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Alessitimia ed empatia per il dolore altru

3. ALESSITIMIA NELLE PATOLOGIE MEDICHE E PSICHIATRICHE 1 Alessitimia nelle patologie mediche e psichiatriche

3.5 Alessitimia ed empatia per il dolore altru

Quando parliamo di alessitimia, è importante porre l’attenzione sulle possibili relazioni tra alessitimia ed empatia.

Un recente studio ha misurato le risposte cerebrali empatiche nei soggetti con disturbo dello spettro autistico e soggetti di controllo. Il dolore reale e le immagini di stimoli dolorosi o di un evento traumatico inducevano iperattività nell'insula posteriore, invece, in soggetti alessitimici,l'immaginazione del dolore di un partner provocava minore attivazione nella insula anteriore. Questa gradazione di attività nella corteccia insulare che accompagna la gradazione del reale livello di dolore sembra spiegare notevolmente le caratteristiche alessitimiche (Gallese et al., 2004). L'alessitimia è stata associata a disturbi psichiatrici, tra cui l'autismo ad alto funzionamento/sindrome di Asperger,depressione oltre che a disturbi somatoformi (Bankier B, Aigner M, Bach M. 2001). La sindrome di Asperger è caratterizzato da disturbi fondamentalmente riguardanti l’uso della parola e del linguaggio e problemi di interazione affettiva (Fitzgerald M, Bellgrove MA. 2006). In termini di elaborazione socio-affettiva, la sindrome di Asperger ha caratteristiche simili

all’alessitimia. I pazienti con la sindrome di Asperger hanno mostrato difficoltà empatiche e difficoltà di comprensione delle emozioni attraverso le informazioni espresse dai volti (Uccello G, et. Al. 2010).

Esiste una letteratura scientifica in continuo sviluppo nel campo della psicologia, della filosofia della mente e delle neuroscienze, che supporta l’idea che noi possiamo comprendere il comportamento e i pensieri delle altre persone, in parte simulando mentalmente i loro stati interni (Gordon, 1986, 1992; Goldman, 1992; Carruthers, Smith, 1996; Gallese, Goldman, 1998; Gallese, 2001, 2003; Adolphs, 2003); in altre parole mettendoci “nei loro panni”. Nel campo più prettamente neuroscientifico, alcuni autori hanno proposto che i processi simulativi, originariamente scoperti e descritti nel dominio delle azioni, potrebbero costituire una caratteristica di base del nostro cervello sociale, e della nostra capacità di comprendere ed empatizzare con le altre persone (Gallese, 2001, 2003; Preston, de Waal, 2002; Adolphs, 2003; Gallese et al., 2004).

A questo proposito è interessante notare come il termine “empatia”, la traduzione del tedesco“einfühlung”, sia stato concepito inizialmente come una sorta di imitazione dei movimenti altrui. Il termine “einfühlung” fu infatti introdotto nel lessico della psicologia dell’esperienza estetica da Theodore Lipps per indicare la relazione tra l’artista ed il fruitore che proietta se stesso nell’opera (Lipps, 1903).

È lo stesso Lipps a teorizzare che l’empatia implichi una sorta di imitazione interiore dei movimenti altrui, facendo notare che un osservatore che ammira l’acrobata camminare sul filo si immedesima fortemente con quest’ultimo al punto da sentirsi dentro di lui (Lipps, 1903).

Proprio questo tipo di esperienza ci permette di riconoscere gli altri come persone simili a noi e di comprendere dunque i loro stati interni (Gallese, 2004 Meltzoff, Decety, 2004). In base ai correnti modelli neuroscientifici dei processi empatici, la visione di un determinato stato emotivo, percettivo o motorio in un'altra persona attiverebbe automaticamente rappresentazioni cognitive e processi neurali corrispondenti nell’individuo che osserva tale stato (Preston, S.D., & de Waal. F.B.M. (2002). Uno dei meccanismi di base su cui si fonda l’esperienza empatica consiste nel trasformare una rappresentazione visiva (o uditiva, olfattiva) riguardante un’altra persona, in una rappresentazione corporea interna (in prima persona) (Decety, Sommerville, 2007).

Questa caratteristica potrebbe essere alla base di forme anche sofisticate di empatia e potrebbe essere rappresentata a livello neurale mediante diversi tipi di meccanismi simulativi di tipo “mirror” (Preston, de Waal, 2002). A supporto di questa ipotesi, un ampio numero di aree e sistemi neurali con caratteristiche“mirror” sono stati recentemente descritti nell’ambito delle emozioni (Avenanti et al., 2005, 2006).

Questi studi suggeriscono che il sistema dei neuroni specchio potrebbe essere soltanto uno dei sistemi del nostro cervello sociale che ci rendono capaci di avere una conoscenza esperienziale diretta delle altre persone. La presenza di distinte componenti sensoriali ed emozionali rende il dolore un modello particolarmente interessante per testare le teorie simulative dell’empatia che si basano sul concetto di rappresentazioni neurali condivise.

L’empatia per il dolore altrui potrebbe avere uno status speciale nel dominio dei processi empatici. Da una parte, condividere rappresentazioni affettive del dolore (distress, spiacevolezza) potrebbe costituire più direttamente un predicato di forme sofisticate di empatia, come ad esempio il comportamento d’aiuto e altruistico o il ragionamento etico e morale (Thompson, 2001; Williams, 2002; Morrison, 2007). Dall’altra parte, condividere rappresentazioni sensomotorie del dolore potrebbe implicare che il dolore altrui venga mappato sul proprio corpo.

Questo potrebbe essere cruciale per l’apprendimento sociale di comportamenti protettivi e di reazioni difensive a situazioni potenzialmente dannose (Avenanti, 2006). In accordo con le attuali teorie neuro scientifiche dell’empatia (Preston, de Waal, 2002) i meccanismi mirror simulativi scoperti e descritti nel dominio delle azioni potrebbero fondare anche la nostra capacità di comprendere ed empatizzare con il dolore delle altre persone . Recenti studi di neuroanatomia funzionale mostrano che solo le componenti affettive della pain matrix sono cruciali nell’esperienza empatica del dolore altrui, suggerendo che solamente le rappresentazioni emozionali del dolore possono essere condivise (Singer et al.,2006).

I risultati di alcuni studi mostrano che non solo la percezione di stimoli dolorosi applicati sul proprio corpo, ma anche la semplice osservazione di stimoli dolorosi applicati sul corpo di un’altra persona sono in grado di inibire in modo specifico il sistema motorio (Avenanti et al., 2005, 2006; Avenanti, Aglioti, 2006; Minio Paluello et al., 2006).

È possibile dunque che l’inibizione motoria indotta dal dolore osservato rifletta l’attività di un meccanismo simulativo di tipo mirror che estrae alcuni aspetti sensoriali di base del dolore altrui (localizzazione, intensità) e li mappa nel sistema motorio in accordo con la sua organizzazione somatotopica (Bufalari et al., 2007). L’empatia per il dolore altrui potrebbe basarsi non solo sulla condivisione di componenti affettivo-motivazionali del dolore (Singer et al, 2006; Morrison et al., 2004; Jackson et al 2005a, 2005b; Botvinick et al., 2005), ma anche sulla condivisione di rappresentazioni somatiche (Avenanti et al., 2005, 2006; Bufalari et al., 2007). Questa visione supporta l’ipotesi che l’empatia sia basata su diversi meccanismi simulativi sensoriali, motori ed emozionali (Preston, de Waal, 2002).

Alcuni studi enfatizzano il ruolo della pain matrix non solo nell’esperienza personale del dolore, ma anche nell’empatia per il dolore altrui (Singer et al, 2004, 2006; Morrison et al., 2004; Jackson et al, 2005, 2006; Botvinick et al., 2005; Avenanti et al., 2005, 2006; Minio Paluello et al., 2006; Saarela et al., 2007; Ogino et al., 2007; Bufalari etal., 2007).

In base a tali studi, gli aspetti sensoriali del dolore verrebbero “condivisi” e codificati a livello delle strutture sensomotorie della pain matrix, mentre gli aspetti emozionali del dolore sarebbero rappresentati a livello della divisione affettiva.

In linea con le teorie simulative dei processi empatici (Gallese et al., 2004), questo “mappaggio” del dolore degli altri sul proprio corpo, ci permetterebbe di avere una comprensione diretta dell’esperienza dolorosa altrui senza necessitare di una mediazione riflessiva esplicita: in altre parole, per comprendere il dolore degli altri faremmo uso delle nostre rappresentazioni corporee interne (Avenanti,Aglioti, 2006).

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