• Non ci sono risultati.

Pantalè, Buzzarì e Pajola

di Vittorio Graziosi

La vita è un teatro senza sipario. Assi di legno consumato calpesta-te da attori di commedia e di dramma. Nella tragedia della guerra di quegli anni, tutta l’umanità dolente non toglieva la maschera di tristezza neanche in assenza di pubblico. Il dolore viaggiava sul filo degli sguardi alimentato dalla paura e dal rumore dei passi. Per la commedia era un’altra cosa: in quel tempo apparteneva alla follia, nel 1944 soltanto sotto un altro cielo potevi immaginarti di essere un attore buffo.

Eppure Buzzarì, il falegname di Monsano, spezzava ogni sospiro con la sua arte e la sua delicata, innocua follia. Un piccolo dio che piegava il legno alla sua fantasia. Girava per le case aggiustando co-se e facendone di nuove da pezzi di legni.

Lavorava fischiettando a testa bassa con un filo di aria le sue canzonette senza finale. Poi d’improvviso sospendeva le mani sugli oggetti e ne guardava l’evoluzione. Piegava di lato la testa e sorride-va: allora capivi che lo vedeva già fatto. Sembrava una richiesta di benedizione. Se solo avesse inteso di avere un talento, se solo aves-se capito di saper compiere magie, non avrebbe mendicato. O ma-gari sì!

Appena arrivato sull’aia gridava: “Vergara, ve serve uno che co’ la pialla e ‘l martello ve ‘giusta casa?”. Una fetta di pane in un piatto di minestra e potevi avere l’oggetto nuovo.

Un giorno gli venne la fantasia di farsi una bicicletta tutta di le-gno. Piallò un grosso ramo piegato come le corna di una vacca ed ecco che prese forma il manubrio. Poi lavorò di coltellaccio su un grosso bastone ed eccola la canna. Infine cercò legni lungo le rive

del fiume giorni e giorni finché ne trovò adatti a fare le ruote e fu davvero soddisfatto del risultato. Guardava la sua opera così armo-nica e falsamente statica e sorrise. Si vedeva con questa sfrecciare per le curve di Montelatiero e per le tappe del Giro. Si metteva vi-cino alla sua opera d’arte e mulinava le braccia come fossero gam-be sui pedali. Doveva accelerare se voleva restare sul gruppo di te-sta: “Lo vedo Bartali, là davanti. Ma non si alza mai dalla sella, se continuo così lo raggiungo”. Inarcava le spalle chiudendovi la testa in mezzo e via di braccia ad occhi chiusi per concentrare meglio lo sforzo. Stremato, si fermava vincente e felice nei suoi sogni.

Quella bicicletta era il suo capolavoro. Non avrebbe mai potu-to riprodurla. Sarebbe stapotu-to impossibile trovare gli stessi legni, così tanto ben adatti all’impresa.

Quando poi il proprietario di un circo gliela chiese, dovette al-zare di molto il prezzo per convincerlo a vendergliela. Tutta la setti-mana che restò con il tendone piantato a Jesi cercò Buzzarì per con-vincerlo. Fecero l’affare solo l’ultimo giorno. Poi si voltò in cerca di un po’ di intimità per contare le banconote e non si girò quando se la portarono via.

Per un po’ scomparve. Chissà, forse inghiottito dalla tristezza.

E un giorno di ottobre, mentre le nuvole grigie si specchiavano sul fiume, Buzzarì ricominciò il giro.

“Ve serve uno che co’ la pialla e l’l martello ve ‘giusta casa?”. Così la guerra non lo raggiunse mai. Quando scoppiava una bomba o c’era una scaramuccia fra soldati lui era già da un’altra parte a fischiare la sua formula magica sugli oggetti che prendevano forma.

Pantalè doveva nasconderlo bene il suo trincetto. Se glielo aves-sero trovato addosso sarebbero stati guai grossi. Ma un “pellaro-cal-zolaro” come potrebbe lavorare senza?

Aggiustava finimenti e fasce di cuoio di ogni fattezza. Aveva l’a-go ricurvo dei materassi, la corda fina per cucire i pezzi e tanta pe-rizia cha alla fine non potevi rimproverarlo di niente. Del resto, che il commento finale fosse un complimento ci teneva. Il piatto pieno

che gli allungavi era il giusto per un lavoro così ben fatto. “Che ti pare, scendo da Castelbellino per farti un brutto lavoro?”.

Un giorno Neno gli disse: “Pantalè, non guarda’ intorno, pensa a fadiga’ be’!”. “Que te pare che fadìgo male?”, ribatté risentito. E senza aspettare risposta fece il gesto di infilzarsi con il trincetto. Affondò il colpo come fanno a teatro, tra il fianco e il braccio. Le donne ur-larono di paura, ma poi videro che era uno scherzo e lo benedirono con un: “Che te pijasse un colpo…” e così la guerra scompariva tra le risate di quell’amicizia.

Pajola era un bonaccione eternamente distaccato dal presente.

“Una giornata senza musica non merita di essere vissuta…”, così diceva.

Una nota di “strimpello”, Pajola faceva una piroetta e si guarda-va subito intorno per vedere se qualcuno ne fosse contagiato. Sem-brava un rabdomante alla ricerca di note musicali. Non demordeva mai, neanche quando le bombe lo costringevano a scendere ai rifu-gi. Al semibuio cercava chi si era portato un’armonica o l’organetto e, ripreso fiato, si metteva a ballare, prima che lo strumento suonas-se e di lì a poco, qualche buona nota la otteneva. Un giorno partico-larmente grigio e triste animò un’intera festa da solo. Aveva bevuto molto, questo gli aveva fatto trovare un bel po’ di coraggio nel petto.

Abitava nel centro storico di Jesi, dove le case sono tanto vicine che hanno bisogno di un sole potente per essere illuminate. Portò pentolame e mestoli – i ramaroli – in strada e cominciò a sbatterle insieme perché ne uscisse un po’ di rumore.

Provò a ricavarne della musica… la più adatta perché i piedi partissero per un balletto improvvisato. Andò avanti finché un pa-io di carabinieri curpa-iosi del baccano lo raggiunsero e gli intimarono di smetterla. “In tempo di guerra non si può fare festa”, obbiettò il graduato. Ma Pajola aveva la risposta pronta: “Impossibile. Per fare una festa servono molte persone, ma io sono da solo”. Non avendo ben capito se avesse infranto la legge, i due decisero di passare oltre e lasciare il pazzo ai suoi rumori.

E allora Pajola chiuse gli occhi e immaginò musica e colori. Imma-ginò Marì e Terè e i loro sguardi ruffiani girare nei balli vorticosi a mostrare le gambe e le braccia tese con le mani aperte a pettinare l’aria.