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Willbur, il marito americano

È più di un anno che sono negli States e il mio visto sta per sca-dere. Ho una brutta premonizione di come andrà la richiesta di rinnovo. Dopo un’intervista estenuante con l’ufficiale della INS, il mio visto viene rinnovato per due giorni. Esco dal palazzo della INS in downtown Manhattan sconfitta. È la fine dei miei sogni e tutto per uno stupido timbro. Sai che ti dico? Non permetterò mai che un motivo così banale possa deviare il corso della mia vita.

Devo ricostruire la speranza, andare avanti e sconfiggere la paura che ha infettato la mia anima. Se mia madre è sopravvissuta a due bombardamenti, io sopravvivrò alla INS.

Nella mia vita i periodi peggiori sono seguiti da miracoli del cuore umano. Willbur è il miracolo di cui avevo bisogno. Assistente so-ciale dell’Indiana, Willbur ha 25 anni, un’anima serena, pacifica e non c’è niente di cattivo nel suo spirito. È stato assalito, derubato, ma nonostante ciò, non prova mai rabbia, non parla mai di vendetta.

Ci siamo incontrati alla scuola di cinema e insieme siamo entrati a far parte di un laboratorio sperimentale di video, chiamato Global Village. Willbur, Will, e io siamo diventati subito amici.

Assieme passiamo ore alla moviola, a caricare i magazzini delle 16 millimetri e io mi sento completamente a mio agio e ho fi-ducia in lui. Perciò È naturale che sia lui il primo ad accorgersi del mio cattivo umore quando torno dall’incontro con l’ufficiale dell’immigrazione.

«Che ti succede? Perché sei così triste?». Per tutta risposta scop-pio in singhiozzi senza paura di sembrare ridicola. «Andiamo a fare due passi, così ti calmi e mi dici che ti succede. Chissà, forse posso darti una mano». Will ha capelli lunghi e biondi, una voce calma, rassicurante. Mentre camminiamo per le strade di Soho, gli racconto tutto quello che mi è successo, cominciando dal pimp col cappello di raso rosso.

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«Non devi stare da sola», mi consola. «Starai da me quando mio fratello non c’è e io starò da te quando tu vorrai». Quando gli dico che il mio visto scade fra due giorni lui risponde semplicemente:

«Se ti va possiamo sposarci». Spalanco gli occhi: «Dici sul serio?».

Lui fa cenno di si e sorride. «Ho sempre sognato una moglie ita-liana. Vuoi essere mia moglie?». Piango dalla gioia, lo abbraccio, lo riempio di bacetti e urlo: «Yes!».

Passiamo la notte insieme. Lui mi carezza i capelli e io lo tengo per il braccio. Lo spettro della paura non mi appare in sogno. Ho accanto a me un angelo che ha cacciato via i demoni. Willbur è la prova che i tempi duri non durano per sempre.

«Ho conosciuto un angelo e me lo sposo», annuncio con disin-voltura a Muzio ed Alessandra. «Ma non ditelo a nessuno». I mie due fratelli mi fissano increduli e riescono solo a dire: «E mamma?».

«Per ora non lo saprà. Non siamo in Italia. Qui per sposarsi servono solo due persone: lui e lei». Mi fanno qualche domanda: chi è, dove l’hai conosciuto, sei innamorata. Glielo spiego e per quanto ri-guarda l’essere innamorata rispondo con totale onestà: «È una fol-lia sposarsi quando si è innamorati. L’amore non sente ragioni, ma il matrimonio si fa usando la ragione. Will mi dà pace e per questo divento sua moglie». C’è un senso di trionfo personale in quello che dico. Per me l’amore è un bizzarro «rush» di emozioni che ar-riva quando meno te lo aspetti e ti coglie sempre impreparata. Poi il «rush» si raffredda e, se sei sposata, quello che ti rimane è l’im-pegno preso anche per iscritto. E sei intrappolata.

Nei giorni che seguono mi occupo delle formalità che risolvo senza file o carta da bollo. Mi sposerò di mercoledì, un giorno meno de-primente del lunedì o martedì, più anonimo del giovedì e certamente meno compromettente di venerdì, sabato o addirittura domenica. Il mercoledì ti fa sperare che il resto della settimana sarà soddisfacente.

Per me il mercoledì è il giorno della speranza.

Ci sposiamo a City Hall alle nove di mattina, con due testimoni

che abbiamo trovato lì e pagato venti dollari ciascuno. Io indosso un vestito mini bianco e blu e Will un completo scuro trovato alla Salvation Army. Per l’occasione ha intorno al collo una cra-vatta e i capelli raccolti in un codino. Siamo secondi in una fila che aumenta a vista d’occhio. Arriva il nostro turno ed entriamo nella saletta dove il giudice ci fa cenno di metterci davanti a lui che comincia il sermone «in pilota automatico». Parla così ve-loce che a stento riesco a comprendere qualche parola. Non im-porta. Quando si ferma di colpo, io e Will ci guardiamo e capiamo che forse è il momento di dire: «I do», scambiarci la fede e darci un bacio. Ora che sono davanti al giudice mi viene in mente mio padre, quel padre che ho amato in un modo inve-rosimile e poi odiato con altrettanta passione. Desidero forte-mente il momento in cui lo affronterò senza più rancore perché il suo potere non mi fa più paura.

La cerimonia si conclude. Avanti la prossima coppia. Per noi non c’è la luna di miele. Però la sera stessa celebriamo la nostra unione con una spaghettata nel mio appartamento, con i nostri parenti e amici: Muzio, Alessandra e la gang di Soho – David, Bill e Joan – e il fratello maggiore di Will, Steve, anche lui assistente sociale. Si fanno piani per il futuro. Ora ho un legittimo marito americano e ho diritto a un lavoro legittimo.

Alessandra racconta a Carmine del mio matrimonio. Dapprima lui è dispiaciuto: «Avrebbe dovuto sposare mio nipote. Lui è italiano!

Tua sorella è una capa matta». Poi esprime la peggiore delle sue paure: «È bianco?». Alessandra lo rassicura, non solo è bianco, ma è anche una brava persona. Carmine è contento perché anche lui in fondo è una brava persona. «Dì a tua sorella che la voglio ve-dere. Ho un lavoro sicuro per lei». So che Carmine è uno che man-tiene la parola e mi faccio viva.

«Che tipo di lavoro?» oso chiedere. La mia domanda sembra infastidirlo.

«Un buon lavoro, è tuo e puoi cominciare subito. Che altro vuoi

sapere? Non ti basta?». Carmine non accetta che si facciano troppe domande. Quando lui offre una mano, la prendi. Lo rin-grazio sperando che qualunque cosa sia non abbia a che fare con suo nipote cocainomane.

«È una stazione radiofonica». Sono sorpresa. È meglio di quanto mi aspettavo. «Non ho mai fatto radio».

«E tu gli dici che l’hai fatta, ok? Il lavoro è tuo... mi deve un favore».

«Radio Italy» è un programma per gli italiani d’America di una stazione radiofonica a carattere etnico. Trasmette programmi in varie lingue: ebraico, hindu, spagnolo, russo e tante altre quante sono le razze che popolano New York City. Il programma italiano va in onda ogni giorno per quattro ore, a presentarlo è un italiano arrivato in America con grandi ambizioni e che poi si è accon-tentato di molto meno. Si chiama Luigi. Un uomo minuto, che non riesce a nascondere l’amarezza per non essere diventato

«qualcuno».

«Ha mai fatto radio?». Luigi sembra irritato dalla mia presenza. E siccome non sono capace a mentire, rispondo: «Ho lavorato in te-levisione e per un giornale.»

«Non è lo stesso». Parla senza guardarmi in faccia, facendo finta di essere molto occupato. «Ho molto da fare come può vedere e non ho tempo per insegnarle».

«Imparo velocemente. Lavoro velocemente». Luigi alza lo sguardo: «Non c’entra la velocità. Non possiamo sbagliare. Siamo in diretta. Ma dato che lei viene raccomandata da un caro amico, la assumo subito e comincia da oggi».

Faccio l’assistente di Luigi. Scrivo promo, pubblicità di ristoranti italiani la maggior parte dei quali si trovano a Brooklyn, Queens e Bronx. Parte del programma consiste nel promuovere i migliori oli di oliva, l’ultima novità di salsa al pomodoro e la pasta più al dente. Poi, tra la pubblicità e i giornali radio, va in onda la musica.

Il mio compito è quello di selezionare canzoni italiane per gli ascol-tatori italo americani che le richiedono per posta. Eccomi di nuovo

alle prese con O sole mio e Volare. Ma questa volta almeno c’è il vantaggio di poter portare a casa casse di spaghetti, salsa di po-modoro, olio di oliva, tutta merce che sfama non solo me ma anche i miei fratelli, Will e suo fratello.

Will e io non siamo quasi mai soli; la nostra residenza dipende dalle attività sessuali dei nostri fratelli. In altre parole, io dormo da lui tutte le volte che Muzio torna a casa con una ragazza e Will viene da me quando suo fratello ha compagnia femminile. A tutt’oggi, sono convinta che il nostro era un matrimonio perfetto. La nostra unione era libera da aspettative e restrizioni. Eravamo uniti da fi-ducia e amicizia con la promessa di aiutarci in caso di bisogno. Non si facevano domande, non c’erano dubbi, né gelosie né competi-zioni. Non c’erano litigi ma molti sorrisi. E più passava il tempo e ci conoscevamo meglio, più crescevano il rispetto e l’amore. Que-sto mi permetteva di riconquistare sicurezza e il controllo delle mie emozioni. Le notti lunghe e sole passate in compagnia di incubi e della paura erano solo un brutto ricordo.

Con la fine dell’anno scolastico si conclude anche la mia scuola di cinema. Il diploma fa di me una filmmaker, uno stato mentale più che una professione. Essere filmmaker mi rende consapevole che fin tanto che la mia arte è parte di me non sarò mai sola. Il mio test finale è un corto che visualizza una storia d’amore surreale ispi-rata a una bambola imprigionata in una gabbia d’uccello trovata in un cassettone dell’immondizia.