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4 IMMAGINE E POESIA

IL POETICO ABITARE

Prima di proseguire, vale la pena di soffermarsi sul significato dell’abitare reso possibile dalla poesia. Si tratta infatti di un tema che ricorre spesso nell’opera heideggeriana e che non ha a che fare soltanto con la poesia o la poeticità in generale, in quanto investe – in modo dunque ben più ampio – l’intero situarsi dell’uomo sulla terra, il suo Esserci appunto.

Nei già citati Saggi e Discorsi Heidegger lascia intendere che la poesia regga l’abitare dell’uomo, o, meglio ancora, che l’abitare addirittura trovi nella poesia il suo fondamento65:

Quale persona riflessiva si azzarderebbe dunque a dichiarare senza esitazione dall'alto di una superiorità abbastanza dubbia, che abitare e poetare sono due cose incompatibili? Può darsi

                                                                                                               

63 M. Heidegger, La poesia di Hölderlin, cit., pp. 156-157.

64 «La poesia non ‘esprime esperienze vissute’ del poeta, ma invece fa accedere il poeta alla dimensione propria della sua essenza, apertasi come poesia. La poesia cela il ringraziamento, pieno di meraviglia, per il fatto meraviglioso di essere salutato dal sacro ed essere così chiamato a istituire» [Ivi, p. 179].

65 «Quale persona riflessiva si azzarderebbe dunque a dichiarare senza esitazione dall'alto di una superiorità abbastanza dubbia, che abitare e poetare sono due cose incompatibili? Può darsi che invece vadano d'accordo (vertragen); o, ancor più, può darsi che l'una delle due regga l'altra, nel senso che l'una, l'abitare, si fonda nell'altra, nella poesia» [M. Heidegger, Saggi e discorsi, cit., p. 126].

che invece vadano d'accordo (vertragen); o, ancor più, può darsi che l'una delle due regga l'altra, nel senso che l'una, l'abitare, si fonda nell'altra, nella poesia66.

Si tratta, a ben vedere, di una delle tesi più importanti del filosofo tedesco, che tuttavia può facilmente trasformarsi in una vuota suggestione se non viene adeguatamente spiegata e inquadrata nell’ambito della sua riflessione. Vediamo allora qual è il cammino – o uno dei cammini – che Heidegger segue per giungere ad una simile conclusione.

Nel testo della conferenza Costruire, abitare, pensare – tenuta nel 1951 e pubblicata successivamente nella Seconda Parte dei Saggi e

Discorsi – Heidegger spiega che uno dei caratteri fondamentali

dell’uomo, e cioè il suo essere mortale, immediatamente richiama anche gli altri tre componenti di quella originale costellazione che egli chiama Geviert:

Solo l'uomo muore, e muore continuamente, fino a che rimane sulla terra, sotto il cielo, di fronte ai divini. Quando nominiamo i mortali, pensiamo già anche insieme gli altri tre, ma non riflettiamo ancora sulla semplicità dei Quattro67.

In che cosa consiste la semplicità dei Quattro? In che cosa consiste la semplicità di quella costellazione costituita da terra, cielo, divini e mortali? Risposta:

Questa loro semplicità noi la chiamiamo il Geviert, la Quadratura68.

In quanto mortali, e cioè al contempo in quanto sulla terra, sotto il cielo, di fronte ai divini,

i mortali sono nella Quadratura in quanto abitano69.

Ecco allora che abitare, per l’uomo, vuol dire essere nella Quadratura. Questo situarsi nel Geviert heideggeriano non avviene – tuttavia – in maniera casuale, ma esige che un tale abitare avvenga

nel modo dell'aver cura della Quadratura nella sua essenza,

                                                                                                               

66 M. Heidegger, Saggi e discorsi, cit., p. 126. 67 Ivi, p. 99.

68 Ivi, p. 100. 69 Ibidem.

in quanto

il tratto fondamentale dell'abitare è l'aver cura70.

Se questo è vero, per Heidegger è vero anche che

aver cura significa custodire la Quadratura nella sua essenza71,

e che dunque un tale abitare si fonda nel quadruplice aver cura dei quattro72, ovvero nel gioco con cui i Quattro (Terra e Cielo, Divini e Mortali) si mantengono nella reciproca appartenenza, pur conservando la propria libertà.

Nel caso dell’uomo – dei mortali – come avviene questo aver cura? In che cosa consiste cioè l’aver cura mortale che custodisce così l’essenza del Geviert? Anche in questo caso Heidegger non elude la domanda, e fornisce una risposta decisiva:

L'abitare […] è già sempre un soggiornare presso le cose. L’abitare come aver cura preserva la Quadratura in ciò presso cui i mortali soggiornano: nelle cose73.

Abitare, dunque, vuol dire soggiornare presso le cose. Ed è qui che si spalancano le porte alla poesia, se – come si è visto – è vero che

nessuna cosa è (sia) dove la parola manca74.

Se manca la parola, le cose non sono. Se le cose non sono, l’uomo non può soggiornare presso di esse e dunque non può abitare.

Quando il poeta dice la parola essenziale, l’ente riceve solo allora, attraverso questo nominare, la nomina a essere ciò che è:

                                                                                                               

70 M. Heidegger, Saggi e discorsi, cit., p. 100. 71 Ibidem.

72 «Nel salvare la terra, nell'accogliere il cielo, nell'attendere i divini, nel condurre i mortali avviene l'abitare come il quadruplice aver cura della quadratura. Aver cura significa custodire la Quadratura nella sua essenza» [Ibidem]. «Aver cura della Quadratura, salvare la terra, accogliere il cielo, attendere i divini, condurre i mortali – questo quadruplice aver cura è la semplice essenza dell'abitare. Così i veri edifici imprimono il loro segno sull'abitare, portandolo nella sua essenza» [ivi, p. 106] 73 Ivi, p. 101.

così viene conosciuto in quanto ente. La poesia è istituzione in parola (worthaft) dell’essere75.

Questo fa la poesia! Ecco allora perché il

poetare è l’autentico far abitare (Wohnenlassen)76,

perché esso apre lo spazio affinché le cose possano essere, concedendo agli enti le configurazioni della loro presenza e della loro assenza.

Come emerge in modo chiaro in In cammino verso il linguaggio, la specificità del linguaggio poetico sta per Heidegger nel chiamare (das

Rufen) e non nel denotare o nel connotare:

Il nominare non distribuisce nomi, non applica parole, bensì chiama entro la parola. Il nominare chiama. Il chiamare avvicina ciò che chiama. […] Questo chiamare a sé è appello nella lontananza, nella quale ciò che è chiamato permane assente77.

Nel “chiamare” c’è attività. Esso è un movimento in cui qualcosa passa da un luogo all’altro, in cui c’è un venire alla luce, un venire alla presenza di qualcosa che prima era nascosto (in greco: a-letheia). Quando dunque si pronuncia una parola, in poesia, si instaura un chiamare: qualcosa che prima era celato viene alla luce, qualcosa che era velato si svela.

Chiamare è chiamare presso. E tuttavia quel che è chiamato non resta sottratto alla lontananza, nella quale proprio quel cenno di chiamata di lontano fa che permanga. Il chiamare è sempre un chiamare presso e lontano; presso: alla presenza; lontano: all’assenza […]. Quale presenza è la più alta, quella di ciò che ci sta fisicamente dinanzi o quella di ciò che è chiamato?78.

Il poetare dischiude così un mondo, non lo copia né lo imita79. Il                                                                                                                

75 M. Heidegger, La poesia di Hölderlin, cit., p. 50.

76 M. Heidegger, Saggi e discorsi, cit., p. 126. Introducendo un termine a lui caro e peraltro ampiamente “collaudato” anche nella conferenza su L’Origine dell’opera

d’arte, Heidegger spiega, poco oltre, che «proprio il poetare porta invece l'uomo

sulla terra, lo porta ad essa, e lo porta così nell’abitare» [ivi, p. 128]. 77 M. Heidegger, In cammino verso il linguaggio, cit., p. 34. 78 Ibidem.

79 Tutto questo discorso trova per Heidegger riscontro nella poesia Ein Winterabend di Georg Trakl. In questa poesia il linguaggio, per Heidegger, parla, chiamando,

poetare chiama all’essere cose che prima non c’erano. Il linguaggio è un “chiamare presso” (alla presenza), “lontano” (all’assenza): cioè un venire da un luogo all’altro, svelando e rivelando. Il “chiamare” della poesia è dunque un processo aletheologico, che concede agli enti le configurazioni della loro presenza e della loro assenza, portandoli così negli ambiti a loro propri.

Come si ricorderà, nel 1936, nella famosa conferenza su L’origine

dell’opera d’arte, Heidegger scriveva che l’arte è una “messa in

opera” della verità:

È così venuto in chiaro, quasi di soppiatto, ciò che nell’opera è in opera: l’apertura dell’ente nel suo essere, il farsi evento della verità80.

Conformemente a ciò, il linguaggio poetico non può che essere un linguaggio rivelativo, poiché lascia essere le cose, le s-vela, mettendo in opera la loro verità, mostrandola. Il chiamare è un invito alle cose ad essere veramente tali. Ecco perché, coerentemente con le intuizioni del 1936, la poesia dispiega un mondo81. In questo senso la poesia diviene uno spazio “epifanico”, all’interno del quale emergono le cose svelandosi. Questo spazio può essere determinato – appunto – come

Geviert, come una “quadratura”: terra-cielo-divini-mortali, i quattro

                                                                                                                                                                                                                                                                   

dando inizio a una sera d’inverno che è appunto l’oggetto della poesia. Che cosa vuol dire che la poesia chiama e nomina “una sera d’inverno”? La poesia non descrive nulla di concreto, reale. La poesia non riveste di parole qualcosa che c’è, o si dà, all’esterno. La poesia ha un carattere di evento unico, è uno spazio in cui appare qualcosa e che non si ripeterà più. Il linguaggio qui non descrive qualcosa che è altro rispetto ad esso: il linguaggio è la sera d’inverno. Le parole cioè pongono in essere, istituiscono la sera d’inverno. La poesia non descrive il punto di vista di Georg Trakl. Essa è un’opera d’arte dotata di autonomia: Heidegger de- soggettivizza l’opera d’arte. L’opera non è il suo autore.

80 M. Heidegger, L’origine dell’opera d’arte, cit., p. 23.

81 Proprio perché l’opera d’arte è un far abitare, essa può far insorgere un mondo. Non solo la “terra” dunque (di cui Heidegger parla nei Saggi e Discorsi), ma, come mette bene in luce F.-W. Von Herrmann, pure il mondo è fondamentale per l’abitare dell’uomo: «Se nell’opera d’arte un mondo viene fatto insorgere per essere retrofermato sulla terra, l’uomo, nell’esistente soggiorno presso il tempio, ottiene la veduta sul suo essere-nel-mondo in quanto abitare: l’abitare, a partire dal mondo fatto insorgere, sulla terra come suolo patrio. Il tempio dona all’uomo la veduta sul suo essere-nel-mondo, e, precisamente, la veduta in quanto sguardo attraverso l’essere nel mondo stesso» [F.-W. Von Herrmann, La filosofia dell’arte di Martin

elementi che “costituiscono nel loro relazionarsi una unità originaria”82.

Le cose che la poesia nomina, in tal modo chiamate, adunano presso di sé cielo e terra, i mortali e i divini. I quattro costituiscono, nel loro relazionarsi un’unità originaria. Le cose trattengono presso di sé il quadrato dei quattro. In questo adunare e trattenere consiste l’essere cosa delle cose. L’unitario quadrato di cielo e terra, mortali e divini, immanente all’essenza delle cose in quanto cose, noi lo chiamiamo: il mondo. La poesia, nominando le cose, le chiama in tale loro essenza. Queste, nel loro essere e operare come cose, dispiegano il mondo83.

Nominando le cose, il poetare le chiama nella loro essenza e concede loro lo spazio per essere presenti o assenti. Si spiega così, dunque, perché

È il poetare che anzitutto fa accedere l'abitare dell'uomo nella sua essenza. Il poetare

– infatti –

è l'originario far-abitare84

                                                                                                               

82 Geviert è il termine con il quale Heidegger designa la connessione unitaria di cielo e terra, mortali e divini (cfr. M. Heidegger, Über “die Linie”, in Freundschaftliche

Begegnungen. Festschrift für Ernst Jünger zum 60. Geburstag, Klostermann,

Frankfurt a. M., 1955. Nel 1976 il titolo del saggio venne cambiato dallo stesso Heidegger, divenendo Zur Seinsfrage, trad. it. di F. Volpi La questione dell’essere, in E. Jünger - M. Heidegger, Oltre la Linea, cit., pp. 109-167), e che viene tematizzato soprattutto nei già citati Saggi e Discorsi. Per Heidegger, la riflessione sulla verità dell'essere ha già mostrato come all’essere stesso appartenga, in modo inscindibile, il suo darsi ma anche il suo ritrarsi nella temporalità, ovvero nella sua storia, intesa come storia dell’essere. Essere e tempo sono quindi uniti da una comune origine, che è individuata da Heidegger nell’Ereignis, ovvero nell’evento. Se questo è vero, è allora anche spiegato il motivo per cui, proprio in Zur

Seinsfrage, Heidegger giunge a scrivere la parola Sein, cioè essere, con una

barratura incrociata, barratura che vuole essere appunto l’espressione di una considerazione non più metafisica dell’essere, il quale ora viene pensato come evento, che si apre, secondo Heidegger, in quattro direzioni: l’evento è qui pensato come Quadratura (Geviert). Ovvero, il moto di appropriazione e dispropriazione interno all’Ereignis (interno all’essere come evento) è qui pertanto ripensato come il gioco con cui i Quattro (Terra e Cielo, Divini e Mortali) si mantengono nella reciproca appartenenza, pur conservando la propria libertà.

83 M. Heidegger, In cammino verso il linguaggio, cit., p. 35. 84 M. Heidegger, Saggi e discorsi, cit., p. 136.

proprio perché concede esistenza alle cose, presso le quali i mortali soggiornano e realizzano così il tratto fondamentale dell’abitare, l’aver cura.

Perché – tuttavia – qualcosa come la poesia dovrebbe far abitare? Non è forse vero che l’uomo, dacché sta presso le cose, già da sempre “abita”?

Si tratta – in effetti – di una considerazione legittima e che impone di considerare il modo in cui l’uomo, abitualmente, dimora. Ebbene, perso in quello che Heidegger non esita a definire

uno strano eccesso di furia misurante e calcolante85,

l’uomo dimora – certo – sulla terra, ma non sta presso le cose (Ding), né le custodisce. Egli, semmai, vive dedicandosi alla loro rappresentazione (e dominazione). Si tratta di un abitare “inautentico”, anzi di un vero e proprio “abitare impoetico”86, dove ciò con cui egli ha a che fare sono soltanto gli oggetti che incontra (Gegen-stände) e non mai le cose (Dinge). Poiché presso gli oggetti non è data possibilità di soggiorno, l’uomo si situa così al di fuori della costellazione del Geviert, incapace di prendersi cura di tale

Quadratura, ponendosi in una dimensione che essenzialmente non gli

appartiene. Si spiega solo così la necessità del ritorno all’origine di cui parla la poesia Arrivo a casa. Ai miei familiari di Hölderlin. Il ritorno a casa è il ritorno all’abitare autentico, poetico, proprio dell’uomo:

L'arrivo a casa è il ritorno nella vicinanza all’origine87.

Dov’è la casa a cui deve far ritorno l’uomo? Qual è la dimora nella quale l’uomo può finalmente soggiornare presso le cose?

“La casa” (das Hauss) indica qui lo spazio che apre per gli uomini quello spazio nel quale soltanto essi possono essere “a casa propria” (zu hauss) e così nel proprio del loro destino88.

                                                                                                               

85 M. Heidegger, Saggi e discorsi, cit., p. 136. 86 Ibidem.

87 M. Heidegger, La poesia di Hölderlin, cit., p. 28. Così prosegue il passo: «Può ritornare solo colui che prima e forse già per lungo tempo si è caricato sulle spalle, in quanto viandante, il peso del viaggio ed è andato lassù, all'origine, per farvi esperienza di ciò che va cercato, per tornare indietro, in quanto cercatore, più esperto» [Ibidem].

Che cosa vuol dire, allora, stare nel proprio destino? Qual è il destino essenziale che la poesia soltanto può aprire e che la rende quell’originario far-abitare così caro ad Heidegger?

“Abitare poeticamente” significa: stare alla presenza degli dèi ed essere toccati dalla vicinanza essenziale delle cose. “Poetico” è l'esserci nel suo fondamento89.

Il compito del poeta è dunque quello di ricondurre l’uomo innanzi alle cose e così di riportarlo a casa:

Forse questo tratto che essenzialmente può solo essere messo in poesia, ossia la capacità dell'uomo di esser-di-casa, è la cosa suprema che il poeta deve mettere in poesia90.