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Gli aerei su Santa Maria Nuova

di Vittorio Graziosi

Era metà mattino quando il cielo terso si ferì di grigio metallo.

Scendevano da Santa Maria Nuova. La gente era allo stremo. Ne avevano abbastanza di guerra, di frastuono e di morte. Alla fine an-che fuggire di paura era diventato un gesto meccanico. Vedere gli aerei, scendere le scale, sentire finalmente il silenzio dopo il rombo dei motori, risalire in casa e continuare a vivere fino alla prossima incursione. L’istinto di sopravvivenza aveva vita autonoma. “Via, via…arrivano i bombardieri!”, era il grido convenzionale. Nonna Maria dettava i tempi. Riteneva che stare ai piedi delle scale fos-se dannatamente sicuro e lì si rifugiava l’intero palazzo. “Un posto franco dalla guerra”, pensava lei. Solo sua sorella Regina non la se-guiva: “Voi andate, io rimango a casa”. Alzava le spalle e si girava a fare le faccende senza guardare la gente uscire dalla porta. Troppi mesi passati a tremare di paura. Una paura incancrenita sui tendi-ni e nelle ossa, Regina aveva detto basta. “Se vuoi vincerla ‘sta ma-ledetta paura, devi mostrare indifferenza”, e cosi aveva fatto. Una maledizione detta tra i denti per far continuare la vita.

Già Maria e gli altri erano di sotto nell’atrio, a fare la maglia guardando i bambini giocare. Regina sopra, Maria sotto. Gli aerei la maggior parte delle volte passavano in alto, distratti da altre mis-sioni. Ma non quel giorno. Il rumore, questa volta era decisamente troppo potente, tanto da fare il cielo a brandelli. Neanche il tempo di formulare un perché guardando in su, che le scale crollarono in-tere su sé stesse in una enorme nuvola di polvere gialla. Passarono minuti di urla e confusione, poi quando la nebbia diradò, i parenti si ritrovarono tutti intatti ma confusi.

Maria sollevò Marcello perché non si ferisse con i calcinacci i piedi scalzi. Marcellina, sua sorella, che nel frattempo era scesa per la fonte di Santa Maria, guardando in direzione di casa, vide quella colonna di nebbia gialla segnare il panorama e una premonizione le serrò il cuore. Iniziò a gridare il nome di sua mamma e del fratello che per fortuna si fecero largo tra i curiosi accorsi. Erano fantasmi di polvere, ma sorridenti per aver scampato la morte, che quel gior-no aveva ammiccato nella loro direzione.

Rientrarono, giusto il tempo di vedere i pompieri trarre in sal-vo zia Regina facendola passare per la finestra di vetri frantumati.

Qualcuno allertò Tito, il marito di Maria, che corse ad abbracciare i suoi figli e la moglie, rassicurato della loro incolumità. Poi ebbe un sussulto e di scatto si arrampicò per i brandelli di scale, deciso a raggiungere l’appartamento rimasto appeso come un nido in un al-bero spoglio. A nulla valsero le urla dei pompieri né quelle dei figli, i loro pianti né i commenti dei vicini su quella pazzia. Soltanto do-po molti anni lui stesso spiegò il perché di tanta incoscienza. Aveva nascosto tutti i soldi di famiglia tra il mobile e lo specchio e non re-cuperarli significava vivere di elemosina. Una eventualità che la sua dignità non gli consentiva. Perché allora la vita e il senso dell’onore avevano lo stesso peso specifico.

La fame

di Vittorio Graziosi

La fame aveva artigli lunghi, tanto lunghi da ferirti l’anima. La fa-me fa-metteva alla prova il tuo decoro scoprendo le ombre sopite.

Raccoglieva la tua vita in un pugno serrato, provando a stritolarla, e dovevi essere forte per resistere. La fame faceva piangere le lacri-me anche dei figli disperati. Allora le mamlacri-me tiravano fuori il boc-cone masticato perché ai loro piccoli non mancasse. La fame rac-contava storie di demoni nella testa: ispirava il furto all’onesto, la lascivia alla casta e la violenza al pacifico. La fame era un serpente fatto dalla più varia umanità in fila con la tessera in tasca a tenersi per mano perché nessuno cadesse senza forza. La fame era il fuoco nello stomaco per il pane di cattiva farina. La fame era una paura mai dismessa, nonostante i raccolti, nonostante la guerra finita, no-nostante le nuove tavole imbandite: “Mangia ninì, mangia. Al tem-po de guèra non c’era da magna’. Se tribbolava. Ma adesso che è finita, magna e fatte grosso”. La filastrocca per esorcizzare il ricordo. La fa-me era la luce pallida di un sole malato, una pozza d’acqua putrida lontana dal fiume… era la tristezza perenne indossata per ogni sta-gione. La fame era il sapore cattivo di ogni radice trovata e bollita e la felicità per una carruba mangiata. La fame era la testa bassa alla confessione: “Mea culpa, mea culpa, mea maxima culpa…”, per un uovo rubato ad un contadino. La fame era tenere gli occhi chiusi mentre la gonna si alzava: “Se mi fai toccare le cosce, ti dò un pez-zo di lardo”, e sputare giorni interi per gettare via il ricordo di quel-le mani vigliacche. La fame era anche ingegno dell’orzo cotto bru-ciato, perché così potevi macinarlo, e del grano bollito per ore per farne una minestra. La fame era la sarda appesa al centro del tavolo

per strusciarci una fetta di pane sul suo olio trasudato, la cena dei pescatori, i “magnasaracca”. La fame era chiedere la carità e spigo-lare nei campi, la fame era la mano tesa perché qualcuno, chiunque fosse, vi mettesse qualcosa, qualunque cosa si potesse mangiare. Ma il rumore più grande la fame lo faceva colpendo un popolo intero.

Sottomesso e offuscato perché lo stomaco ti urlava nelle orecchie distorcendo la linea dell’orizzonte. E allora smarriva la verità e con-fondeva l’opportunismo immaginandolo affetto vero. Ma era an-che la capacità di un popolo di resistere al delirio e alla morte con slanci ripetuti di solidarietà e ancora e ancora resistendo gesto dopo gesto alla violenza. La fame in tempo di guerra era dolore e ipnosi e fragore nel silenzio per l’ideale smarrito, perché la priorità, te lo dice il corpo, è sopravvivere ad ogni costo.