contrasto tra il vantaggio fiscale ottenuto e le finalità della norma che hanno dato luogo a quel vantaggio; ed un elemento soggettivo costituito dal fatto che il vantaggio fiscale asistematico conseguito è stato ricercato come scopo essenziale o prevalente delle operazioni intraprese.

Con questa chiave di lettura è evidente che l’elusione e l’abuso del diritto si riferiscono al medesimo fenomeno, il che sembra peraltro trovare conferma nelle più recenti elaborazioni giurisprudenziali della Sezione Tributaria della Cassazione che, da ultimo, ha osservato che “si tratta della stessa regola contenuta nel d.p.r. n. 600 del 1973 art. 37 bis e propria come si è detto, di altri ordinamenti giuridici” (Cassazione sent. n. 25374 del 21 maggio 2008).

In considerazione di ciò è da ritenersi che valgano in relazione all’abuso del diritto le considerazioni già svolte nei paragrafi precedenti con riferimento all’art. 37 bis. E ciò sia per con riguardo alla funzione che la sostanza economica viene ad assumere nel contesto dell’analisi della condotta elusiva, sia con riguardo alla ripartizione dell’onere della prova. L’assenza di un beneficio economico significativo è cioè funzionale alla prova dell’elemento soggettivo dell’abuso (così come lo è per l’elusione) ed il relativo onere è a carico dell’Amministrazione finanziaria.

In effetti, di quest’ultima affermazione si potrebbe dubitare ove si consideri che l’accertamento della condotta elusiva non è soggetto alle regole dell’art. 37 bis che impongono all’ufficio l’obbligo di un contraddittorio anticipato con il contribuente e di fornire specifiche motivazioni in relazione ai chiarimenti da questi forniti. Senonchè, pur non applicandosi nel caso dell’abuso le norme procedimentali contenute nell’art. 37 bis, una volta che si sia convenuto che anche in questo caso la sussistenza di motivazioni extrafiscali prevalenti (sub specie di beneficio economico per il contribuente) non è una circostanza autonoma rispetto alla ricostruzione dello scopo essenziale dell’operazione, non crediamo possa giungersi a conclusioni sostanzialmente diverse. Secondo i principi generali, infatti, è chi

invochi una disposizione a proprio favore a dover dimostrare l’esistenza dei relativi fatti costitutivi. Ciò comporta, nel caso di specie, che debba essere l’Amministrazione che voglia contestare l’abuso a doverne comprovare la sussistenza sia per quanto attiene all’elemento oggettivo, sia per quanto concerne l’elemento soggettivo del prevalente scopo fiscale, potendo a tal fine limitarsi a fornire la prova dell’assenza di ragioni economiche apprezzabili rispetto al vantaggio conseguito.

Sul tema della ripartizione dell’onere della prova dell’abuso, in effetti, la giurisprudenza della Cassazione è apparsa altalenante. Nelle pronunce iniziali (dalla sentenza n. 21221 del 2006 alla sentenza n. 10257 del 2008) ha statuito che dovesse essere il contribuente a dimostrare le ragioni economiche della sua condotta e la loro natura sostanziale e prevalente, come avviene nei casi in cui si discuta dell’inerenza dei costi.

Nella ultime pronunce ed in particolare nella sentenza n. 25374 del 2008 si enuncia il principio opposto e cioè che incombe all’Amministrazione individuare la condotta elusiva non limitandosi ad una generica affermazione bensì prospettando gli elementi concreti a sostegno dell’assunto circa lo scopo elusivo e l’assenza di un contenuto economico diverso dal risparmio d’imposta. A questa conclusione la Corte giunge al termine di una articolata motivazione in cui si ribadisce l’orientamento che individua l’abuso del diritto come principio di fonte comunitaria. In tale pronuncia, tra l’altro, viene riconosciuto che la giurisprudenza della Corte di giustizia esclude un’applicazione automatica del principio (C-28/95 Leur Bleum e C-212/97 Centros), e sottolinea invece l’esigenza di un’analisi complessiva della fattispecie e di garantire la facoltà di fornire la prova contraria, la cui compressione sarebbe contraria al principio di proporzionalità. La Corte giunge anche ad affermare che la ricerca di soluzioni che comportino un risparmio fiscale “costituisce esercizio delle libertà fondamentali riconosciute dalla Costituzione e dall’ordinamento comunitario” per cui non può ritenersi di per sé illegittima, con la conseguenza che l’Amministrazione deve utilizzare lo strumento dell’abuso “con molta cautela” e mediante un approccio “oltremodo pragmatico”.

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Per la verità, a margine di questi ultimi sviluppi appare inevitabile chiedersi quale possa essere il significato dell’assunto, che pur si legge nella sentenza citata (la n. 25374 del 2008) secondo cui il rango comunitario del principio comporterebbe “l’obbligo della sua applicazione d’ufficio a prescindere da specifiche deduzioni di parte, anche per la prima volta nel giudizio di Cassazione”131. A meno di voler svuotare totalmente di ogni contenuto le altre statuizioni enunciate nella stessa sentenza circa la prudenza nell’applicazione del principio, l’onere della prova a carico dell’Amministrazione e la possibilità per il contribuente di fornire la prova contraria, si dovrebbe forse ritenere che l’applicazione d’ufficio presupponga comunque che ciò possa avvenire nei limiti delle allegazioni probatorie già acquisite e dopo aver provocato sul punto un contraddittorio con il contribuente.

4.4. Fin qui abbiamo rappresentato l’abuso del diritto come principio di

derivazione comunitaria alla stregua di quanto è stato ritenuto con orientamento che pareva consolidato dalla sezione tributaria della Corte di Cassazione.

Con una serie di sentenze assai recenti, tutte depositate il 23 dicembre 2008 (nn.30055, 30056 e 30057) tale orientamento sembra aver subito un importante arresto. Chiamata a pronunciarsi su fattispecie di dividend washing e di dividend stripping realizzate antecedentemente all’introduzione della disciplina specifica di contrasto di tali fattispecie elusive, le Sezioni Unite si sono espresse in modo parzialmente difforme in ordine al principio antiabuso.

Pur confermando che il divieto di abuso del diritto esiste nell’ordinamento e che comporta l’inopponibilità degli effetti della condotta nei confronti dell’Amministrazione, le Sezioni Unite hanno affermato che tale principio non avrebbe fonte comunitaria, bensì fonte interna, essendo immanente ai principi di capacità contributiva e di progressività dell’imposizione di cui all’art. 53 Cost. In particolare conclude la Corte ha concluso che non può non ritenersi “insito nell’ordinamento come diretta derivazione delle norme costituzionali il principio secondo cui il contribuente non può trarre indebiti vantaggi fiscali dall’utilizzo

131 E’ cioè tutt’altro che agevole cogliere il nesso tra l’enunciato che pone l’onere della prova a carico dell’Amministrazione e quello ove si continua ad affermare che principio troverebbe applicazione d’ufficio.

distorto, pur se non contrastante con alcuna specifica disposizione, di strumenti giuridici idonei ad ottenere un risparmio fiscale in difetto di ragioni economicamente apprezzabili che giustifichino l’operazione, diverse dalla mera aspettativa di quel risparmio fiscale”. Questo principio, prosegue la Corte, non si porrebbe in contrasto con il principio costituzionale di riserva di legge (art. 23 Cost.) in quanto la sua applicazione non si tradurrebbe nell’imposizione di ulteriori obblighi non previsti dalla legge, bensì nel “disconoscimento degli effetti abusivi di negozi posti in essere al solo scopo di eludere l’applicazione di norme fiscali” limitandosi cioè a riaffermare l’applicazione di tali norme. E le stesse disposizioni antielusive analitiche e generali non sarebbero che una conferma dell’esistenza del principio e della valutazione del legislatore nel senso della possibile elusività di certe operazioni.

La ricostruzione delle SS.UU ha sollevato una serie di questioni interpretative. Nel vasto dibattito che è scaturito dalle pronunce del dicembre 2008 si sono registrate talune voci concordi e molte voci critiche. Da una parte vi è chi sostiene, in sintonia con le sentenze delle SS.UU., che l’art 53 Cost. avrebbe una portata precettiva diretta nei confronti dei singoli consociati e, quindi, già imporrebbe a ciascuno di non sottrarsi alla debenza del tributo ove sia stato realizzato il presupposto d’imposta, da ricostruire in base alla “reale sostanza economica dell’operazione che il soggetto ha voluto compiere”132.I sostenitori di questa tesi, tuttavia, non chiariscono le modalità con le quali procedere a tale accertamento, né si fanno carico di esaminare le conseguenze di questa indeterminatezza sulla certezza applicativa delle norme tributarie. Molti altri commentatori hanno messo in evidenza come una tesi del genere sia difficilmente conciliabile con il principio di legalità che deve permeare non solo la disciplina impositiva sostanziale – altrimenti affidata all’apprezzamento soggettivo delle varie manifestazioni di capacità contributiva da assoggettare a tributo e della loro equivalenza sul piano economico – ma anche la stessa disciplina antielusiva133. E’ stato in proposito

132 Così LOVISOLO, Abuso del diritto e clausola generale antielusiva alla ricerca di un principio, in Riv. Dir. Trib. 2009, 90

133

MOSCHETTI, Avvisaglie di supplenza del giudiziario al legislativo, nelle sentenze delle Sezioni Unite in tema di «utilizzo abusivo di norme fiscali di favore», GT Riv. Giur trib. 2009, 197 e ss.; LUPI- STEVANATO, Tecniche interpretative e pretesa immanenza di una norma generale antielusiva,

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fatto notare, efficacemente, che anche qualora si potesse riscontrare l’esistenza di un principio antiabuso risalente all’art. 53 Cost., resta comunque fermo che “è la legge la fonte diretta della disciplina tributaria mentre il principio di capacità contributiva è condizione di legittimità della stessa”134. In quest’ottica, al giudice che ritenga che vi sia contrasto tra il principio antiabuso dell’art. 53 Cost e le norme antielusive espresse può soltanto riconoscersi il potere di sollevare