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GLI ALBERI DALL’ANTICA ROMA FINO AD OGGI

per-duto quasi ovunque la vegetazione boschiva originaria in seguito agli interventi effettuati durante lo sviluppo urbano della città; tuttavia, in alcuni casi, la vegetazione che si è ri-costituita può essere considerata, almeno in parte, una testi-monianza di quella preesistente (PiGnatti E., 1987; PiGnatti

e. & PiGnatti G., 1993; PiGnatti e. & al., 1995). Attualmen-te nelle aree archeologiche urbane si osservano specie arbo-ree rispondenti a criteri principalmente scenici e paesistici, ma il tutto sembra occasionale e residuo dei vecchi impianti, quale quello evocativo dell’antichità romana ideato dal boni

(1912) di cui riportiamo il suo richiamo: “contestualizzare i monumenti con il verde”; le piante sui monumenti secon-do l’idea di Boni secon-dovevano servire anche ad offrire prote-zione impedendo le infiltrazioni di acqua con l’uso di zolle erbose sulla cresta dei muri scoperti. un effettto del verde doveva essere anche quello di far immaginare le linee e i profili originali mancanti, come fu fatto con le rose usate come cornici nel tempio di Vesta, e su questa stessa linea si esprime anche fancelli (2006): “La stessa vegetazione - già adottata da A. Muňoz per il risarcimento delle lacune colonnari nel tempio di Venere e Roma - va, in più sensi, ben e dosatamente prefigurata”. Nella maggior parte degli interventi di ripristino paesaggistico si è fatto uso soprattutto di leccio, alloro, cipresso (Foto 102) e pino domestico (Foto 103), mentre altri elementi secondari quali bosso, viburno,

lauroceraso, melograno, ulivo, oleandro venivano utilizzati come siepi e questo uso possiamo immaginarlo anche nelle grandi ville romane.

Le ville residenziali dell’antichità erano circondate da aree verdi e la documentazione da parte degli affreschi an-tichi testimonia la vocazione romana per i giardini ed il pa-esaggio ideale, quale locus amoenus, luogo del benessere e della felicità (MuGellesi, 1975), di cui esempio è il celebre giardino dell’epoca augustea raffigurato negli affreschi della Casa di Livia sulla Flaminia con una visione che richiama anche l’hortus conclusus (caneVa & bohuny, 2003). La fun-zione di questi affreschi doveva essere però, non solo quella di ricreare un luogo ipogeo fresco e rilassante, ma anche un luogo evocativo di simboli naturali delle piante più comuni presenti nelle aree circostanti insieme ai simboli sacri legati alla leggenda dell’area stessa, a Cibele, a Giove fino alla sfe-ra afrodisiaca e dionisiaca (Vico & al., 2007; settis, 2006). Anche la passione per le ville in campagna denota la ricerca di un’evasione dall’affanno della vita cittadina e dalla calura estiva, mitigata da fonti e alberi, presso i quali godere il fre-sco e l’ombra; così Plinio il Giovane ((Epistola V, 6) esprime la gioia di godere il riposo nella sua villa in Etruria: ….. habes causas, cur ego Tuscos meos Tusculanis, Tiburtinis Praenestinisque praeponam. Nam super illa, quae rettuli, altius ibi otium et pinguius eoque securius; nulla necessitas togae, nemo accersitor ex proximo; placida omnia et quie-scentia, quod ipsum salubritati regionis ut purius caelum, ut aer liquidior accedit. Ibi animo, ibi corpore maxime valeo. Nam studiis animum, venatu corpus exerceo. Mei quoque nusquam salubrius degunt; usque adhuc certe neminem ex iis, quos eduxeram mecum, – venia sit dicto – ibi amisi. Di modo in posterum hoc mihi gaudium, hanc gloriam loco ser-vent! Vale!. Infine, un uso inatteso degli alberi nell’antica Roma era quello che perdura ancora oggi con i nomi degli innamorati scalfiti sulle cortecce (a quotiens teneras reso-nant mea verba sub umbras, / scribitur et vestris Cynthia corticibus ! Prop. Eleg. I, 18: 19).

Entro le Mura Aureliane la vegetazione arborea è attual-mente ridotta a pochi lembi localizzati in alcuni punti con forte pendio, in genere su scarpate tufacee come il Campi-doglio o il Muro Torto e la perdita del patrimonio arboreo della città ci è testimoniato da lanciani (1901b) che dedi-ca agli alberi di Roma alcune pagine interessanti. Oltre ai boschi sacri, ai templi circondati di verde, la Roma antica poteva godere una bellissima zona adibita a verde, il Cam-po Marzio, dove Orazio si recava a giocare a palla e Cinzia ad appartarsi negli incontri amorosi, abbellito del tempio di Pompeo (scilicet umbrosis sordet Pompeia columnis / por-ticus, aulacis nobilis Attalicis, Prop. Eleg. II, 32: 11), del Circus Flaminius e dei tanti peristili (Strabone, V: 8: “e le opere tutt’intorno, il campo ricoperto di erba e la corona dei colli circostanti e sovrastanti il fiume fino alle sue rive cre-ano una tale scenografia che lo sguardo non può distrarsi”). Nel campo verso il Tevere si ergeva il Mausoleo di Augusto in marmo bianco, con la sua statua alla sommità circondata da alberi sempreverdi, mentre al centro del campo era con-servato il suo crematorium con attorno una balaustra e alberi di pioppo (Strabone, ibidem).

Oltre alle testimonianze di una vegetazione semprever-de, si hanno anche testimonianze della presenza del querce-to caducifoglio (cerro, roverella, farnia) con frassino, acero campestre, nocciolo, carpino orientale, ma anche sparsi bo-schetti di leccio potevano trovarsi sulla cima di qualche

col-le (la derivazione del nome Esquilino da aesculus (col-leccio), (ischia/eschia) è certamente molto suggestiva), soprattutto se isolato e roccioso, e quindi più arido, come poteva essere il Campidoglio. La distinzione dei Sette Colli da parte dei romani con un particolare gruppo di alberi e l’esistenza di boschi sacri sono provate dall’archeologo lanciani (1901b) e l’argomento è stato trattato anche recentemente da Mas

-sari (1991).

Sull’Aventino, un bosco di alloro aveva dato il nome alle strade del Lauretum majus e minus e l’alloro è una delle piante che più ricorre nella composizione dei giardini per la sua nobiltà e la fresca ombra, come riporta Plinio nell’ip-podromo della sua villa di Tusci, ma è anche compagno di una tomba (et sit in exiguo laurus super addita busto, / quae tegat extincti funeris umbra locum. Prop. Eleg. II,13: 33).

Altri toponimi sono legati al mirto a cui era legato il nome della valle Murtia (o Murcia) tra l’Aventino ed il Pala-tino (oppure il toponimo viene da “urceum” per la presenza di vasai o da un’antica divinità Murcia, la dea del mirto; cfr. T. Varrone, l. L. V 154: intumus circus ad Murciae vocatur, …. ab urceis quod is locus esset inter figulos: alii dicunt a murteto declinatum … ibi est sacellum etiam nunc murteae Veneris; o secondo Plinio Nat. Hist. XV 121: ara fuit Veneri Myrteae, quam nunc Murciam vocant). Il Querquetulanus sul Celio prendeva nome da un bosco di querce; analoga-mente, il Viminale dai vimina, cioè i salici, presso il tempio di Giove Vimineo. Va ricordata qui anche la Piazza del Po-polo, che potrebbe aver ricevuto il suo nome da un’area umi-da con vegetazione ripariale a pioppi (Populus); il pioppo è anche spesso ricordato accanto alle rive del Tevere oppure maritato alla vite (ergo aut adulta vitium propagine / altas maritat populos, Horat. Ep. 2, 9).

un albero che ha un uso importante nei giardini romani è il platano orientale (Platanus orientalis), spontaneo in Gre-cia e Balcani, l’unico platano conosciuto in epoca imperiale; da esso nel sec. XVIII è stato ottenuto per ibridazione con il platano americano il platano frequente dei nostri viali. Esso è ricordato tra gli alberi imponenti posti in filari lungo i via-li dei peristivia-li (et platanis creber pariter surgentibus ordo,.. Prop. Eleg. II, 32: 13), dove Cinzia coglie i suoi furti d’amo-re, o come è descritto da Plinio lungo l’ippodromo della sua villa di Tusci, i cui tronchi sono avvolti dalle verdi edere; ma il platano è anche considerato un albero del lusso dei giardi-ni e messo a confronto con gli antichi costumi, in quanto è venuto a sostituire gli alberi più utili (…platanusque caelebs / evincet ulmos Horat, Od., II, 15, 3), come l’olmo maritato alla vite e quindi i giardini sostituiscono i campi coltivati; in effetti, il platano era stato importato dalla Grecia e poteva essere visto come una novità e quindi uno status symbol. Oggi ci fa piacere vedere il platano ibrido, non tanto nelle imponenti alberature del Lungotevere, ma nei poveri piccoli arbusti che si osservano, alzando gli occhi, crescere in alto tra i marmi della Piramide Cestia, dove ormai crescono da decenni.

Se il leccio era la quercia sacra a Giove, il Tempio di Giove Capitolino doveva sorgere presso un bosco sacro di questo tipo sulla cima del colle, circondato alla base da un’ansa acquitrinosa del Tevere con farnie, pioppi, salici, frassini, ontani, noccioli. La testimonianza di questa pre-senza ci viene dal gruppo di lecci presumibilmente sponta-nei che possono essere visti nella parte più alta del Palatino (Foto 104), come oggi se ne vedono sul ciglio delle bancate tufacee delle Campagna Romana.

un’altra quercia, la sughera (Quercus suber), attualmen-te caratattualmen-teristica delle scarpaattualmen-te tra la Cassia e la Cristoforo Colombo, poteva rivestire le pendici delle alluvioni plioce-niche del Vaticano e formare il Lucus Vaticanus; forse una grande sughera o il suo ibrido con il cerro (Quercus crenata), che può raggiungere dimensioni eccezionali, era la quercia, ritenuta più antica della stessa Roma, che Plinio (Nat. Hist. XVI, 87) tramanda di essere venerata sul Vaticano.

Tra gli alberi venerati nel Foro, insieme all’olivo e alla vite, c’era il Fico Ruminale posto nel Comitium: sotto un al-bero di fico, la lupa avrebbe allattato Romolo e Remo (il si-gnificato simbolico potrebbe essere trovato nel latice bianco che questa pianta produce). Oggi il fico cresce dentro Roma sulle mura e sui ruderi in ambienti molto aridi, da dove vie-ne estirpato per la sua dannosità sui manufatti, ma in altri luoghi, come a Veio, si ritrova anche presso i corsi d’ac-qua, particolare che ben si accorderebbe con la leggenda dei due lattanti trasportati sulle rive del Tevere. Alberi maestosi di fico si possono osservare nella Villa Pamphili, insieme a mandorli e peri, dove assumono un aspetto ornamentale, quasi esotico, molto diverso da quello a cui siamo abituati per questo umile albero e forse a uno di questi fichi vetusti doveva somigliare il fico sacro (Foto 105).

E’ possibile osservare una rappresentazione di quanto poteva ancora rimanere nel passato nelle antiche stampe ed incisioni, nelle quali, accanto ai monumenti, è presente qual-che tipo di vegetazione arborea, qual-che però in generale non è riconducibile al querceto caducifoglio, ma al bosco sem-preverde di leccio, come dimostrato dalla presenza presso gli attuali ruderi archeologici di alcune specie sempreverdi connesse con la lecceta (asparago, fillirea). Si può quindi ammettere che i ruderi delle aree archeologiche abbiano contribuito a creare isole di clima più caldo e arido dove il leccio ha più successo. A ciò si deve aggiungere la tendenza sviluppatasi nel secolo scorso a privilegiare il leccio quale elemento ornamentale, come testimoniato dalla sua abbon-danza in tutte le ville storiche romane.

Ai margini dell’area urbana, sulla Via Appia, la vegeta-zione arborea manca come formavegeta-zione vera e propria, tutta-via sono rimasti lembi di bosco di roverella nei pressi della fonte della Ninfa Egeria e con testimonianze di un bosco fresco di farnie lungo la valle del sacro Almone, le cui acque scorrevano all’ombra di ontani, frassini, noccioli con sot-tobosco di ranuncoli, viole e anemoni. Il vero bosco sacro della Ninfa Egeria in realtà è da localizzare presso l’antica porta Capena e l’odierna passeggiata Archeologica (…

ma-Foto 102. Cipressi e pini monumentali al Cimitero acattolico. “Fremono freschi i pini per l’aura grande di Roma: / tu dove sei, poeta del liberato mondo ?”. Carducci, Odi Barbare, Presso l’urna di Percy Bysshe Shelley.

Foto 103. Palatino, Pinus pinea al centro del piazzale. “Imminens villae tua pinus esto”. Hor., Carm., III, 22: 5.

Foto 104. Quercus ilex, il leccio spontaneo sul Palatino presso il Tempio della Magna Mater. “Illic, quae tulerant nemorosa Palatia, frondes/simpliciter positae scaena sine arte fuit” Ovidio, Ars amatoria, I, 105.

Foto 105. Ficus carica, un albero isolato dalla crescita rigogliosa a Ostia Antica.

didamque Capenam. / Hic, ubi nocturnae Numa constitue-bat amicae / (nunc sacri fontis nemus… / in vallem Egeriae descendimus et speluncas / dissimiles veris …), Giov., Sat. I, 3, 11-18. In una ricognizione negli anni ‘80 abbiamo notato come presso la fonte della Ninfa Egeria rimanessero sola-mente tre piccoli individui arborei di Quercus ilex, mentre la vegetazione era tenuta a prato; in seguito un’associazione ambientalista ha tentato l’introduzione di nuove plantule di leccio. Questo luogo, in vicinanza della Via Appia ed inclu-so nell’omonima riserva naturale, necessita urgentemente di una accurata ricostituzione del millenario patrimonio arbo-reo.

Da ciò risulta che nelle aree archeologiche romane l’ele-mento sempreverde prevale su quello caducifoglio, rical-cando quanto avviene nella maggior parte delle aree verdi pubbliche. Piante sempreverdi sono comunque preferibili perché mantengono il valore ornamentale anche in inverno ed evitano i lavori di raccolta delle foglie secche in autun-no. L’introduzione di specie esotiche, quali eucalipti, aca-cie, palme, dovrebbe essere evitata ed anche l’uso del pino domestico e del cipresso dovrebbe essere limitato ai casi nei quali l’effetto ornamentale sia veramente ben inserito e spesso si vedono cipressi e pini messi qua e là a caso (Foto 106); ben altro è lo scenario di pini e cipressi studiato da un grande giardiniere di Luigi XIV che si vedono ancora oggi nelle grandi ville romane (“Je ne me lassais point de voir à la villa Borghèse le soleil se coucher sur les cyprès du mont Marius, et sur les pins de la villa Pamphili plantès par Le Nôtre”, Chateaubriand, Lettre à M. de Fontanes sur la cam-pagne romaine, 1804).

Il cipresso (Cupressus sempervirens), in particolare, è vi-sto nella letteratura latina come albero dei rituali funebri (ne-que harum quas colis arborum / te, praeter invisas cupressos / ulla brevem dominum sequetur, Horat., Carm. II, 14: 22; Funeris ara mihi, feral cincta cipresso.., Ovidio, Tristia III, 13, 21), ma anche come albero di legname pregiato (..vulgo-que dotem filiae.., Plinio Nat. Hist. XVI, 141); ancora Plinio (ibidem, XVI, 60) riporta una particolare potatura per uti-lizzarlo sia come siepe verde nei giardini sia come albero generoso di fresca ombra (modicus collis adsurgit antiqua cupresso nemorosus et opacus, Plin. Ep. 8, 8). Il cipresso è ritenuto da Plinio (ibidem, XVI, 142) originario da Creta e arrivato poi in Italia. Attualmente, se ne vedono frequenti

utilizzazioni nelle aree archeologiche, come a Villa Adriana con esemplari maestosi.

un uso che dovrebbe essere gestito oculatamente è quel-lo dell’oleandro (Nerium oleander) che attorno ai Fori e alle Terme di Caracalla è stato impiegato con effetti scenici, ma che a Roma è spesso utilizzato nelle aiuole spartitraffi-co, rivelando una capacità molto vitale in ambienti difficili; piuttosto che nelle siepi monotone, la bellezza dell’oleandro si apprezza piuttosto nei piccoli alberi isolati, magari in un punto scenografico vicino ad un monumento (Foto 107).

un caso particolare si presenta con le specie del genere Eucalyptus, diffuse ormai dovunque nelle alberature strada-li, nei parchi e giardini, ed anche in estesi rimboschimenti, che, quando crescono in aree archeologiche, come sui resti della Villa di Massenzio, costituiscono un chiaro anacroni-smo data la sua origine australiana. Purtroppo, l’Eucalyptus camaldulensis nella zona di Ostia Antica è presente con al-beri imponenti, forse residuo di antiche piantagioni, quando veniva usato contro la malaria. Tali anacronismi ci sembrano ricalcare evidenti scivoloni storici di certi film di Cinecittà ambientati nella Roma antica in cui si vedono cactus o pal-me delle Canarie (tanto per ricostruire una scena lungo il Nilo al posto della palma da datteri, come in un famoso film girato al Circeo).

un esempio di utilizzazione consona al paesaggio po-trebbe essere invece il corbezzolo (Arbutus unedo, Foto 108) che, oltre ad essere attraente per la bellezza del suo portamento e dei suoi frutti rossi (il corbezzolo è dipinto su-gli affreschi della Villa di Livia a Prima Porta), può farci ricordare i versi di Lucrezio (Lucr. De Rer. Nat. 5, 941): … et quae nunc hiberno tempore cernis / arbuta puniceo fieri matura colore, / plurima tum tellus etiam maiora ferebat. In un’area archeologica, come ad es. Villa Adriana, questa pianta potrebbe essere inserita nei gruppi di macchia medi-terranea sovrastanti il Canopo e su una piccola targa potreb-be essere scritto il nome della specie, l’etimologia del nome insieme ai versi che abbiamo riportato.

Riteniamo che lo scopo di questo lavoro, oltre a pre-sentare le piante delle aree archeologiche nella loro veste naturalistica e scientifica, sia anche quello di fornire idee su come gestire un grande patrimonio rappresentato da quelle piante che gli stessi Romani hanno imparato a conoscere nei poemi dei grandi poeti e che hanno visto crescere

diretta-Foto 106. Cipresso, isolato e squallido, presso Porta Ardeatina che

nasconde il poderoso bastione Sangallo delle Mura Aureliane. Foto 107. Nerium oleander (oleandro) presso la Piramide Cestia. “..rurestri vocabulo vulgus indoctum rosas laureas appellant quarumque cuncto pecori cibus letalis est”. Apuleio, Metam. IV, 2.

mente sopra le città da loro distrutte (heu Vei veteres ! et vos tum regna fuistis /…nuc intra muros pastoris bucina lenti / cantat, et in vestris ossibus arva metunt, Prop. IV, 10: 27-30) e più tardi sui loro stessi monumenti e città man mano che questi crollavano sotto l’incalzare dei barbari (Rutilio Namaziano, De Reditu, 285-287: Cernimus antiquas nullo custode ruinas et desolatae moenia foeda Cosae. Ridiculam cladis pudet ….). Dobbiamo esssere convinti che le piante che crescono oggi sui ruderi romani sono state sempre pre-senti sui monumenti nei duemila anni della storia di Roma e anche per questo esse meritano rispetto.

Lo studio della vegetazione attuale suggerisce l’uso degli elementi sempreverdi, quali leccio, alloro, lentisco, alaterno, viburno, mirto, olivo, insieme a quelli caducifogli, quali frassino, cerro, roverella, carpino, biancospino, che dovrebbero essere utilizzati tenendo conto dei loro diversi effetti stagionali. Arbusti da tenere in considerazione per la loro frugalità e le ricche fioriture sono le ginestre spontanee, quali Cytisus scoparius (ginestra dei carbonai) o C. villo-sus (frequente nelle macchie dell’area romana) e soprattutto Spartium junceum (ginestra del Leopardi, Foto 109) di ec-cezionale bellezza e di cui ci piace citare il significato sim-bolico presentato da Vitolo (2006): “ Nella ginestra ritengo di poter cogliere un sostegno metaforico ….la ginestra, per la sua vitalità, per il suo colore, per la sua strana bellezza, richiama l’idea del dono …Tra rovine e macerie, la gine-stra ridona alla natura, che ha ospitato la forza distruttiva dell’eruzione vulcanica, l’ordine estetico della vita vegetale dotata di forma e colore”. Tutte le volte che vedremo una ginestra fiorita nei Fori o nella Villa Adriana ci farà piacere ricordare questo pensiero; si può aggiungere solo che nelle rovine si fondono la bellezza dell’arte e quella della natura.

Possiamo arrivare alla conclusione che il ripristino del-la vegetazione naturale spontanea nelle aree archeologiche dovrebbe costituire un obiettivo verso cui tendere nel re-cupero e mantenimento del paesaggio naturale, allo scopo di ricreare un contesto culturale entro il quale sia possibile percepire le relazioni tra la storia, i monumenti e le piante. Si tratta quindi di conservare e trasmettere alle future gene-razioni quello che è stato non solo un paesaggio naturale ma anche un paesaggio storico. L’alternativa a questa decisione è il rischio di trasformare le aree archeologiche in “parchi turistici delle meraviglie”, che rischieranno di essere molto

simili alle bellissime copie che ne possono essere fatte in qualsiasi parte del mondo, come Las Vegas.

L’abbondante documentazione fotografica che viene mo-strata in questo lavoro potrebbe un giorno essere testimo-nianza dei cambiamenti che inesorabilmente trasformeranno queste aree, se non verrà presa una chiara posizione nella tutela della vegetazione spontanea.

Foto 108. Corbezzolo (Arbutus unedo), di cui si consiglia un uso maggiore accanto ai monumenti perché già apprezzato dai Romani: “et quae nunc hiberno tempore cernis/arbuta puniceo fieri matura colore,/plurima tum tellus etiam maiora ferebat.” Lucr., De Rer. Nat. 5, 941.

Foto 109. Spartium junceum, la ginestra del Leopardi, uno degli arbusti spontanei più resistenti all’aridità (“contenta dei deserti”, Leopardi).

aPPendice 1 - localitàedatedeirilieVi

Vulpio ligusticae-Dasypyretum villosi (Tab. Fitos. 1 - Fig.

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