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Eccoli che arrivano. Sono in quattro con un numero di valige che non voglio contare. Mia madre ha le lacrime agli occhi. Io pure.

Per fortuna la commozione dura poco e l’euforia prende il so-pravvento. Baci, abbracci e cominciamo a parlare uno sopra l’al-tro. La distanza e il tempo non ci ha reso stranieri e stiamo generando più energia di tutta la folla che ci circonda. Tante do-mande, nessuna risposta. La più eccitata è proprio Elvira, mia mamma: «Ma ti rendi conto dove sto? In America!...». E poi:

«Dio, quant’è grande...». Sospiri di meraviglia e tante risate.

Miracolosamente, nella vecchia station wagon ci stiamo tutti, ba-gagli compresi. Appena l’euforia si placa comincio ad esaminare la mia famiglia. Mio fratello Muzio ha la barba lunga, i capelli sul collo; somiglia a Jim Morrison quando lo incontrai all’Isola di Wight. Indossavamo lo stesso giaccone nero marocchino. Io foto-grafavo Morrison e lui mi sorrideva. Chi poteva immaginare che quella era l’ultima volta che l’avrei avuto davanti vivo?

La personalità vulcanica di mia sorella Alessandra è impossibile da ignorare. Per cominciare ha un simbolo hindu sulla fronte e fuma la pipa. Il suo è già un atteggiamento di sfida. Ha appena 17 anni. Poi c’è Lorella, la ragazza di mio fratello che invece ha un aspetto mite, parla poco e lo segue dappertutto, anche nelle più temerarie avven-ture alla Midnight Express. La mamma ha subito un cambiamento notevole: è vivace, spiritosa, canticchia le canzoni della radio inven-tandosi un inglese romanesco. Ha eliminato la presenza di un ma-rito prepotente e violento e guadagnato il diritto a godersi la vita. I suoi occhi riflettono una gioia che non le avevo visto prima. Glielo dico. Lei ride e poi comincia ad esaminare me. Sono troppo magra, magari non mangio abbastanza. Però il mio aspetto è così giovanile da farmi sembrare una adolescente. «Si vede che sei felice. Però, dimmi la verità, la pasta la mangi?».

E s tate 1 97 1

Mentre ci avviciniamo a East Eleventh Street e Avenue C, mia madre comincia ad accorgersi che qualcosa nelle mie lettere avevo omesso. Il suo silenzio parla più di ogni commento. Poi arriviamo davanti all’edificio dove ci accolgono Buddy e Lenny che svento-lano bandierine bianco, rosso e verdi. Buddy abbraccia mio fra-tello e lo chiama brother mentre Lenny è folgorato dalla bellezza di mia sorella. Questo non è quello che desideravo, anzi l’interesse che il manager/pusher mostra subito per la sorellina vergine e in-nocente, ma con gli ormoni divampanti mi preoccupa più della vasca da bagno in cucina e le crepe al muro. Ora però l’immediato dilemma è come vivere in cinque in un appartamento come quello dove abito io, senza aria condizionata, con una temperatura e umi-dità da tropici. Pieno di risorse, Muzio converte la vasca da bagno multiuso in un bagno romano, riempiendola di acqua e profumi.

Così, a turno, ci immergiamo, un gin e tonic, qualche spinello, e ci raccontiamo le nostre avventure mentre mamma prepara il sugo e canticchia il soundtrack di Easy Rider.

La nostra felicità è lo scopo della vita di mia madre che si adatta subito al mio stile di vita e accetta la mia scelta. Ha capito che que-sto fa parte della ricerca del mio destino. A differenza degli emi-grati che arrivarono con le navi ad Ellis Island, la mia decisione di espatriare è dettata da un forte desiderio esistenziale. Io non avrei mandato i soldi a casa, ma ne avrei procurato abbastanza per vi-vere una vita di emozioni.

Ora sono tranquilla con la mia famiglia, così tranquilla che li invito tutti per una serata da Max. Prince si occuperà di farli mangiare il più possibile, mentre io mi muovo velocemente entrando e uscendo dalla cucina, gridando «In!» e «Out!» e in totale sincro-nia con la musica e con le altre cameriere che fanno zig-zag tra i ta-voli, scambiando qualche battuta coi clienti freakettoni.

Questo ambiente psichedelico dove ogni sera c’è un happening spontaneo dettato dalle sostanze che si consumano in grande quantità, vede mio fratello completamente a suo agio tanto che lui

e Bobby il barman stringono una immediata intesa e spariscono nel bagno. Mia sorella, dal canto suo, gode nel vedermi lavorare in quel modo, come se stessi improvvisando una performance in que-sto palcoscenico che riflette le molte eccentricità del momento.

«Voglio conoscere tua madre. Portami da lei». Esco dalla cucina seguita da Prince, lo chef.

«È lui Prince?» chiede Elvira. Gliela presento.

«Sì. Io Prince, tu Queen, ok?»

Elvira sorride quasi timidamente mentre lui le prende la mano e la bacia.

«Tua madre ha un sorriso meraviglioso... diglielo». Lei reagisce con un grazie. E lui continua: «Dì a tua madre che io amo le donne italiane». Elvira è contenta e lo invita a cena.

Io torno in cucina con Prince e lui mi chiede: «È ancora sposata a tuo padre?». Wow! La mammina ha fatto colpo. Lo rassicuro che sono separati e che, per quanto mi riguarda, Elvira è disponibile.

«Bene. Allora la voglio portare fuori, magari a ballare... lo conosce Marvin Gaye?».

Così qualche sera dopo, con la voce di Marvin Gaye che canta Wha-t’s going on, il mio appartamento «funky» si trasforma: do il primo party da quando abito qui. Le notti sono così calde quest’estate che a un certo punto andiamo tutti sul tetto... «Oh Mercy, mercy me, things are not what they used to be...» canta il sensuale Marvin Gaye e tutti balliamo un lento, Elvira e Prince inclusi.

La visita della mia famiglia diventa un evento in tutto il caseggiato;

anche per i bum ai quali mia madre regala gli spiccioli mentre loro in cambio le offrono un sorso di micidiale Thunderbird, una spe-cie di vinaccio popolare nella Bowery. Le strade del Greenwich Village e l’atmosfera di totale libertà che si respira fanno innamo-rare la mia intera famiglia, specialmente Alessandra che incontra altri giovani come lei che inseguono i loro sogni. Tutto intorno a lei è fonte di ispirazione: i teatri off Broadway, gli artisti di strada, i miei amici della scuola di cinema sempre con la macchina da

presa, le luci, i set, le prove. «Voglio fare quello che fai tu», di-chiara mentre è immersa nella vasca da bagno. «Farò la cameriera.

Io indietro non ci torno. Non voglio farmi mutilare da una società che non sa cambiare». Alessandra mi guarda. È decisa e aspetta una mia reazione. Io non ci penso troppo e la incoraggio: «Fai bene. Rimani qui. Ti do una mano. Ma non aspettarti che io mi prenda cura di te. Avere cura di me stessa è il massimo che posso fare». Le mie parole sono dure ma sincere. Alessandra capisce, ormai sa come vivo, ma sa anche che sono piena di entusiasmo, ho voglia di fare tante cose e, soprattutto, non ho paura di sognare.

Per Muzio, New York vuol dire musica, musica, musica. Buddy se lo porta dietro quando suona e i due passano molto tempo in-sieme. Con Muzio, Buddy si confida, gli racconta dei suoi incubi sul Vietnam e di come li reprime. Non con la musica, è da Carlos, il pusher portoricano, che trova la sua cura. Così è proprio per un mio amico che Muzio conosce Carlos, ma, contrariamente a me, lui varca quella soglia.

Ora la mia più impellente preoccupazione è tenere lontano Lenny dalla sorellina vergine. Non voglio sia lui il primo uomo della sua vita. La soluzione viene dalla scuola di cinema. David, Bill e Joan sono tre aspiranti filmmaker con i quali divido i momenti più spen-sierati. Il loro stile di vita libero da inibizioni è quello che ci vuole per una ragazza fresca dall’Italia.

«Ragazzi, ho bisogno del vostro aiuto». I tre amici mi passano uno spinello. Aspiro e poi confesso il mio piano. David, Bill e Joan si of-frono di ospitare Alessandra per tutto il tempo che sarà necessario.

Anche loro sono d’accordo: «meglio uno di noi che il pusher della Undicesima strada». Alessandra sceglie Joan un olandese anche lui errante. La mia missione è compiuta: la sorellina avrà una sana in-troduzione al sesso e alla vita bohemienne di Soho. Il resto sta a lei.

E lei non si perde d’animo. Dotata di uno spirito avventuriero, Alessandra decide di lavorare e di continuare gli studi allo stesso tempo. E a differenza di me, si trova a suo agio al Caffè Reggio

dove Carmine le fa cantare il suo repertorio di vecchie canzoni na-poletane. Alessandra è bella, con dei capelli lunghi e neri che le adornano un viso esotico, gli zigomi alti, gli occhi a mandorla. I clienti si innamorano, lasciano mance generose. Carmine è fiero di lei. E lei dichiara: «Farò la cantante».

Anche Muzio è rimasto. Il suo «look» da guru indiano gli procura un lavoro in un negozio macrobiotico sulla Avenue of the Ameri-cas, o Sixth Avenue, a sud di Bleeker Street. La sera impara il me-stiere di bartender aiutando Bobby da Max Kansas City.

Ma di lui ho scelto di non preoccuparmi. Dividiamo l’apparta-mento e ci vediamo la domenica pomeriggio... a volte. Abbiamo le nostre vite e ce le teniamo per noi. Non facciamo molte domande.

Per questo, il giorno che conosco Joe e mi innamoro di lui, lo tengo per me.

Non avrei mai pensato di prendere la cotta per uno square di nome Joe. Uno che lavora downtown, che porta giacca e cravatta e che, all’apparenza, sembra proprio un tipico white-collar. Joe viene a pranzo da Max e io non mi sono mai accorta di lui. Fino al giorno in cui si avvicina e mi chiede di uscire con lui. Inaspettatamente, invece di dire «no», dico: «Sì!». Ed è colpa del colore dei suoi occhi. È di un blu che non avevo mai visto negli occhi di qual-cuno. È un blu che mi ricorda il profondo delle acque del Medi-terraneo. Incurante del rischio, mi ci tuffo.

Joe chiama il nostro appuntamento un date. Mi viene a prendere con un mazzo di fiori, vestito casual, i capelli biondi spettinati, alla guida di una MG. Beh, mica male; forse anche uno square può diventare di-vertente. Joe parla con accento inglese, mi dice che abita in Inghil-terra, è qui per un lavoro con la IBM e vive nel New Jersey, ospite di suo fratello. Al terzo «date», Joe mi invita nel New Jersey. Suo fratello è fuori città e lui preparerà una cenetta a lume di candele, sottofondo di musica classica, ottimo vino italiano. Insomma ci sono tutti gli in-gredienti di una seduzione romantica. La passione ci travolge prima del dolce. Volano gli «I love you»... i miei primi... accompagnati dal

concerto per violino di Mozart. Il mattino dopo ci svegliamo ancora abbracciati. Gli occhioni blu di Joe mi fissano. Poi lui sussurra «I love you». È fatta. E Joe diventa il mio primo amore americano. Se-guono tre settimane appassionate; ci vediamo tutte le sere nel New Jersey. Al lume di candela mi confessa di non avere mai provato una tale passione; con me, dice, tutti i suoi sensi si sono risvegliati. Mi in-vita a seguirlo in Inghilterra. All’inizio della quarta settimana, Joe mi porta fuori a cena. Sceglie un ristorante nel West Village lungo la riva del fiume Hudson.

Dopo un paio di «Martini», Joe mi dice che suo fratello è di ri-torno. Lui se ne andrà in Inghilterra, ma il nostro amore deve con-tinuare. Scriverà, mi telefonerà... e poi, d’improvviso, i suoi occhi blu si riempiono di lacrime. I miei fanno lo stesso; stringo le sue mani nelle mie e mormoro: «Don’t go».

Joe scuote la testa, abbassa lo sguardo e con un filo di voce riesce a dire: «Non vado da nessuna parte. Ti ho mentito». Che gioia!

Non è vero che se ne va. «Allora rimani... ». Joe fa cenno di si con la testa e poi comincia la sua confessione.

«Io vivo... nel New Jersey. Non c’è nessun fratello. Invece c’è una moglie e torna tra poche ore». Ho una sensazione di grande gelo.

Tremo. Lui continua.

«Non la amo. Facciamo vite separate e penso che anche lei voglia di-vorziare. Ti prego non mi lasciare. I love you». Invece di dargli un pugno in faccia, chiamarlo coi nomi più ignobili e correre via, io dico: «I love you too». Come se non fossi cosciente di essere stata av-velenata dalle sue menzogne. Passiamo la notte insieme facendo l’amore come se fosse quella l’ultima volta. Pianti. Orgasmo. Pianti.

Il mattino è pieno di silenzio. Io sono sotto la doccia, lui si rade.

E poi succede la cosa più ovvia. Il ronzio del rasoio e lo scrosciare dell’acqua, ci impediscono di sentire il rumore delle chiavi che aprono la porta di casa. Sentiamo però una voce femminile che chiama: «Joe!». Jane è tornata. Jane è la moglie di Joe.

Quella stessa settimana, Joe e Jane chiesero il divorzio.

A lei andarono l’appartamento e i mobili. Joe se ne andò con i suoi effetti personali e i dischi. Noi continuammo a vederci anche se una nuvola tetra era caduta su di noi e oscurò il nostro amore. E quello fu solo l’inizio di una sorte che si inferocì con la mia vita.

Avevo aperto il mio cuore a Joe ed ero vulnerabile. Le sue men-zogne avevano intorbidito la mia «aura». Mi trovai intrappolata in un vortice che mi stava trascinando verso il fondo.

Cominciò il giorno che quelli della INS (gli ufficiali della immi-grazione americana) fecero un’irruzione da Max Kansas City.

Manca un’ora al turno del «lunch». I bus boys stanno preparando i tavoli mentre noi cameriere ci prepariamo negli spogliatoi, fu-miamo una sigaretta, ci rifacciamo il trucco, si ingoia un po’ di speed. Tutto d’un tratto panico e baraonda. Noi vediamo i bus boys, tutti illegali, tuffarsi verso l’uscita di sicurezza nel retro del lo-cale. Poi arriva di corsa Prince. Mi afferra per il braccio e mi porta in cucina. Apre la porta dell’enorme cella frigorifera e mi ci sbatte dentro. Ma una voce decisa lo blocca e gli intima di riaprire la porta del frigorifero. Obbedisce. Io mi faccio avanti impaurita.

Non so cosa stia succedendo. Dapprima ho pensato fosse una ra-pina. «Lei è okay», afferma Prince. «È una studentessa, lavora solo part-time». Ora arriva Mickey, il proprietario. Risponde alle do-mande della INS. Parlano di me. Non ho il permesso di lavoro.

Appena la INS se ne va, Mickey si avvicina, scuote la testa, dice:

«Sorry». E mi licenzia.

«Non ti preoccupare, sugar», mi rassicura Prince. «Ti affido i club.

D’ora in poi te ne occupi tu, così quello che guadagni è tutto tuo».

Ho ereditato la «gig» notturna del mio capo. Anche se so che quello che racimolo nei clubsdi Harlem non è abbastanza per mantenermi, lo faccio lo stesso, consapevole del rischio al quale vengo esposta ogni notte che mi inoltro in quell’ambiente. Ma a questo ci penso poco, perché il pericolo ha il potere di nutrire la mia adrenalina.

Succede che una notte, il pimp più sgargiante che si fa chiamare Midnight, mi offre trecento dollari, ma non per farmi prostituire,

me li vuole dare per immortalare una serata in onore delle sue ra-gazze, per fotografare i momenti felici che lui regala a quelle che rendono bene e che sopratutto non fanno capricci. Queste foto le scatto con la mia Leica, da vera fotografa, perché Midnight e le sue girl sono soggetti troppo belli per una meschina polaroid.

Quando gli faccio vedere i provini, Midnight è entusiasta. Ma cosa ci fa una come me con quel poveraccio di Prince? Io merito molto di più e lui sa come soddisfare le mie ambizioni. Midnight ha molte connection, non per niente le sue ragazze frequentano un buon giro. Dice che se entro a fare parte del suo entourage avrò il meglio di tutto e tanta buona coca. Ho bisogno di soldi. Devo assoluta-mente lasciare la Undicesima strada. Dico a Midnight che ci pen-serò; non dirò niente a Prince delle offerte del pimp. Intanto con 300 dollari cambio casa e vado sulla Avenue of the Americas, o 6th Avenue. Muzio viene con me e divideremo l’affitto di cento dollari al mese per un appartamento ammobiliato con tre stanze, e questa volta ho anche una vera cucina e un vero bagno con la vasca al posto giusto. È l’autunno del 1971.

Continuo ad andare ad Harlem e scattare a più non posso anche con la Leica così guadagno di più. Midnight è sempre vigile e ge-neroso. Ma una notte mi mette con le spalle al muro, bloccandomi col suo corpo ricoperto di raso dorato.

«Ti farò sentire come una donna, baby». Sento il suo fiato caldo dentro le orecchie e rabbrividisco. Non so come, ma riesco a sci-volare lungo il muro e fuggire. Comincio a correre senza guardare indietro, guadagnando distanza tra me e il mondo di Midnight. La mia gig ad Harlem è giunta a termine.

Ora devo arrivare downtown il più presto possibile. Vedo avvicinarsi la luce debole di un taxi. Gli corro incontro e lo fermo. Dico al con-ducente dove deve portarmi, ma lui non mi ascolta e continua la corsa verso il suo inferno con me nel taxi. Deve essere fatto. È pazzo. Dove mi sta portando? Ehi! Fermati! Fammi scendere! Ma lui continua ad attraversare le avenue dirigendosi verso il Bronx. A quel punto mi

rendo conto che non ho scelta. Devo saltare fuori da questo male-detto taxi. Aspetto il momento opportuno. Ecco un incrocio. Spa-lanco la portiera e grido: «Fermati!». Lui inchioda sui freni e in pochi secondi sono fuori dall’incubo e in mezzo ad una strada che non co-nosco mentre il taxi riprende la sua corsa nel buio della notte. Co-mincio a correre. Forse correrò per il resto della notte.

Il giorno dopo scopro che Prince è sparito senza lasciare un mes-saggio, un indirizzo, un numero di telefono. Vengo a sapere che è andato nel South Carolina per prendersi cura della vecchia madre.

Forse questo è il suo modo per svanire dalla città come se non fosse mai esistito. La sua improvvisa scomparsa mi rattrista molto.

Se ne è andato un uomo dal grande cuore, mi mancherà molto.

È solo novembre e già si sente l’inverno alle porte. Non ho un la-voro e i soldi sono pochi. Ho appena avuto un incarico da un set-timanale italiano e ho fotografato i sobborghi della Pennsylvania.

Grazie alla Leica avrò abbastanza denaro per un paio di mesi. «Tra poco andrò a riscuotere alla 57ma strada», penso mentre salgo le scale del palazzo dove abito. Sono le 11:30 del mattino. D’improv-viso noto qualcuno che sale le scale dietro di me. È un nero, vestito di raso nero, con un cappello di raso rosso. È la divisa del pimp.

Raggiungo il pianerottolo, mi volto e lui è davanti a me, una .38 puntata contro la mia fronte. Non reagisco. «Sono inseguito dalla polizia. Devo nascondermi. Fammi entrare da te». Ci mette 5 se-condi a dire queste parole; e in questi 5 sese-condi io decido che non voglio morire per mano di un pimp, in piedi davanti alla porta di un appartamento in subaffitto, su un pianerottolo qualunque, alle 11:30 del mattino. Non riesco a immaginare una fine così banale.

Ho un’idea romantica di come sarà la mia morte: con la Leica tra

Ho un’idea romantica di come sarà la mia morte: con la Leica tra