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Gli altri lemmi

Gli altri lemmi

Gli altri lemmi

Altri lemmi legislativi, se sottoposti a un’approfondita analisi che metta in luce le loro accezioni, sono in grado di rivelare ulteriori aspetti sulla concezione della libertà dell’individuo e sulla sua rappresentazione in ambito legislativo, nonché di mostrare le sfumature di significato presenti tra le diverse attestazioni riguardanti l’indipendenza della persona.

Riteniamo opportuno condurre un confronto per ´famiglie lessicali`, onde riscontrare in esse un’indicazione di libertà giuridica avente come base l’esercizio delle armi e la forza fisica. Di quest’ultima in particolare vogliamo porre in rilievo i diversi livelli di legittimità, mostrando il peso della consuetudine longobarda e franca nella definizione della libertà personale. Sulla base di tale osservazione intendiamo pertanto chiarire se è ancora la tradizione romana ad affiorare dal dettato legislativo — indicandoci una concezione della libertà ancora caratterizzata dall’essere inermi — oppure se la concezione barbarica472 dell’esercizio delle armi come condizione essenziale di libertà ha ormai fatto pienamente ingresso nelle disposizioni di legge. Nel primo caso ricercheremo i caratteri che distinguono i cittadini romani, visti nel rapporto con il publicum e con la tradizione legislativa franca. Nel secondo caso, al contrario, potrà essere interessante riscontrare quali manifestazioni e soprattutto quali prerogative e quali usi della forza fisica possano costituire un’indicazione di libertà, nonché se sia l’uso delle armi a distinguere i semplici liberi dagli individui posti ai vertici di potere.

Tanto i lemmi che seguono — in primo luogo liber e liber homo, che con le loro numerose attestazioni rivelano accezioni diverse e particolarità nell’uso — quanto vir, persona e singulus , devono necessariamente essere posti a confronto con i lemmi exercitalis e liber al fine di mettere a fuoco elementi precipui utili a definire la libertà personale come derivante dall’uso delle armi o come diritto. Non di meno, anche ingenuitas e l’aggettivo ingenuus possono apportare nuovi elementi di

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Riteniamo corretto, in questa sede, l’uso dell’aggettivo “barbarico” piuttosto che “germanico”, in quanto maggiormente adatto a esprimere la molteplicità e la diversità di influssi culturali che hanno contribuito all’evoluzione della società italica dopo l’avvento dei Longobardi e dei Franchi. Rimandiamo per le discussioni sull’argomento in particolare a I. H. Garipzanov, P. J. Geary, P. Urbanczyk, Franks, Northmen and Slavs. Identities and State Formation in Early Medieval Europe, Turnhout 2008, pp. 17-51 e più in generale i capp. 1-3 (sui Franchi). E ancora P. J. Geary, Il mito delle nazioni. Le origini medievali dell’Europa, Roma 2009, pp. 75-122, 123-129 (sui Longobardi).

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comprensione, al pari di altri aggettivi o, in taluni casi, anche pronomi — i quali possono essere analizzati soltanto nel contesto della legge — determinanti anch’essi differenze tra i diversi status sociali. Riteniamo utile osservare infine come il lemma

exercitalis richiami immediatamente un vocabolo avente connotazione prettamente militare, miles, il quale non compare nella nostra particolare fonte, privandoci di un’utile comparazione soprattutto con i secoli successivi.

Del sostantivo ingenuitas, dell’aggettivo ingenuus (legato grammaticalmente al nome homo) e dell’aggettivo sostantivato ingenuus, i capitolari italici fanno uso una sola volta per ogni funzione grammaticale. È possibile riscontrare con sicurezza la loro corrispondenza con un lemma a essi concettualmente legato, ovvero con l’aggettivo

liber, per il quale possiamo riferire un’equivalenza semantica e d’uso.

Le tre attestazioni si osservano in leggi riconducibili a Pipino e sono distribuite in modo uniforme per tutto l’arco temporale di riferimento, in quanto il sostantivo

ingenuitas risale al 787-788 e i due aggettivi all’806-810. Il primo passo — presente anche nella trattazione di liber homo — recita: “de diversis generationibus hominum qui in Italia commanent : volumus ut, ubicumque culpa contigerit unde faida crescere potest, pro satisfactione hominis illius contra quem culpavit secundum ipsius legem cui neglegentiam commisit emendet. De vero statu ingenuitatis aut aliis quaerelis unusquisque secundum suam legem se ipsum defendat”473. Il lemma ingenuitas — la cui importanza è riscontrabile sia per il nostro lavoro sia per lo studio dell’evoluzione del diritto privato — offre l‘occasione di constatare nuovamente un importante principio legislativo. Vediamo qui esplicitarsi — come abbiamo già avuto modo di osservare trattando le attestazioni del lemma “liber homo” — il concetto di personalità del diritto, ovvero la compresenza e la applicabilità nel medesimo processo di differenti legislazioni, che devono essere applicate in base all’identità etnica degli individui coinvolti. In caso di compresenza di norme etniche differenti, tale dettato normativo prescrive quale lex si debba adottare qualora si debba amministrare giustizia nei confronti di gruppi etnici residenti in Italia. Gasparri offre un riscontro a questa affermazione — per la quale questo passo altro non è che una anticipazione cronologica — là dove afferma che “se è vero che l’età carolingia vede lo sviluppo (non la creazione) del principio della personalità della legge, è vero anche che esso divenne assolutamente preponderante, in Italia, solo dopo il crollo dell’ordinamento pubblico carolingio”474. Questa affermazione fornisce infatti un contesto per il passo legislativo citato, fornendo la prova di un punto di avvio di tale

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MGH, Capitularia cit., I, p. 201, doc. 95, 4 (787-788).

474 Gasparri,

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processo. La necessità di affermare la natio di appartenenza per l’applicazione del codice processuale lascia a intendere che — secondo le parole dello studioso — “accanto a gruppi nuovi di possessori sentiti a lungo come estranei, e che applicavano i rituali giuridici loro propri, viveva una realtà giuridica sentita come fondamentalmente territoriale, espressione tangibile di una società assestata entro quadri di riferimento consolidati, assai scarsamente intaccati dalla conquista franca”475. In quest’ottica si colloca il nuovo intento legislativo franco, consapevole della necessità — per tutti coloro che non si riconoscessero come Longobardi o Italici — di rendere esplicito l’ethnos di ogni uomo sottoposto a processo476. Allo stesso modo anche le vertenze attinenti lo status sociale della persona debbono essere risolte seguendo il principio del ”secundum suam legem”: lo stato giuridico su cui si delibera è tuttavia la piena libertà personale e sociale — definita in modo esplicito “status ingenuitatis” — senza alcun vincolo o dipendenza da altrui persona, per la quale è previsto che ognuno possa difendere la propria condizione. Anticipiamo qui come in tale contesto il termine ingenuitas si presenti con il medesimo valore semantico di libertas.

È necessario far ancora notare alcuni elementi in grado di chiarire l’importanza del passo. Si stabilisce la validità delle singole leggi nazionali nella definizione dello

status giuridico: qualora si presenti l’eventualità che la condizione di

ingenuitas/libertas del singolo individuo debba essere difesa — possibilità reale in questo periodo di travaglio politico del Regnum — la legge indica di quale prassi legislativa servirsi in sede processuale. La disposizione di legge precedente477 non chiarisce tuttavia per quali cause possa essere messa in dubbio la condizione personale. Essa esemplifica, infatti, il caso di faida tra gruppi parentali a seguito di un crimine: ciò comporta la necessità di stabilire la punizione sulla base della legge di colui che ha subito il danno. Pare tuttavia difficile leggere una connessione tra i due dettati legislativi: l’unico elemento riguardante lo status della persona è appunto il principio legislativo — di carattere etnico — che deve essere considerato per definire la condizione giuridica del singolo. Ciò non ostante è possibile affermare con una certa sicurezza — oltre a ciò dobbiamo escludere che la faida si potesse applicare

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Op. cit., p. 263.

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Richiamiamo qui ancora Gasparri, Culture barbariche cit., pp. 32-39.

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“Volumus ut, ubicumque culpa contigerit unde faida crescere potest, pro satisfactione hominis illius contra quem culpavit secundum ipsius legem cui neglegentiam commisit emendet”: op. cit., p. 201, doc. 95, 4 (787-788).

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anche a individui non del tutto liberi — che il lemma “ingenuitas” sia specifico della sola condizione di piena libertà giuridica del singolo.

Le due successive occorrenze, posteriori di venti anni ma ancora di Pipino, riportano i due lemmi, il primo con funzione di aggettivo, il secondo di sostantivo. Entrambe sono presenti a breve distanza nello stesso capitolare 102, databile tra l’806 e l’810. Il primo passo delibera innanzitutto sulla proibizione di ridurre in servitù un uomo libero — diffida pertinente i soli vicari deliberanti “in iudicio” e non il conte — e prosegue proibendo di procedere all’arresto di uomini liberi (collegandosi a un precedente capitolare che purtroppo non ci è pervenuto)478. Il lemma “ingenuus” è qui sinonimo di liber : se ne fa uso con la stessa accezione e nel medesimo contesto di libertà costituzionale. Potremmo anzi affermare che la circostanza legislativa è ancora più indicativa per via del suo significato, in quanto il legislatore ha scelto di servirsi di questo termine come voce giuridica per definire la libertà dell’imputato. Riteniamo ancora doveroso porre in rilievo le espressioni “conquirere hominem in servitio” (per esprimere la perdita forzosa della libertà a seguito di sentenza giudiziaria) e “ingenuos homines custodire” (per definire la detenzione forzata di liberi a seguito di denuncia all’autorità): il linguaggio esprime in modo inequivocabile la contrapposizione tra servitù e status ingenuitatis.

Il secondo passo stabilisce le punizioni da infliggere a chi abbia osato tendere trappole per animali nelle foreste regie, con punizioni sia per i liberi sia per i non liberi, definendo questi ultimi genericamente come “servi”479. La semplicità del passo non deve distrarre la nostra attenzione, in quanto è senz’altro possibile leggervi un divieto espresso in forma elementare (in modo tipico per i capitolari), ma al medesimo tempo questo esprime anche il netto contrasto giuridico tra le figure di “ingenui” e di “servi”. In tale netta antinomia si delinea la figura degli “ingenui”: si tratta di uomini liberi da ogni legame personale o vincolo di altro genere, aventi l’obbligo di rifondere un illecito da essi stessi compiuto mediante ammenda pecuniaria, in contrasto con i “servi” che, a fronte della stessa colpa, devono essere rappresentati di fronte alla legge dal loro dominus. Agli occhi del legislatore carolingio quest’ultimo aspetto definisce lo status di ingenuus o servus, al pari della facoltà di difendere la propria libertà di fronte all’autorità o di pagare per una propria

478 “Ut ante vicarios nulla criminalis actio diffiniatur [...]; et nullus in eorum iudicio aliquis in servitio

hominem conquirat, sed per fidem remittantur usque in praesentiam comitis. Et ingenuos homines nulla placita faciant custodire, postquam illa tria custodiant placita quae instituta sunt, nisi forte contingat, ut aliquis aliquem accuset”: op. cit., p. 210, doc. 102, 14 (806-810).

479 “Ut nemo pedicas in foreste dominica […] tendere praesumant. Et hoc si ingenui perpetraverint,

bannum dominicum solvant; si servi, domini illorum emendent sicut lex est”: op. cit., p. 211, doc. 102, 17 (806-810).

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colpa, come nel passo innanzi. Troviamo pertanto in questo contrasto la definitiva conferma dei significati di ingenuus e di ingenuitas riscontrati nei precedenti passi, come sinonimi di liber. Allo stesso tempo i due passi ci permettono di escludere qualsiasi richiamo alla dimensione militare dei soggetti cui essi sono attribuiti, respingendo quel valore bellico — e fortemente collettivo — che caratterizza con decisione altri lemmi precipui della tradizione longobarda quali “exercitalis”. I passi appena riportati si propongono dunque come un esempio di quella che potremmo definire “accezione civile del lemma” — ancorato alla tradizione romana di libertà — ma presente e ancora saldo al fianco del lemma longobardo che denota libertà e servizio armato.

Passiamo ora in rassegna i lemmi vir, persona e singulus, vocaboli che, nonostante si possano definire di minore rilevanza, possono anch’essi fornire un contributo nel determinare quali lemmi definiscono la posizione sociale dell’individuo in epoca franca.

Sono otto le attestazioni del lemma vir e dalla loro analisi si evince come esso sia adottato con regolarità, tanto nelle leggi quanto nell’uso delle cancellerie: lo si trova con sistematicità tra il 776 e l’813, scelto sia da Carlo sia da Pipino. I contesti d’uso ne permettono un’interpretazione agevole: possiamo anticipare come vir rivesta un duplice contenuto semantico, specifico anche per il latino classico, di “maschio/individuo di sesso maschile” e di “marito”. Analogamente il termine femina

— cui fanno di nuovo ricorso sia Carlo sia Pipino — ha il significato di “femmina/donna” e, allo stesso tempo, anche di “moglie”: elemento distintivo del lemma è la facoltà di procreare, ovvero di indicare donne non consacrate.

Vediamo ora in specifico le attestazioni della nostra fonte. Per il termine vir — che è accompagnato e contrapposto in quasi tutti i casi al suo analogo puella, avente sempre l’accezione di “femmina consacrata” e dunque sciolta da legami con uomini — il maggior numero di attestazioni è riferito alla destinazione maschile o femminile dei monasteri, scelta che rivela un uso prevalente in ambito ecclesiastico, più precisamente monastico. I lemmi sono tratti da capitolari distribuiti in modo regolare nel periodo di nostro interesse e databili a partire dal 782 fino all’813, permettendo di conseguenza di esaminare i termini in una prospettiva cronologica medio-ampia.

Nel primo esempio (capitolare di Pipino del 782 circa), si prescrive che nei “monasteria virorum et puellarum, tam que (sic) in mundio palatii esse noscuntur vel etiam in mundio episcopales seu de reliquis hominibus esse inveniuntur, distringat unusquisque in cuius mundio sunt, ut regulariter vivant”480. Il secondo passo testimonia invece la volontà regia nel disporre inchieste e controlli sui modi di vita e

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sull’osservanza della regula monastica, sia per i monasteri maschili sia per quelli femminili. Il capitolare è attribuito con certezza a Pipino (promulgato nel 787 o poco dopo)481 e consente di dedurre come l’indagine si focalizzi solamente sui monasteri del Regnum Italicum: “stetit nobis, ut missos nostros, [...] direxerimus infra regnum nostrum previdendum et inquirendum per monasteria virorum et puellarum que sub sancta regula vivere debent, quomodo est eorum habitatio vel qualis est vita aut conversatio eorum”482. In un terzo capitolare — la nota epistola dell’806-810 di Carlo al figlio — si lamentano le angariae subite ad opera di rappresentanti del Regnum: “pervenit ad aures clementiae nostrae, quod aliqui duces […] mansionaticos et parvaredos accipiant, […] non solum super liberos homines sed etiam in ecclesias Dei, monasteria videlicet virorum ac puellarum et senodochia”483. Nel quarto e nel quinto passo si indicano ancora i provvedimenti da adottare nei monasteri per riportare all’ordine i religiosi: potremmo intendere tali rimedi come provvedimenti che tengono seguito all’indagine regia testimoniata dalla legge di Pipino del 787 testé citata. Essi sono tratti dal capitolare mantovano di Carlo del gennaio 813, incentrato su argomenti ecclesiastici: “monasteria que (sic) iam pridem regularia fuerunt, tam virorum quamque et puellarum […] volumus ut…”484 e dal capitolare 105, attribuito a Carlo e di datazione incerta: “item placuit de sanctimonialibus mulieribus qui se copulaverunt viris aut adulterio se polluerunt, ut disiungantur, et intrent in monasteria tam viri quamque et feminae cum rebus suis”485.

I passi selezionati, con l’eccezione del terzo, hanno l’intento di spingere i religiosi, sia maschi sia femmine, all’osservanza delle regole monastiche, disposizione questa ricorrente nei capitolari; in essi risulta evidente la scelta di “vir” affiancato al termine “puella”, quest’ultimo con significato speculare e identica accezione d’uso. Notiamo ancora come per designare le donne si impieghi puella piuttosto che

femina, ad esclusione dell’ultimo passo: non ne emerge tuttavia alcuna indicazione

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Per Boretius esso risale all’ottobre 787: MGH, Capitularia cit., I, p. 198, doc. 94. De Clerq ne corregge la datazione estendendo il periodo di scrittura e ritardandone brevemente la promulgazione, senza tuttavia posticipare la datazione dopo l’800: C. De Clerq, Capitulaires francs en Italie à l’époque de Charlemagne, in Hommage à Dom Ursmer Berlière. Recueil publié par l’Institut historique belge de Rome, Bruxelles 1931, p. 28.

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MGH, Capitularia cit., I, p. 199, doc. 94, 11 (ottobre 787 o poco posteriore)

483

Op. cit., p. 211-212, doc. 103 (806-810).

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Op. cit., p. 195, doc. 92, 2 (gennaio 813).

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sull’età delle donne, escludendo qualsiasi ulteriore informazione sulla struttura sociale e organizzativa dei monasteri che si intende regolamentare. Il lemma “puella” indica pertanto — in modo speculare a “vir”, presente negli stessi provvedimenti — le donne consacrate e sciolte da legami con uomini: dunque vergini che hanno rinunciato alla procreazione, oppure vedove; oppure il termine è altrimenti usato come sinonimo di

sanctimoniales486. In ogni situazione è la condizione di dedizione totale a Dio che il legislatore intende fare comprendere, tanto in “vir” quanto in “puella”.

Il terzo passo delinea invece verso quali categorie sociali fossero dirette le malversazioni di funzionari pubblici: troviamo elencati, fianco a fianco, liberi homines

e “monasteria videlicet virorum ac puellarum”. La citazione ci permette di porre a confronto entrambi i termini liberi homines e viri, offrendo così una chiara prova di come il primo lemma denoti nettamente la condizione giuridica — in cui sono comprese anche le donne (si vedano in proposito anche i capitoli su “liber homo” e “homo”) —, mentre il secondo indica soltanto i maschi.

Un secondo significato di vir, nell’accezione di “individuo” — con il significato qui di uomo senza averi né dimora, nonché senza riferimenti al sesso — è attestato ancora nell’ultimo capitolare di Carlo dell’813: questa norma è in realtà una raccolta di frammenti di leggi con collocazione temporale indeterminata, in cui si dispone “de illis vero viris paupertinis qui nihil habent, ut supra et ipsi disiungantur, et si res non habent qualiter in monasterio vivant”487. Il rex legifera a proposito di uomini cui deve essere concessa la possibilità di risiedere in monastero, purché siano sfamati da parenti: l’evidenza della loro indigenza è indicata dall’aggettivo “paupertinis”, nonché dall’accenno alla totale mancanza di beni. Vir è qui usato come sinonimo di persona, senza l’indicazione del sesso.

Risulta al contrario di difficile interpretazione la puntualizzazione “ut supra et ipsi disiungantur”: dobbiamo supporre che essa riprenda la prima disposizione del capitolare 96 del 787-800 (che presenteremo di qui a breve), per estendere anche ai

viri paupertini i medesimi provvedimenti riservati alle donne monacate. È facile intendere che si tratti di uomini accolti in monastero per la loro povertà, uniti alle “sanctimoniales mulieres” presentate all’inizio del capitolo: la legge prescriveva che le donne avrebbero dovuto essere allontanate da questi. La mancanza di ulteriori punti

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Avremo modo di verificare quanto ora sostenuto nel confronto con l’ultimo passo, nel quale è presente “femina” (doc. 96, 1 del 787-800): in esso questo lemma è usato per indicare appunto la donna prima coniugata e che in un secondo tempo deciderà di cingere l’abito monastico.

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di raffronto nel testo impedisce di verificare l’ipotesi, sebbene il significato di vir come “uomo povero di averi” non risulti alterato, e lo si debba sempre da porre a fianco di

pauper nel suo significato principale.

Ancora nel medesimo capitolare di Carlo dell’813, vir è presente con una seconda attestazione, nell’accezione di “maschio”, cui è affiancato il termine “mulier” avente valore di “femmina”: “si qua mulier filium vel filiam suam per fraudem aliquam coram episcopo ad confirmandum tenuerit, propter fallaciam suam poenitentiam agat, a viro tamen suo non separetur”488. Il contesto nel quale sono presenti i termini è quello che la sociologia contemporanea definisce di “individui co-residenti”489, in quanto non è possibile provare con certezza che l’uomo e la donna in questione costituiscano una coppia di coniugi sposati, né che il figlio o la figlia sia loro. In base a questa ipotesi dobbiamo pertanto ritenere che vir e mulier possano anche definire i conviventi di una coppia non coniugata. Tale norma impone pertanto che gli eventuali colpevoli di suddetto reato non debbano essere condannati — per esattezza, alla donna è imposto di poenitentiam agere, in quanto a lei sola è ascritta la truffa nei confronti del vescovo — e non che l’uomo venga allontanato o che siano loro sottratti i figli.

In proposito, immediato è il confronto con un altro capitolare, deciso in accordo coi vescovi del Regnum, risalente agli anni tra il 787 e l’800 e ratificato probabilmente da Pipino. In esso — unico caso nei capitolari qui studiati — si fa uso della voce femina con il significato di “donna consacrata”, ma al suo fianco compare anche il termine maritus: “de his feminis qui (sic) se Deo voverant et se monachica veste induerant, et postea se maritos copulaverunt: [...] sine dilatione eas ab ipsis illicitas coniunctionibus separare debeant”490. La norma in questa occasione intende