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1 COORDINATE PLATONICHE

ALCUNE CONSIDERAZION

È chiaro che è proprio la possibilità di utilizzare le nozioni di immagine e di apparenza, con l’opportuna fondazione della categoria del falso nel pensiero e nel discorso – possibile a patto di “tradire” il padre Parmenide –, a consentire, al termine di quest’ultima lunga serie di divisioni, di definire il sofista come un produttore, appunto, di apparenze, ossia di immagini inesatte di cose reali, prodotte servendosi del proprio corpo come strumento e in base alla mera opinione e non in base ad un sapere effettivo, con la consapevolezza di simulare conoscenze che in realtà non si possiedono nell’ambito di conversazioni private.

Il “pericolo” che Platone scorge nella sofistica – e che spiega l’estremo rigore con cui nel dialogo si giunge ad una definizione della stessa – è quello che nel già citato corso marburghese Heidegger ha chiamato – certo attualizzando – “irrealismo”. Si tratta però, a ben vedere, di un irrealismo tutto particolare, che troverebbe la sua ragion d’essere nell’“interesse per il discorrere come tale, fine a se stesso”, il quale dunque “già solo per il fatto di porre l'accento unicamente sull'aspetto formale del discorso e dell'argomentazione, è una forma di irrealismo”106. Al centro della sofistica vi è dunque una sottile forma di “incuranza della realtà”, fondata esclusivamente sul discorso, nell’ambito del quale al sofista non interesserebbe assolutamente il “qualcosa” di cui parlerebbe. Stando così le cose, ovvero “proprio per il fatto che questa cosa non gli interessa – e quindi non vuole restare legato alla realtà di cui parla –, riponendo il senso del suo discorso unicamente nella bellezza dello stesso, egli diventa un irrealista: irrealismo è incuranza del contenuto reale di ciò che viene detto”107. Nelle sue lezioni, Heidegger non si limita comunque a qualificare la sofistica come irrealismo, ma amplia la sua affascinante interpretazione del testo platonico chiarendo che “l'incuranza della realtà da parte del discorso equivale all'inautenticità e allo sradicamento dell'esistenza umana. Questo è il senso vero e proprio dell'irrealismo che connota la sofistica come incuranza della realtà”108. Lasciando ora da parte la figura del “sofista”, per le nostre finalità non si può fare a meno di notare che, nell’economia complessiva del dialogo, l’immagine non è solo l’anello di congiunzione fra le diverse parti che lo compongono, ma è anche l’elemento che scatena e giustifica l’indagine sull’essere e sul non-essere, vale a dire il                                                                                                                

106 M. Heidegger, Il ‘Sofista’ di Platone, cit., p. 260. 107 Ibidem.

superamento del divieto eleatico relativo alla concepibilità e dicibilità del non essere. Come osserva sempre Heidegger, è evidente che, “per mostrare che di fatto un non-ente c'è”, Platone non ricorre direttamente “al λέγειν, che ha per lui un interesse centrale, e nemmeno alla τέχνη del sofista stesso, bensì cerca piuttosto di collocare la τέχνη del sofista nell'orizzonte di un'altra τέχνη nella quale vi è di fatto qualcosa come il non-ente e che, come tale, è più accessibile alla comprensione naturale, vale a dire nell'orizzonte della τέχνη µιµητική”109. Non bisogna tuttavia compiere l’errore di ritenere che la spiegazione della σοϕιστικὴ τέχνη a partire dall'orizzonte della τέχνη µιµητική segua un procedimento arbitrario, poiché, al contrario, si può evidenziare – ed è quello che Heidegger in effetti fa – che “l'atteggiamento delle due τέχναι – da un lato il ποιεῖν nel senso del µιµεισῖθαι e dall'altro il λέγειν – possiedono una comunanza di tipo strutturale”110. Infatti – continua la spiegazione del professore tedesco – “ποιεῖν significa: pro-durre; µίµησις, µιµεισῖθαι significa: rappresentare; λέγειν significa: rendere manifesto, δηλοῦν. […] Tutti e tre questi atteggiamenti possiedono, in relazione a ciò cui sono riferiti, il senso fondamentale del far-vedere”111. Questo, agli occhi di Heidegger è sufficiente per mostrare che “se dunque Platone colloca la τέχνη σοϕιστική nell'orizzonte della µιµητική, la scelta di questo orizzonte non è casuale, ma fondata nella cosa stessa, cioè nel tipo di interrelazione fra ποιεῖν e λέγειν”112. Stando le cose in questo modo, vale allora certamente la pena di spendere ancora qualche parola sull’immagine platonica.

La prima caratteristica su cui è il caso di riflettere è quella relativa alla “duplicità” dell’immagine. Essa infatti è un “altro” simile al vero che però non è veramente, dal momento che non è quel vero. Come si è visto questa duplicità dell’immagine fa sì che

in tale intreccio l’essere e il non-essere rischiano di congiungersi in maniera molto singolare113.

                                                                                                               

109 M. Heidegger, Il ‘Sofista’ di Platone, cit., p. 413. 110 Ivi, pp. 413-414.

111 Ivi, p. 414.

112 Ibidem. Il passo citato prosegue con questa precisazione: «ovvero fra οὐσία e λεγόµενον, in quanto per i Greci essere significa appunto: essere-presente, essere-

alla-presenza». Precisazione che ci pare – tuttavia – superflua nell’ambito del

discorso che stiamo sviluppando e che riportiamo solamente per rendere conto di come, interpretando Platone, Heidegger stesse elaborando anche il proprio originale pensiero.

Orbene, accanto a questa duplicità dell’immagine ve n’è però un’altra, forse addirittura più importante, che riguarda il modo stesso in cui l’immagine esibisce se stessa. L’immagine cosiddetta icastica – la copia – è immagine fedele, che rimandando al modello, esibisce anche il rapporto che intrattiene con esso, guidando alla sua conoscenza. Tale immagine, per Platone, esibisce se stessa come immagine. Essa è vera. L’immagine fantastica nasconde invece la propria relazione di dipendenza dall’originale, e lo fa riproducendo tale originale non come esso è ma semplicemente come appare. Questa immagine – apparente, ingannatrice, fasulla – è quella di cui è detto produttore il sofista, colui il quale propina un sapere apparente. Vi sono immagini che fanno uso di un punto di vista eminentemente soggettivo (le immagini fantastiche), altre che invece non relativizzano ciò di cui sono rappresentazioni mimetiche (le copie).

Come si è visto nel Sofista, e come emerge tra l’altro anche nella

Repubblica, non è tanto l’immagine in quanto tale a preoccupare

Platone, quanto piuttosto le imitazioni che si vogliono spacciare per gli originali, o – detto con una terminologia diversa – l’immagine che è prodotta da un punto di vista soggettivo e che reclama per sé la propria autonomia. Restando nell’ambito dell’immagine e mettendo da parte – per ora – le considerazioni fatte sul sofista, Platone critica la parvenza che non emerge come parvenza, critica i falsi, i plagi, ciò che si spaccia come vero, pur non essendo vero114. Esistono dunque immagini accettabili – che manifestano il loro essere immagini – e altre che non sono accettabili – quelle menzognere ed illusorie. A ben vedere, però, e a voler essere un po’ meno “platonici”, bisognerebbe notare che entrambe le immagini sono “fedeli”: fedeli all’originale (mimesi icastica) oppure fedeli al punto di vista di chi le produce (mimesi fantastica). In entrambi i casi la fedeltà dovrebbe emergere come tale cioè non dovrebbe essere oscurata, perché solo così l’immagine potrebbe essere accettata come vera115. Ad ogni modo,

Platone non imposta certo la questione in questo modo ed è disposto a concedere che solamente la prima delle due arti di produzione delle immagini – quella icastica – sia capace di produrre immagini “vere”.                                                                                                                

114 Cfr. L. Wiesing, Platons Mimesis-Begriff und sein verborgener Kanon (2001), in G.R. Kaiser e S. Matuschek (Hg.), Begründung und Funktion des Kanons. Beiträge

aus der Literaturwissenschaft, Kunstgeschichte, Philosophie und Theologie,

Universitätsverlag Winter, Heidelberg 2001, pp. 21-41.

115 Sulla base degli sviluppi successivi del pensiero occidentale, verrebbe da dire che solo l’immagine fantastica ha propriamente valore ‘estetico’. È tuttavia una conclusione sin troppo semplicistica e che non può trovare riscontro nel contesto storico di Platone, a meno che non si voglia catapultare il discorso platonico nella concettualità contemporanea.

Cos’è allora un’immagine “vera”? Dove sta la verità dell’immagine e quali ragioni esibisce l’immagine che dichiara di essere immagine e non si spaccia per altro? E quali sono invece le ragioni per cui l’immagine falsa – pur sempre distinta dalla cosa vera di cui è immagine – è appunto falsa? Si tratta di interrogativi ai quali è molto difficile dare un risposta, ma che bisogna tuttavia tenere bene a mente, in quanto si ripropongono – certo in forma attualizzata – anche nell’itinerario heideggeriano. Come si cercherà di mostrare, allora, anche per Heidegger esiste un’immagine “falsa” (o forse sarebbe meglio dire non autentica) e tale immagine potrebbe essere proprio quella in cui non è qualcos’altro che si mostra (Heidegger direbbe “si eventua”), quella cioè che – posta dal particolare punto di vista di un soggetto “calcolante” – vale come anticipazione o anteposizione per il coglimento della verità, concepita intuitivamente solo come certezza. L’immagine che per Platone è “vera” – copia fedele dell’oggetto, mera anteposizione116 di esso in figura – per Heidegger potrebbe essere la meno vera. In Heidegger, come si vedrà, il rinvio al modello dell’immagine, al “che cos’è” che si mostra nell’immagine, assume un risvolto problematico, al quale qui accenniamo soltanto e cui sarà dedicato spazio adeguato nei capitoli successivi. Per quanto riguarda Platone, invece, non paiono esserci dubbi sul fatto che l’immagine “falsa” sia per lui quella da cui manca il riferimento al modello117. L’immagine “falsa” non è più immagine poiché viene meno la relazione di dipendenza dal reale, dal vero di cui è immagine. L.M. Napolitano ipotizza che tutto questo accada per ragioni che superano il nesso ontologico tra l’immagine e il modello, e che hanno invece a che fare con l’intervento di un terzo elemento – il sofista ingannatore, nel caso del dialogo in esame –, che altera la strutturale relazione di dipendenza dell’immagine dal suo modello118. In questo modo                                                                                                                

116 Il termine ‘ante-posizione’ traduce in modo letterale il termine tedesco Vor-

stellung. Il porre-innanzi, l’ante-porre o il rappresentare (in modo meno letterale) è,

come si vedrà, la cifra che Heidegger rinviene in tutto l’atteggiamento metafisico contemporaneo, arte compresa.

117 E poco importa se un tale riferimento sia tolto, negato o semplicemente nascosto. 118 Vale qui la pena di notare che la relazione di dipendenza fra immagine e modello non è bi-univoca. Infatti, anche se l’immagine presuppone il modello e questo, a sua volta, si sdoppia nel lasciar trasparire la propria immagine nel momento in cui appare in immagine, è evidente che mentre l'immagine presuppone necessariamente quel modello, il modello invece può (ma non deve necessariamente) apparire in quell'immagine. Come annota L.M. Napolitano, il modello potrebbe anche non aver bisogno di porsi in immagine, e anche quando non possa farne a meno, potrebbe comunque farlo apparendo in una molteplicità infinita di immagini. Le cose stanno in modo ben diverso per l’immagine: in quanto ‘immagine di…’ quel modello, essa deve necessariamente presupporlo poiché senza di esso non esisterebbe [Cfr. L.M.

l’immagine può “falsamente” apparire come qualcosa di “vero” – autonomo ed autocentrato –, poiché non solo non si presenta come immagine al destinatario cui si esibisce, ma egli non è nemmeno in grado di coglierla come tale119. Anche questi sono temi che si ritrovano in Heidegger, e precisamente quando la relazione fra immagine e ciò che si mostra in immagine viene “sconvolta” dall’irrompere del soggetto120: è proprio lo strapotere del soggetto – la sua potenza prospettica e calcolante – a elidere il legame fra ciò che ha nell’immagine il luogo del suo accadere e l’immagine stessa, e dunque a rendere conto della nozione di rappresentazione (o ante- posizione) come distinta da quella di immagine e tipica dell’epoca in cui domina la metafisica.

Rimandando ai capitoli successivi l’approfondimento su Heidegger e limitando qui le considerazioni a Platone, dovrebbe risultare abbastanza evidente che l’immagine, la vera immagine, non è assolutamente autonoma ed autocentrata: l’immagine, che trova in altro la ragione del suo essere immagine, non è ontologicamente autosufficiente e anzi deve necessariamente rimandare a quell’altro che costituisce il suo modello, il suo originale. Questo rimando all’altro, al modello che nell’immagine in qualche modo si mostra o appare, costituisce il tratto costitutivo dell’immagine per come la intende Platone. L’essere pertanto etero-centrata e non auto-centrata, il non essere auto-referenziale bensì etero-referenziale è un aspetto saliente, costitutivo dell’immagine, venuto meno il quale essa non è più immagine121.

Vale forse la pena di soffermarsi sulle ragioni di questa differenziazione ovvero sul perché a Platone stia così tanto a cuore questa distinzione tra immagini vere e immagini false, tra autenticità ed inautenticità dell’immagine. Nelle pagine precedenti si è detto che Platone avverte – in qualche modo – la “pericolosità” di un’immagine                                                                                                                                                                                                                                                                    

Napolitano, Platone e le ‘ragioni’ dell’immagine, cit., p. XVII]. Anche qui è difficile non far notare che, entro il quadro concettuale platonico, non si riesce né si potrebbe concepire un’immagine che sussista per sé senza rimandare ad altro (quantunque il legame con quell’altro sia tenuto celato). Ciò che qui risulta inconcepibile è il darsi di un’immagine che non rimandi a nessun modello, poiché è essa stessa l’originale, il vero, l’evento che ha da mostrarsi e che sceglie di mostrarsi.

119 Ivi, p. XVI.

120 Qui ‘soggetto’ non va inteso alla lettera come il soggetto in generale, ma va inteso in maniera rigorosa come colui il quale pone innanzi a sé un oggetto [Gegen-

stand], e ponendoselo innanzi se lo rappresenta, pre-figurando le condizioni di

possibilità di quello stesso oggetto. 121Ivi, p. XVI.

che somiglia sempre meno o non somiglia affatto a ciò cui pretende di somigliare, celando la strutturale relazione con il suo originale. Ebbene il punto è proprio questo. Per Platone l’immagine ha un potere enorme. Essa non è qualcosa di poco conto, non è qualcosa di cui servirsi senza riflessione, né tantomeno è qualcosa che produce effetti che si possano trascurare. L’immagine, sotto certe condizioni, può rivelare il vero, può – come direbbe Heidegger – essere l’evento della verità, il suo accadere.

Ma quali sono allora le immagini che ha in mente Platone? Come si è visto, nel Sofista egli ha distinto accuratamente la tecnica di produzione divina da quella umana, e in entrambe ha a sua volta individuato una tecnica di produzione delle cose ed una di produzione delle immagini. Or dunque, prestando un po’ di attenzione alla gran varietà di immagini che Platone nomina, ci si accorge che in effetti egli dispone l’uno accanto all’altro generi di immagini assai diversi: sogni, ombre, immagini riflesse (produzione divina di immagini), pitture, sculture, poemi (produzione umana di immagini). Ecco che, allora, accanto alle immagini pittoriche o grafiche – cui forse va più facilmente il pensiero quando si allude alle “immagini” – vi sono le immagini parlate (o immagini linguistiche), create dal poeta. Come si è visto è proprio questo il tipo di immagine – creata utilizzando il proprio corpo ossia la propria voce – di cui si serve il sofista per propinare il suo sapere apparente e ingannatorio. Vero quanto argomentato nel corso del dialogo, sembrerebbe che di tali immagini non sia possibile un uso legittimo. In realtà – e qui davvero non si può che concordare con L.M. Napolitano – proprio l’uso ricorrente che Platone nella sua produzione fa dell’immagine linguistica e della metaforicità del linguaggio dimostra in maniera incontrovertibile che di tali immagini è possibile un uso autentico e dunque non ingannevole122. Sarebbe quasi inutile ricordare qui l’importanza che quel “parlare per immagini” che è la poesia assume per Heidegger in relazione all’essere e alla verità. Come per Platone, anche per il professore tedesco l’immagine non è solo l’immagine pittorica, ma anche quel mostrarsi che accade nel linguaggio poetico e cui l’uomo ha da cor-rispondere in modo autentico. Su questo torneremo.

Per concludere, ciò che Platone critica, teme e combatte non è dunque l’imitazione in quanto tale, bensì l’imitazione perpetrata a scopo di inganno, quella che mette in atto il sofista producendo “immagini false”. Ecco allora che la questione da cui prende inizio l’indagine del

Sofista – dire se il sofista sia distinto dal filosofo e dal politico – si

                                                                                                               

converte – dopo aver chiarito quale sia lo statuto ontologico delle immagini da esso prodotte – nel problema etico-pedagogico posto da quella particolare forma di inganno che si rende possibile proprio grazie alla produzione di immagini da parte del sofista. Che un’immagine sia vera e sia esibita come tale è dunque qualcosa che ha rilievo morale oltre che gnoseologico: l’immagine, fedelmente collegata al suo modello, rimanda a quel modello, lo fa conoscere, fa conoscere la verità. Non solo. Che qualcosa come un’immagine ci sia mostrata da qualcuno che non sia interessato – come il sofista – all’esercizio del proprio pseudo-potere intellettuale, bensì da qualcuno realmente desideroso di farci conoscere qualcosa di vero, è forse il guadagno più importante, poiché conferma la possibilità di salvaguardare l’autenticità del rapporto interpersonale fra pari. Di queste immagini e di questi rapporti, in fondo, ne abbiamo ancora bisogno, oggi come duemila anni fa.

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