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Alcune evidenze qualitative

In Emilia-Romagna, come noto, esistono due poli produttivi petrolchimici, uno sito a Ravenna e uno a Ferrara. E’ necessario precisare che solo una parte delle attività presenti in questi siti sono direttamente connesse alla raffinazione del petrolio, di conseguenza sulla base dell’impostazione del presente rapporto è bene tenere presente che una larga parte delle imprese, delle esportazioni e degli addetti, pur lavorando in questi siti, vengono conteggiati statisticamente nell’ambito del settore chimico, analizzato nel primo capitolo di questo lavoro. Le interrelazioni tra la petrolchimica e la chimica (e della gomma-plastica) sono molto forti appartenendo alla stessa filiera produttiva ed è spesso difficile analizzare separatamente questi comparti. Quello che desideriamo fare nella presente sezione è offrire una sintetica illustrazione delle principali caratteristiche e trasformazioni recenti sperimentate dalle due aree petrochimiche regionali. Una prima importante differenza tra le due aree è la presenza Ravenna di attività di raffinazione invece assenti a Ferrara, fattore che spiega la quota di addetti maggiore nel settore in analisi a Ravenna rispetto a Ferrara.

Le aree di Ferrara e Ravenna, che tra le altre produzioni si caratterizzano per la produzione di polipropilene, catalizzatori (e la presenza di un importante centro di ricerca su questo secondo prodotto) e fertilizzanti, ricevono la materia prima già raffinata soprattutto da Porto Marghera tramite pipeline. Il polo ferrarese e quello ravennate sono poi collegati tra loro da pipeline per il trasporto di materiale chimico tara i due impianti. Un primo, storico, elemento di debolezza strutturale dei poli di Ferrara e Ravenna è rappresentato indubbiamente dalla dipendenza dell’attività di cracking di Porto Marghera, dove si prevede, nel caso in cui venisse dismesso, una conseguenza diretta molto significativa sulle due aree che si troverebbero senza la principale fonte di approvvigionamento.

La crisi economica avviatasi nel 2009 ha avuto fortissime ripercussioni in queste produzioni, fortemente legate alla finanza internazionale, portando anche a procedure fallimentari di rilevanti attività. La recessione ha indubbiamente generato in alcune delle realtà della petrolchimica regionale almeno due effetti: in primo luogo ci sono state pesanti ristrutturazioni che hanno generato una consistente riduzione del personale, non solo in attività operative ma anche nella fase di R&S, che è per il settore chimico, di primaria importanza. In secondo luogo la recessione ha porto ad un elevato livello di tensione legato soprattutto alle nuove gestioni, subentrate successivamente alla crisi economica. Le società che avevano, con fatica, superato gli anni più difficili della crisi, assieme alla riduzione di personale, puntavano ad una modalità gestionale volta alla

compressione massima dei costi, con naturali ripercussioni sul lavoro e sul clima delle relazioni industriali.

A fianco di questi elementi, che riguardano gli eventi degli ultimi dieci anni, c’è indubbiamente il processo di lungo corso condotto da ENI finalizzato al disinvestimento progressivo dal settore, con la dismissione di numerose e importanti attività petrolchimiche. Anche nei siti tuttora operanti, le interviste realizzate trasmettono la scarsa vivacità e determinazione nelle scelte di investimento.

A questi passaggi, si aggiunge il progressivo mutamento tecnologico che anche in queste realtà ha prodotto trasformazioni già individuate in altri comparti della chimica e della farmaceutica, in particolare nella direzione della riduzione “dell’autonomia decisionale” e del “pensiero critico” del lavoratore (Petrol1_Es). Il lavoro è sempre più proceduralizzato e formalizzato, soprattutto per prevenire a monte le problematiche che si potrebbero determinare lungo i processi e minimizzare e standardizzare l’intervento diretto del lavoratore a valle. Questo porta ad una profonda trasformazione del lavoro di quel personale che aveva nel passato un maggiore spazio di azione ed intervento, basato sulle proprie competenze acquisite nel tempo. “La riduzione dei saperi diffusi porta inevitabilmente anche ad una riduzione della democrazia interna al luogo di lavoro” (Petrol1_Es) poiché essendo limitate le possibilità di intervento operativo si riducono anche le possibilità di partecipazione.

Le notizie più recenti, che riguardano la ripresa degli investimenti, anche sostanziali nel settore, come quello da parte di ENI-Versalis per la produzione di gomme speciali, che si va ad affiancare ad investimenti di rilievo realizzati da altre realtà dei poli fanno intravedere per il futuro una linea di ripresa dell’attività dei poli petrolchimici di Ferrara e Ravenna. Questo è particolarmente importante per queste realtà che sia per ragioni di lungo corso che a causa della recessione economica hanno sperimentato significativi processi di ristrutturazione. Certamente uno dei principali driver di sviluppo per la petrolchimica e tutta la filiera della gomma-plastica è rappresentata dalla cosiddetta chimica verde che potenzialmente andrebbe a stravolgere soprattutto la filiera della gomma-plastica, ma naturalmente anche i restanti comparti della chimica e petrolchimica. Sulla base degli studi di caso ed interviste realizzate però è necessario sottolineare che lo sviluppo di queste nuovi materiali e prodotti, su base organica, è ancora limitato ad applicazioni contenute e in fase di studio. Quello che però è significativo rilevare è che gli investimenti e risultati più consistenti finora raggiunti non sono stati in seno agli operatori già presenti sul mercato (i cosiddetti incumbent), che avrebbero avuto le risorse per modificare le linee della R&S ma piuttosto in seno a start-up alcune delle quali hanno già raggiunto rilevanti risultati economici. Gli incumbent,

tra cui diverse delle imprese presenti in regione, hanno di fatto proseguito le attività produttive e di ricerca prevalentemente all’interno della stessa traiettoria tecnologica finalizzata, lungo questa, allo studio per il miglioramento dei processi esistenti con la finalità ultima dell’incremento dell’efficienza produttiva.

5. Il settore ceramico

Un quadro macro, dal globale al nazionale

La ceramica si produce dove si usa. Questo è il punto di parenza per comprendere tanto le principali tendenze del mercato internazionale, quanto l’eccezione europea e, quindi, italiana. Infatti, anche negli ultimi dati elaborati da Acimac nella VI edizione del rapporto World production and consumption of ceramic tiles9, emerge chiaramente come l’Europa contraddica questa regola collocando il 12% del consumo mondiale a fronte di una produzione pari al 15% del prodotto mondiale. L’unica altra area che vede un’incidenza della produzione maggiore di quella relativa al consumo è quella cinese, ma si tratta di una “novità” dell’ultimo anno, che infatti sembra essere uno degli elementi critici che caratterizzeranno il prossimo futuro. Non a caso, in termini di mercato di approdo, l’Asia che nel 2017 pesa ancora per il 52% varia negativamente rispetto al 2016 del -4,6%. A questa variazione è dovuta anche la contrazione complessiva del mercato delle piastrelle in ceramica pari al -1,4%.

Guardando ai dati elaborati nello stesso rapporto, Spagna e Italia sono i soli Paesi Europei a comparire nella lista dei principali paesi produttori. Si tratta, rispettivamente, del V e VI posto, per un’incidenza, nel 2017, pari al 3,9 e 3,1%. Ben al di sotto delle prime posizioni di Cina (47,2%), India (8%), Brasile (5,8%). Più prossime, invece, a quella del Vietnam (4,1%) e dell’Iran, subito sotto l’Italia, con il 2,8% di produzione nel 2017. Rispetto al 2016, tra i Paesi citati, solo Cina e Brasile rallentano le produzioni (-1,5% e -0,3%). India e Vietnam variano positivamente di oltre il 10% (13,1% e 13,5%). Gli incrementi di Spagna e Italia, invece, sono pari al 7,7% e 1,6%, inferiori a quello iraniano, pari al 9,7%.

Dal punto di vista del consumo, invece, la variazione positiva del mercato è soprattutto dovuta all’incremento di domanda nei Paesi asiatici come Cina e Vietnam, che da soli collocano il 46% del prodotto mondiale. Varia negativamente, invece, il consumo in India (-3,2%), che comunque detiene il 5,3% della domanda.

I Paesi europei tornano, invece, con riferimento alle esportazioni. Spagna e Italia, con il 14,8% e 12,3% dell’export mondiale, sono il secondo e il terzo Paese maggior esportatore, subito dopo la Cina (33%) che però vede un certo rallentamento delle proprie esportazioni (-11,4% a fronte di un +3% della Spagna e +1,9% dell’Italia). Più di quello di altri Paesi, insomma, il mercato cinese sembra subire il combinato disposto

9 I dati a cui si fa riferimento in questo paragrafo sono stati anticipati in Ceramic World Review, 127/2018, disponibile a questa URL:

http://www.ceramicworldweb.it/file/Home/cww/pdf/cwr/2018/cwr-128/000_296%20CWR%20128_low.pdf

dalla concorrenza dei vicini produttori e la compressione della domanda nei vicini consumatori. Se a questo si aggiunge il clima di forte tensione commerciale con gli USA il quadro internazionale è praticamente completo e non offre scenari di tranquillità al sistema produttivo italiano.

La questione, infatti, è che se le dinamiche – così sintetizzate – dovessero essere confermate, a pesare sul futuro sarà soprattutto la capacità di contenere i prezzi del prodotto per far fronte all’incremento della concorrenza degli altri Paesi produttori in cerca di nuovi – e vicini – mercati. In tal senso, le imprese spagnole potrebbero essere avvantaggiate dal loro prezzo medio di 6,6 Euro al metro quadro esportato, ben al di sotto dei 13,9 Euro italiani.

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