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La letteratura come strumento per scandagliare il presente è soprattutto alla base de

L’affaire Moro. Ciò che interessa rilevare in questo momento (delegando l’analisi

132 L. Sciascia, Candido, ovvero un sogno fatto in Sicilia, in Opere [1971.1983], cit., p.363.

133 M. Onofri, Storia di Sciascia, cit., p.200.

134 L. Sciascia, Candido, ovvero un sogno fatto in Sicilia, cit., p.380.

135 G. Traina, Leonardo Sciascia, cit., p.62.

puntuale dell’opera al paragrafo 3.3) sono i tempi e i modi con cui Sciascia realizza l’opera, e le reazioni che questa susciterà.

La pubblicazione avvenne nell’autunno del 1978, pochi mesi dopo il ritrovamento del cadavere del presidente della Democrazia Cristiana. Sciascia costruisce il suo pamphlet partendo dall’analisi linguistica delle lettere di Moro, trattandolo alla pari di un personaggio letterario: da qui la connotazione più letteraria che politica dell’opera137, più religiosa che politica:

Mi sono interessato a Moro spinto dalla mia vecchia idea che bisogna ricercare la verità. La sua è una storia terribile, non solo a causa della tragica fine toccatagli, ma perché è stata sommersa da un mare di retorica e mistificazione. Mi sembra che si sia voluto modificare l’immagine di quest’uomo proprio in ciò che aveva di più umano. Può darsi che Moro prigioniero delle Brigate Rosse abbia avuto paura. Può darsi che pensasse soprattutto a sopravvivere. Ma si è sempre comportato come l’uomo che era stato: perché pretendere che fosse cambiato? Insomma, ho voluto scrivere più un libro religioso che un libro politico138. Dopo il silenzio nel periodo tra il rapimento e l’uccisione139, Sciascia scrive a caldo un testo che intende riscattare la creatura Moro, uomo solo abbandonato dagli amici e colleghi di partito durante la prigionia imposta dai brigatisti, che acquisirà sempre maggiore consapevolezza riguardo la propria tragica, inevitabile, fine. Tuttavia, per una piena comprensione, è opportuno soffermarsi sia sull’opinione che Sciascia aveva di Moro prima che venisse rapito, sia sull’attacco alla linea della fermezza senza mai però voler legittimare i terroristi.

L’apertura dell’Affaire è nel segno di Pasolini, «con Pasolini. Per Pasolini»140. Quel Pasolini che Sciascia non finirà mai di sentire «fraterno e lontano», vicino in molte cose scritte e pensate, lontano per l’ombra di un malinteso. Recuperando il corsaro (verrebbe da dire, resuscitandolo), Sciascia costruisce l’incipit attraverso una narrazione in prima persona in cui racconta di aver scorto nella crepa di un muro una lucciola che, un po’ proustianamente, gli richiama alla mente i ricordi d’infanzia, una vita irripetibile che non c’è più e quindi lo stesso Pasolini. In particolare, si riallaccia al celebre L’articolo

137 Marco Belpoliti, Settanta, Torino, Einaudi, 2010, p.10.

138 L. Sciascia, La Sicilia come metafora, cit., pp. 131-132.

139 Ibidem: «Mi è stato rimproverato di tacere o, meglio, mi si è accusato di tacere. Ora, se non ho detto

niente è stato perché in quel momento non avevo niente da dire. Ero in preda alla confusione, mi sentivo assalire da una gran pietà e pensavo di dover rendere conto alla mia coscienza, non già ai miei inquisitori».

delle lucciole141, citandolo lungamente fino ad arrivare al passo in cui il corsaro scrive di Moro:

Gli uomini di potere democristiano hanno quasi bruscamente cambiato il loro modo di esprimersi, adottando un linguaggio completamente nuovo (del resto incomprensibile come il latino): specialmente Aldo Moro: cioè (per una enigmatica correlazione) colui che appare come il meno implicato di tutti nelle cose orribili che sono state organizzate dal ’69 a oggi, nel tentativo, finora formalmente riuscito, di conservare comunque il potere142.

Sulla scia dell’interpretazione di Pasolini, Sciascia parte dal linguaggio oscuro e ingannevole del Potere democristiano che soprattutto Moro, «il meno implicato di tutti», ha contribuito a istituire. Tuttavia, come nota Belpoliti143, Sciascia tenta di andare oltre il ragionamento pasoliniano: Moro, abbandonato dagli amici-colleghi di partito durante il rapimento, era già solo ben prima che s’innescasse l’affaire, in quel Palazzo che aveva contribuito a edificare ma che, proprio perché il meno implicato di tutti, non era stato lesto ad abbandonare in direzione della sede di una nuova dimensione di Potere, più oscuro e complesso, in cui non poteva più trovar posto. Era infatti destinato a più «enigmatiche e tragiche correlazioni»:

“Come sempre – dice Pasolini – solo nella lingua si sono avuti dei sintomi”. I sintomi del correre verso il vuoto di quel potere democristiano che era stato, fino a dieci anni prima, “la pura e semplice continuazione del regime fascista”. […]. Pasolini non sa decifrare il latino di Moro, quel “linguaggio completamente nuovo”: ma intuisce che in quella incomprensibilità, dentro quel vuoto in cui viene pronunciata e risuona, si è stabilita una “enigmatica correlazione” tra Moro e gli altri; tra colui che meno avrebbe dovuto cercare e sperimentare un nuovo latino (che è ancora il “latinorum” che fa scattare d’impazienza Renzo Tramaglino) e coloro che invece necessariamente, per sopravvivere sia pure come automi, come maschere, dovevano avvolgervisi. In questo breve inciso di Pasolini – “per una enigmatica correlazione” – c’è come il presentimento, come la prefigurazione dell’affaire Moro. Ora sappiamo che la “correlazione” era una “contraddizione”: e Moro l’ha pagata con la vita. Ma prima che lo assassinassero, è stato costretto, si è costretto, a vivere per circa due mesi un atroce contrappasso: sul suo “linguaggio completamente nuovo”, sul suo nuovo latino incomprensibile quanto l’antico. Un contrappasso diretto: ha dovuto tentare di dire col linguaggio del nondire, di farsi capire adoperando gli stessi strumenti che aveva adottato e sperimentato per non farsi capire. Doveva comunicare usando il linguaggio dell’incomunicabilità. Per necessità: e cioè per censura e autocensura. Da prigioniero. Da spia in territorio nemico e dal nemico vigilata144.

141 P. P. Pasolini, Il vuoto di potere in Italia, «Corriere della sera», 1 febbraio 1975, poi appunto col titolo

L’articolo delle lucciole, in Scritti corsari, cit., pp. 128-134.

142 Ibidem., p. 133-134.

143 M. Belpoliti, Settanta, cit., p.415. Si veda poi il paragrafo specifico.

Moro è stato un uomo chiave del Potere, delle maschere della DC, e il nuovo linguaggio è addirittura suo: c’è stato isolamento, meno implicazione, ma non impunità e Sciascia, provandone pietà come vittima di un contrappasso, non può arrivare ad assolverlo.

In merito alle Brigate Rosse, invece, Sciascia dovrà scrollarsi nuovamente di dosso la fastidiosa etichetta «né con lo Stato né con le BR». Il 4 aprile 1978, su «Panorama», scriverà con evidente risentimento:

Lo dicevo a chiare lettere. L’ho ripetuto in televisione un mese fa. Ma grande è la malafede e l’imbecillità e il fanatismo di cui si è circondati. Con mezzi terroristici, polemizzando col mio silenzio. Vogliono che io dica: o che bisogna difendere questo Stato così com’è, o che hanno ragione le BR. Tutta la mia vita, tutto quello che ho pensato e scritto, dicono che non posso stare dalla parte delle BR. E in quanto a riconoscermi nello Stato così com’è (e sarebbe esatto dire com’era fino al rapimento dell’on. Moro), continuo a dire di no. Capisco che ci sia, da parte dei fanatici, la esigenza di etichettarmi una volta per tutte o come rivoluzionario o come reazionario. I fanatici hanno bisogno di star comodi. Per mia parte, dico di essere semplicemente, in questo momento, un conservatore. Voglio conservare, di fronte allo Stato che se ne è svuotato, la Costituzione. Voglio conservare la libertà e la dignità che la Costituzione mi assicura come cittadino; e la libertà di cui ho goduto come scrittore, e la dignità che come scrittore mi sono guadagnata145.

Sciascia rivendica la legittimità della propria individualità d’opinione, costantemente presente nella sua opera e dunque, teoricamente, scevra da qualunque tipo di fraintendimento. Nel caso specifico dell’agire delle BR, proporrà un inequivocabile paragone con la criminalità mafiosa, in particolare in quell’evidente invisibilità che il vano operato delle forze dell’ordine collocava nella sfera dell’impossibile:

A due settimane dal rapimento dell’onorevole Moro, la polizia aveva operato 35000 perquisizioni, 9700 pattugliamenti, 1200 rastrellamenti, 3500 ricognizioni navali e 1200 aeree; controllato 6700000 persone, 3800000 automezzi, 5900 mezzi navali; effettuato 62000 posti di blocco. Sono passate altre quattro settimane: e crediamo che queste cifre, se non triplicarle, si possano almeno raddoppiare. E viene il capogiro, specialmente considerando quella relativa al controllo delle persone […]. E non una di queste persone che abbia dato indizio o sospetto di appartenenza alle brigate rosse. Questo vuol dire che le brigate rosse vivono nella sfera dell’impossibile. Non solo dell’impossibile pratico, ma anche dell’impossibile teorico, dell’impossibile matematico. Non solo sfuggono al controllo della polizia. Sfuggono anche al calcolo delle probabilità146.

145 L. Sciascia, Non difendo questo uovo, «Panorama», 4 Aprile 1978, poi in La palma va a nord, a cura di Valter Vecellio, Gammalibri, Milano, 1982, p.31.

146 L. Sciascia, Nero su nero, cit., pp.791-792. Serie numerica dei dispiegamenti da parata delle forze di polizia che ritornerà anche nella Relazione di minoranza presentata dal deputato Leonardo Sciascia, in

I brigatisti finiscono (vengono fatti finire) in un’ineffabilità quasi divina, mistica, propria di un’organizzazione terroristica che sta divenendo a tutti gli effetti Potere, propugnando una teologia del dominio di matrice inquisitoriale:

Non c’è nessuna differenza tra un brigatista rosso e un inquisitore dei tempi dell’Inquisizione spagnola, non più di quanta ve ne fosse tra quest’ultimo e il convinto stalinista degli anni Cinquanta […]. Le Brigate Rosse si sono create un potere: dal momento che riescono a seminare il terrore, a colpire praticamente ovunque sembri loro opportuno, esse sono un potere reale, e non nutrono il minimo dubbio che tale potere aumenterà e che finirà per essere il potere. Da ciò i sequestri e i processi, che sono tragica parodia del potere statuale147. Basterebbe leggere con attenzione le pagine di Sciascia per non incorrere in tali abbagli interpretativi. Evidentemente dev’essere una pretesa più complessa di come sembra se il direttore di «La Repubblica», Eugenio Scalfari, si sentì autorizzato a recensire l’opera sciasciana un mese prima che venisse pubblicata, basandosi sulle interviste apparse su «L’Espresso» e «Panorama» in cui Sciascia anticipava alcune componenti del testo. Una supponenza che generò la forte e condivisibile insofferenza dello scrittore di Racalmuto: «il meno che io possa dire è che è stato un po’ impaziente, un po’ frettoloso. Se fosse stato più paziente, se avesse avuto meno fretta, nel libro avrebbe trovato di meglio e cioè, dal suo punto di vista, di peggio»148. Scalfari, in modo preoccupante, aveva travisato il messaggio del testo, generando l’incomprensione di Sciascia che non si spiegava «perché Scalfari mi voglia così apoditticamente far dire che la grandezza di Moro “è stata quella di non volersi battere per questo Stato”. Non l’ho detto. Non l’ho pensato»149. Nasceva nel siciliano l’ombra di un sospetto:

Mi rendo conto che è comodo tornare ad assumere la questione nei termini di amore o disamore allo Stato; ma il fatto è che non sono più questi. Si tratta, oggi, semplicemente di amare o di non amare la verità. E Scalfari lo sa bene che la questione sta in questi termini; lo sa tanto bene che a un certo punto sente il bisogno di ricorrere a una specie di canone estetico per mettere le mani avanti a destabilizzare […] quel tanto di verità che c’è nella mia rappresentazione del caso Moro. Espressioni come “il mistero dell’arte”, “trasformazione e ricreazione della realtà”, “commuovere la fantasia e il sentimento morale”, da lui usate nei miei riguardi […] mi allarmano e mi preoccupano. Mi viene il sospetto, insomma, voglia dire che quello che io ho scritto su caso Moro va lasciato a cuocere nel brodo del “mistero

147 L. Sciascia, La Sicilia come metafora, cit., pp.65-66.

148 L. Sciascia, Nero su nero, cit., p.822.

149 Ibidem, p.823. E aggiungeva: «Del resto, proprio nello stesso numero della “Repubblica”, seconda

pagina, c’è un corretto resoconto delle interviste: vien fuori chiaramente che non ho detto, come invece Scalfari afferma nell’articolo di fondo, che i partiti e gli uomini che non vollero le trattative con le Brigate Rosse sono “i veri responsabili della morte fisica” di Moro. Devo dedurne che Scalfari non legge “la Repubblica”?».

dell’arte”, e che nulla ha a che fare con la realtà. Pericolosissimo canone, direi. Perché il vero mistero non è quello dell’arte: è quello del come e del perché Moro è morto150.

Nella critica di Scalfari Sciascia percepisce la volontà di azzeramento del bacino di verità dell’opera, costringendola in una letterarietà intesa come arte sterile, distaccata dalla realtà e relegata meramente ad accartocciarsi su se stessa. Ma la forma letteraria, quando indipendente e slegata da ogni tipo di rapporto con il Potere151, è la più alta portatrice di verità, la quale deve dunque essere ricercata nelle lettere di Moro. Sciascia era fermamente convinto dell’autenticità degli scritti fuoriusciti dalla prigione del

popolo e i molti sostenitori della fermezza, non volendo accettare l’umanità del

prigioniero e bollando le sue lettere come falsi, hanno intenzionalmente contraffatto la verità che quelle parole portavano con sé.

Quello di Scalfari sarebbe stata solo la prima di una serie di critiche speculari, inizialmente sul contenuto e poi sulla forma152.Una serie di (non) letture che forniscono lo spettro della grave e inquietante creazione di un’omertà di regime volta all’occultamento della verità:

E ci sarebbe da farne una completa rassegna: servirebbe a dare idea di come un paese libero si renda, e proprio in quelli che sono o dovrebbero essere strumenti di libertà, a un regime e in un certo senso lo crei. Il che era già avvertibile durante lo svolgimento dell’affaire, dal 16 marzo al 9 maggio di quest’anno; ma ancora di più lo è oggi, nel momento in cui, succeduta all’emozione la riflessione, la parte migliore del popolo italiano chiede che venga finalmente in luce la verità153.

Delle altre posizioni di intellettuali in merito al rapimento Moro, devono almeno essere ricordate quelle di Calvino, Fortini e Arbasino.

Calvino, al pari di Sciascia154, non si era pronunciato durante i lunghissimi giorni tra il rapimento e l’uccisione di Moro, e soltanto il 18 maggio, a sacrificio compiuto,

150 Ibidem.

151 Ibidem. p.834 «Ci deve essere una condizione perché una simile capacità [disvelatrice] possa essere

esercitata sui fatti dell’oggi, sulla greve materia della storia quotidiana: ed è l’indipendenza, l’isolamento, il nessun legame con qualsiasi forma di potere comunque costituito, l’indifferenza ad ogni ricatto economico, ideologico, culturale, sentimentale persino».

152 Ibidem. pp.835-836. «“La Repubblica” ha dedicato a questo mio libro quattro articoli: due prima di

leggerlo, due dopo averlo letto […]; due per dire che il libro non andava nel contenuto, due per dire che non andava nemmeno nella forma. Poiché dopo la pubblicazione dei primi due articoli erano venuti fuori dati e documenti che provavano la giustezza delle mie deduzioni e dei miei giudizi, e cioè del contenuto, ecco il tiro spostarsi sulla forma, sul miracolo non avvenuto. Comportamento davvero esemplare; e che a molti è stato da esempio».

153 Ibidem.

154 E al pari della maggior parte degli intellettuali italiani, con la rumorosa eccezione di Eco (si vedano R. Contu, Anni di piombo, penne di latta, cit., pp. 460-466; M. Belpoliti, Settanta, pp.52-58).

sentirà il bisogno di giustificare la propria latitanza155. Tuttavia, sebbene in una testata secondaria, Calvino aveva preso posizione in un’intervista rilasciata a Saverio Vertone156 il quale, fin dalle primissime parole, alluderà con disprezzo alla posizione di Sciascia (senza per altro mai pronunciarne il nome, come invece si premurerà di fare Calvino nel rispondere), presentandole come infette da una neutralità perniciosa, totalmente fuori luogo di fronte alla necessità dirompente di schierarsi a difesa o meno di una democrazia che non è poi così compromessa e che ha ottenuto notevoli successi sociali. Vertone tenta quindi fin da subito di marchiare l’intervista con un sigillo antisciasciano e statalista, confidando di trovare un appoggio nelle posizioni che Calvino aveva espresso circa lo Stato e il terrorismo negli anni precedenti. Ma questi, smorzando almeno nei toni tali attese, cercherà di difendere la categoria degli intellettuali dall’accanimento polemico di cui tornavano nuovamente a essere vittime. Alla lettura della posizione «né con lo Stato né con chi lo vuole distruggere» come modo per «lavarsi pubblicamente le mani», Calvino risponderà:

La formulazione è certamente semplicistica; però io credo che interpretate male questi atteggiamenti. La dichiarazione che hai parafrasato, ad esempio, va vista nel contesto di tutte le cose che Sciascia ha scritto e detto […]. Io non mi esprimo e non mi sarei mai espresso così, perché mi rendo conto della gravità della situazione. Però, in un Paese in cui tante cose non funzionano e nel quale ci sarebbero tante persone da accusare, mi sembra ingiusto prendersela con gli intellettuali. Il fatto che a un dato punto Sciascia, Montale e Moravia siano scelti come bersaglio della polemica, spinge me, che la penso diversamente e che vorrei discutere con loro, a dissociarmi dalle accuse dei politici. Se si vuole che dicano qualcosa di diverso, si cerchi di interpretare le loro parole157.

Poi, in modo molto netto:

Io direi che per prima cosa non bisogna cercare capri espiatori e poi tentare di impostare discussioni concrete […]. Sì, non ho nessun dubbio che si debba difendere la repubblica. Nello stesso tempo bisogna anche difendere la possibilità di parlare, di discutere. Se però si comincia a fare degli elenchi di intellettuali buoni e di intellettuali cattivi, non ci sto […]. Il fatto è che non bisogna ridurre a slogans le posizioni di chi dissente […]. In ogni caso, ripeto, Sciascia è un uomo di grandi esigenze morali e di grandissimo rigore civile. Però non ha mai fatto professione di ideologia rivoluzionaria. Anche per questo mi pare assurdo farne una specie di simpatizzante delle BR […]. Io credo che dovremmo tutti avere il coraggio di

155 I. Calvino, Le cose mai uscite da quella prigione, «Corriere della sera», 18 maggio 1978, poi in Saggi

1945-1985, vol. II, cit., p. 2336: «Le cose che potevo scrivere o erano già bene espresse in molti degli

articoli che leggevo, oppure erano idee che potevo esprimere solo in forma dubitativa e interrogativa, e avrei così contribuito alla confusione anziché alla chiarezza».

156 Saverio Vertone, La verità è spiacevole ma bisogna dirla. Intervista a Italo Calvino, «Nuovasocietà», 1 Maggio 1978.

rischiare l’impopolarità tra i giovani, e parlare chiaro. Per uscire dalla crisi bisogna incominciare a dire la verità a tutti158.

Calvino insomma, pur non condividendo una posizione critica nei confronti dello Stato durante il rapimento, non accetterà il tentativo di ridurre gli intellettuali in culturame bofonchiante. Soprattutto, evidenzierà come alcuni uomini di cultura potrebbero sostenere qualcosa di diverso semplicemente se venissero interpretate correttamente le loro parole, senza abbandonarle alla fucina taroccante dei media, in vista di un dialogo seriamente intenzionato a raggiungere la verità.

Ne Le cose mai uscite da quella prigione, invece, Calvino vuole «annotare» ciò che ha pensato durante la vicenda Moro «per cercare di capire oggettivamente ciò che stava succedendo», ovvero le «supposizioni» contrapposte «all’oscurità degli avvenimenti, per non rassegnarmi all’incomprensibile»159. A differenza di Sciascia, quindi, Calvino ha interesse nel comprendere minuziosamente la materialità dei fatti, un’attenzione decisamente meno letteraria rispetto a quella del siciliano. Questa sua «curiosità per i dettagli minimi», «per il linguaggio in cui poteva stabilirsi una comunicazione tra due universi incompatibili»160, si univa però all’immediata e inossidabile dell’inevitabilità della morte di Moro: le trattative sarebbero state un diversivo velleitario, poiché «se Moro è stato sequestrato per sconvolgere le istituzioni della Repubblica, l’azione chiunque abbia concorso a ispirarla, non poteva avere altra soluzione da quella che ha avuto»161. O meglio: in un primo momento Moro doveva essere usato contro il proprio partito, contro i propri amici, tolto di mezzo dai luoghi decisionali per sabotare il compromesso storico senza arrivare a ucciderlo (l’alone di martirio sarebbe stato controproducente); successivamente, notata la sua non-resistenza, la continua e ostinata rinegoziazione di ciò che poteva o non poteva scrivere, Moro avrebbe «imparato più