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de L amartine , Voyage en Orìent

Nel documento Saggi Universale Economica Feltrinelli (pagine 100-132)

Il 17 novembre, la più grande impresa di ingegneria di questo seco­ lo vedrà celebrato il proprio buon esito in una magnifica festa di

A. de L amartine , Voyage en Orìent

1. Frontiere ridisegnate, questioni ridefinite, religione secolarizzata Gustave Flaubert morì nel 1880, senza aver terminato Bou-

vard et Pécuchet, il romanzo comico ed enciclopedico sulla de­

essenziali della sua visione, comunque, sono chiare, e trovano un solido sostegno nel ricco contenuto del romanzo. I protagonisti sono due impiegati borghesi i quali, quando uno dei due entra in possesso di una cospicua e inattesa eredità, lasciano la città e si ritirano in un podere di campagna, liberi di dedicarsi a ciò che loro piace ("nous ferons tout ce que nous plaira!”). Più avanti, ve­ diamo come, liberi di seguire le loro inclinazioni, i due amici ini­ ziano un’escursione nella selva del sapere teorico e pratico: agro­ nomia, storia, chimica, pedagogia, archeologia, letteratura, in cui sempre più si smarriscono man mano che procedono. Esplora­ no i territori della conoscenza come viaggiatori'nel tempo e nel sapere, sperimentando le delusioni, le frustrazioni e gli smacchi che sono soliti provare i dilettanti meno dotati. In realtà quella che essi ripercorrono è l'intera deludente esperienza del secolo xix, attraverso la quale i “bourgeois conquérants” - come li defi­ nisce Charles Morazé - finiscono col divenire le vittime malde­ stre della loro stessa conformistica e incompetente mediocrità. Ogni ondata di entusiasmo finisce con l’appiattirsi nel grigiore dei luoghi comuni, ogni disciplina scientifica e ogni campo del sapere si mutano da fonti di speranza e di potere in cause di di­ sordine, rovina e sconforto.

Tra gli appunti lasciati da Flaubert per la conclusione di un così desolato panorama, si accenna a due temi che rivestono per noi speciale interesse. I due amici discutono del futuro del gene­ re umano. Pécuchet vede "il futuro dell’Umanità come attraver­ so un vetro, oscuramente”, mentre Bouvard lo vede “luminoso!”:

L’uomo moderno progredisce, l’Europa verrà rigenerata dall’Asia. È la legge storica per cui la civiltà muove da Oriente a Occidente [...] le due forme di umanità infine si fonderanno insieme.1

L’evidente richiamo a Quinet è l’inizio dell'ennesimo ciclo di entusiasmo e delusione attraverso il quale passeranno i due pro­ tagonisti. Gli appunti di Flaubert indicano che, come tutti gli al­ tri, quel progetto di Bouvard verrà bruscamente interrotto dalla realtà - nella fattispecie, sotto forma di due gendarmi che arri­ veranno all'improwiso per accusarlo di comportamento immo­ rale. Poche righe dopo, comunque, compare il secondo argomento che c’interessa: Bouvard e Pécuchet confessano l’uno all'altro che il segreto desiderio di entrambi è di tornare a essere copisti. Si fanno costruire una scrivania a due posti, acquistano libri, pen­ ne e gomme da cancellare, e - così Flaubert conclude la sua an­ notazione - “ils s’y mettent”, si mettono al lavoro. Fallito il ten­ tativo di vivere la scienza, e di metterla più o meno direttamen­ te in pratica, Bouvard e Pécuchet si riducono infine a trascrive­ re acriticamente informazioni, da un testo a un altro testo.

Sebbene non sia compiutamente esplicitata, l’idea, fatta pro­ pria da Bouvard, di un’Europa rigenerata dall’Asia (e la forma che essa assume arrivando sullo scrittoio dei due copisti) può però essere delucidata sotto molti e importanti aspetti. Come molte altre visioni dei due protagonisti, essa è globale e rico­

struttiva, e rappresenta quello che, agli occhi di Flaubert, ap­

pare come il gusto ottocentesco per la ricostruzione del mondo in base a una visione fantastica, non di rado con l’ausilio di spe­ ciali procedimenti scientifici. Tra le visioni che Flaubert ha in mente vi sono le utopie di Saint-Simon e Fourier, la rigenera­ zione scientifica del genere umano immaginata da Comte, e tut­ te le religioni laiche o scientifiche auspicate da ideologi, posi­ tivisti, eclettici, occultisti, tradizionalisti e idealisti come De- stutt de Tracy, Cabanis, Michelet, Cousin, Proudhon, Coumot, Cabet, Janet e Lamennais.2 Nel corso del romanzo Bouvard e Pécuchet espongono le teorie di tutti questi autori; poi, dopo averle demolite una dopo l’altra, ne cercano di nuove senza mai incontrarne alcuna che li soddisfi.

La radice di siffatte ambizioni riformatrici è tipicamente ro­ mantica. Occorre ricordare fino a che punto gran parte del pro­ getto intellettuale e spirituale del tardo Settecento consistesse in una rifondazione della teologia, in un "naturalismo soprannatu­ rale”, come è stato chiamato da M.H. Abrams. Questo atteggia­ mento viene poi ereditato dalle tendenze tipicamente ottocente­ sche che Flaubert satireggia in Bouvard et Pécuchet. La nozione di rigenerazione tende quindi a ricollegarsi con

la forte propensione romantica [a tornare], dopo il razionalismo e il decoro delTIlluminismo [...] alla cruda drammaticità e ai sovran­ naturali misteri della storia e delle dottrine cristiane, ai violenti con­ flitti e ai repentini rivolgimenti della vita interiore del cristianesimo, oscillante tra gli estremi della distruzione e della creazione, defl’in- femo e del paradiso, dell’esilio e del ricongiungimento, della morte e della rinascita, della disperazione e della gioia, del paradiso per­ duto e riconquistato [...]. Ma poiché venivano, inevitabilmente, do­ po Tllluminismo, gli scrittori romantici resuscitarono sì questi an­ tichi temi, ma con una differenza: vollero salvare la visione d’insie­ me della storia e del destino umano, i paradigmi esistenziali e i va­ lori cardinali della tradizione religiosa, e nello stesso tempo rico­ struirli in una forma che li rendesse intellettuali ed emotivamente accettabili da parte dei loro contemporanei.3

L’idea che Bouvard aveva in mente - la rigenerazione del­ l’Europa da parte dell’Asia - aveva conseguito grande prestigio e influenza nell’età romantica. Friedrich Schlegel e Novalis, ad esempio, esortarono con forza i loro connazionali, e gli europei in genere, a uno studio approfondito dell’India, perché a loro av­

viso soltanto la religione e la cultura indiane potevano sconfig­ gere il materialismo e il meccanicismo (nonché le tendenze re­ pubblicane) della cultura occidentale. Una sconfitta da cui sa­ rebbe sorta un’Europa nuova, rivitalizzata: si intuiscono facil­ mente le figure bibliche di morte, rinascita e redenzione impli­ cite in tale visione. Per di più il progetto orientalista del Roman­ ticismo non era solo un caso particolare entro una tendenza più generale; era anche uno dei principali fattori costitutivi di quel­ la stessa tendenza, come Raymond Schwab ha così lucidamente argomentato in La Renaissance orientale. Ciò che contava, tutta­ via, non era tanto l’Asia in sé, quanto Yutilità dell’Asia per l'Eu­ ropa moderna. Così chiunque, come Schlegel o Franz Bopp, pa­ droneggiasse una lingua orientale era un eroe dello spirito, un cavaliere errante che riportava all'Europa una parte del senso del­ la sua sacra missione, che essa aveva ormai smarrito: precisa- mente il senso che viene fatto proprio, nell’Ottocento, dalle "re­ ligioni laiche” descritte da Flaubert. Non meno di Schlegel, Words- worth e Chateaubriand, Auguste Comte - come Bouvard - fu se­ guace e fautore di un mito laico postilluministico dai tratti in­ confondibilmente cristiani.

Ritrarre Bouvard e Pécuchet mentre ripercorrono ogni vol­ ta la parabola che dall’entusiasmo riformatore conduce a esiti di comico scoraggiamento serve a Flaubert per richiamare l'at­ tenzione sulla precarietà e l’imperfezione dei progetti umani in generale. Egli vedeva assai bene che dietro Yidée regue "Europa rigenerata dall’Asia" si nascondeva un’insidiosa forma di hybris. Né "Europa” né "Asia” avrebbero significato alcunché di preci­ so, se i visionari non avessero esercitato la loro capacità di tra­ sformare immense distese territoriali in entità concettualmente utilizzabili. In realtà, quindi, non si trattava dell’"Europa” o dell’"Asia’ ’, ma della nostra "Europa”, della nostra "Asia”, della nostra volontà e rappresentazione, per dirla con Schopenhauer. Le leggi storiche erano le leggi degli storici, anziché quelle della storia, così come, parlando di “due forme di umanità", si espri­ meva più la capacità europea di conferire un’aria di inesorabi­ lità a distinzioni artificiali, che non uno stato di cose obiettivo. Quanto al resto della frase, "infine si fonderanno insieme”, con esso Flaubert metteva in ridicolo la sovrana indifferenza della scienza nei confronti dei dati di fatto, di una scienza che si illu­ deva di poter sezionare e combinare entità umane come se fos­ sero state materia inerte. Non era però sulla scienza in genera­ le che si appuntava il sarcasmo del romanziere: il suo bersaglio era l’entusiasta, quasi messianica scienza europea, tra le cui vit­ torie si annoveravano rivoluzioni fallite, guerre, tirannidi, e un’in­ guaribile tendenza a mettere in pratica senza riflettere, con ze­ lo degno di un Don Chisciotte, idee grandiose e affatto libresche.

Ciò che a questa scienza sembrava sempre sfuggire erano la pro­ pria colpevole ingenuità, tanto inconsapevole quanto invetera­ ta, e la resistenza della realtà alle sue teorie. Quando si mette a giocare allo scienziato, Bouvard dà ingenuamente per scontato che esista la scienza, e che la realtà sia così come gli scienziati la descrivono, anche quando si tratta di imbecilli o di visionari; egli, e chiunque la pensi come lui, neppure concepisce che l’O­ riente possa non avere alcuna intenzione di rigenerare l’Euro­ pa, e che gli europei avrebbero molto da obiettare all’idea di "fon­ dersi” democraticamente con asiatici di pelle gialla o bruna. Uno scienziato del genere, insomma, non ravvisa nella propria scien­ za l’egoistica sete di potere che alimenta i suoi progetti e cor­ rompe le sue aspirazioni.

Flaubert, naturalmente, fa in modo che i due sprovveduti esca­ no doloranti dagli scontri con tali difficoltà. A poco a poco, Bou­ vard e Pécuchet imparano che è meglio non combattere nello stes­ so tempo sul fronte della realtà e su quello delle idee, e alla fine del romanzo appaiono paghi di limitarsi a trascrivere pedisse­ quamente dai libri le idee a loro care. La conoscenza non pre­ tende più di essere applicata al reale, ma si riduce a ciò che vie­ ne trasmesso da un testo all’altro tacitamente e senza commen­ to. Le idee circolano e si diffondono in modo anonimo, vengono ripetute ma non attribuite; sono diventate alla lettera idées regues: ciò che importa è che ci siano, e possano quindi essere ripetute, riecheggiate, assorbite acriticamente.

In forma oltremodo sintetica questo breve episodio, tratto da­ gli appunti di Flaubert per Bouvard et Pécuchet, delinea le strut­ ture specifiche deH'orientalismo moderno, che è, dopotutto, sol­ tanto una disciplina all’interno di quella sorta di fede secolariz­ zata e quasi religiosa che fu il pensiero europeo del secolo xix. Abbiamo già visto quali fossero i limiti e le caratteristiche gene­ rali del modo di vedere l’Oriente che fu proprio del Medioevo e del Rinascimento, e come l'Oriente si riducesse essenzialmente al mondo islamico. Nel corso del Settecento si verificò però una serie di mutamenti fra loro correlati, che preludevano al succes­ sivo momento fideistico, a suo tempo tratteggiato da Flaubert.

In primo luogo, l’Oriente cominciava a essere conosciuto ben al di là dei territori islamici. Questo mutamento quantitativo di­ pese in larga misura dalla sempre più intensa attività di esplora­ zione che hi condotta dagli europei nelle più diverse aree del glo­ bo. La crescente influenza della letteratura di viaggio, di quella utopistica dei resoconti scientifici, degli studi sulle tradizioni e i costumi di popoli lontani arricchirono e precisarono progressi­ vamente l’immagine dell’Oriente. Anche se 1’orientalismo è debi­ tore soprattutto nei confronti di Jones e Anquetil, per le loro frut­ tuose scoperte in Asia durante l’ultimo terzo del secolo, tali sco­

perte vanno inquadrate nel più ampio contesto costituito dalle relazioni di Cook e Bougainville, dai viaggi di Toumefort e di Adanson, dalla Histoire des navigations aux terres australes di Charles de Brosses, dall’attività dei mercanti francesi nel Pacifi­ co e dei missionari gesuiti in Cina e nelle Americhe, dalle esplo­ razioni e dai resoconti di viaggio di William Dampier, dalle in­ numerevoli congetture circa i giganti, gli abitanti della Patago­ nia, i selvaggi, gli indigeni e i mostri che si diceva risiedessero al­ l’estremo nord, sud e ovest rispetto all’Europa. Così significativi ampliamenti di orizzonte lasciarono comunque immutata la po­ sizione centrale dell’Europa, punto (o oggetto, come in The Citi­

zen of thè World di Goldsmith) di osservazione privilegiato. L’e­

spandersi del vecchio continente oltre i propri limiti, infatti, non intaccò, ma anzi rinsaldò, la sua fiducia nei postulati della pro­ pria cultura. La fondazione di colonie e il consolidamento della prospettiva eurocentrica furono opera non solo di grandi istitu­ zioni come le varie compagnie delle Indie, ma anche dei raccon­ ti di viaggio.4

In secondo luogo, un atteggiamento più comprensivo verso ciò che era estraneo ed esotico fu favorito non solo da viaggia­ tori ed esploratori, ma anche dagli storici, che sempre più si ren­ devano conto dell'utilità di confrontare il passato e il presente dell’Europa con quelli di altre, e spesso assai più antiche, civiltà. Così, nell’ambito di quella vigorosa corrente dell’antropologia storica settecentesca che gli studiosi definirono come il “con­ fronto fra gli dei”, Gibbon potè leggere gli insegnamenti della decadenza di Roma in relazione all’ascesa dell’islam, così come Vico potè comprendere i caratteri della civiltà moderna alla lu­ ce del barbaro, poetico splendore dei suoi primissimi inizi. Men­ tre gli storici del Rinascimento avevano ostinatamente conside­ rato l'Oriente come un nemico, quelli del secolo XVIII guardaro­ no alle sue peculiarità con un certo distacco; né mancarono i tentativi di far diretto ricorso a fonti documentarie orientali, for­ se perché tale metodo permetteva agli europei di conoscere me­ glio anche se stessi. La traduzione del Corano portata a termine da George Sale e la discussione preliminare che l’accompagna bene illustrano tale cambiamento. Diversamente dai suoi pre­ decessori, Sale tentò di ricostruire le vicende storiche arabe per mezzo di fonti arabe, e diede inoltre spazio ai commentatori mu­ sulmani del testo sacro dell’islam.5 In Sale, come negli altri au­ tori settecenteschi, il confronto dei testi rappresentava la fase iniziale delle discipline comparative (filologia, anatomia, giuri­ sprudenza, religione) che avrebbero costituito il vanto della me­ todologia ottocentesca.

Tra alcuni pensatori, tuttavia, si manifestò la tendenza ad an­ dare oltre l'impostazione comparativa, e le ordinate rassegne de­

gli usi e costumi dell’umanità "dalla Cina al Perù" che essa pro­ duceva, ricorrendo invece all’immedesimazione simpatetica. È questo un terzo elemento della mentalità settecentesca che aprì la strada all’orientalismo moderno. Quello che oggi chiamiamo “storicismo” fu un'idea del Settecento; Vico, Herder e Hamann, tra gli altri, ritenevano che tutte le culture possedessero un’or­ ganica coerenza interna, e fossero tenute unite da uno spirito, un "genio", un Klima, o un’idea nazionale che potevano essere colti soltanto per mezzo di un atto di immedesimazione storica. Così le Ideen zur Philosophie der Geschichte der Menschheit (1784- 1791) di Herder costituivano una visione panoramica di varie culture, compenetrate da spiriti creativi in reciproca competi­ zione, e accessibili solo all'osservatore che sapesse sacrificare al-

YEinfuhlung i propri pregiudizi. Permeato del senso populista e

pluralista della storia propugnato da Herder e altri,6 l’uomo set­ tecentesco poteva superare le barriere dottrinali innalzate tra l’Occidente e l’islam, e cogliere segreti elementi di affinità tra se stesso e il mondo orientale. Napoleone rappresenta un illustre esempio di una simile (e di solito selettiva) identificazione sim­ patetica. Un altro esempio è Mozart, che nel Flauto magico (la cui simbologia massonica è frammista a visioni di un Oriente benevolo), e nel Ratto dal serraglio colloca nel Levante un’uma­ nità singolarmente magnanima. Molto più della voga corrente della musica “alla turca”. Fu questa consentaneità a suscitare la simpatia di Mozart per l’Oriente.

E nondimeno assai difficile separare intuizioni come quelle di Mozart da tutta la gamma di rappresentazioni preromantiche e romantiche dell'Oriente come scenario esotico. L’orientalismo "popolare” conobbe infatti un notevole successo tra la fine del xviii e l'inizio del xix secolo. Quella moda, la cui influenza è fa­ cilmente riscontrabile in Beckford, Byron, Thomas Moore e Goethe, è però, a sua volta, diffìcile da separare dalla passione per le storie gotiche, gli idilli pseudomedievali, le visioni di bar­ barici splendori e crudeltà. Così, talvolta, la rappresentazione del­ l’Oriente può essere associata con le prigioni di Piranesi, talaltra con l’atmosfera sfarzosa dei dipinti di Tiepolo, o con il sublime esotismo di certi quadri di fine Settecento.7 Più tardi, nel corso del secolo xix, nelle opere di Delacroix e in quelle di decine di al­ tri pittori francesi e inglesi, i soggetti di carattere orientale di­ vennero un genere dotato di vita e identità proprie (su cui in que­ sta sede non abbiamo, purtroppo, il tempo di soffermarci). Sen­ sualità, promesse, terrori, sublimità, piaceri idilliaci, indomabi­ le energia: nell’Europa tardosettecentesca, l’Oriente come topos dell’immaginazione preromantica e pretecnologica era davvero una qualità camaleontica, definita dal campo semantico dell’ag­ gettivo “orientale".8 Ma questo Oriente dai contorni vaghi e in­

determinati avrebbe visto drasticamente ridurre i propri spazi con l'avvento dell’orientalismo accademico.

Un quarto fattore che spianò la via all’orientalismo moderno fu la tendenza generale a classificare i fatti naturali e umani rag­ gruppandoli in tipi. In tal senso i nomi più celebri sono natural­ mente quelli di Linneo e di Buffon, ma il procedimento intellet­ tuale attraverso cui la struttura corporea (e ben presto anche quel­ la morale, intellettuale e spirituale) di una cosa - la sua tipica so­ stanzialità, appunto - poteva essere trasformata da mero ogget­ to della vista a materia suscettibile di misurazioni rigorose, atte a stabilire le caratteristiche essenziali, era assai diffuso. Linneo sosteneva che ogni annotazione relativa a un tipo naturale "avreb­ be dovuto fondarsi sul numero, sulla forma, sulla porzione, sul­ la posizione”, e in effetti, se pensiamo a Kant, a Diderot o a John­ son, troviamo ovunque un’analoga tendenza ad accentuare i ca­ ratteri generali, per ridurre ampie classi di oggetti a un numero assai più ridotto di tipi ordinabili e descrivibili. Nella storia na­ turale, nell’antropologia, nelle generalizzazioni culturali, ciascun tipo aveva un particolare carattere da cui l’osservatore traeva spun­ to per designarlo e, come afferma Foucault, per classificarlo se­ condo "una derivazione controllata”. Questi tipi e caratteri ap­ partenevano a un sistema, a una rete di generalizzazioni inter­ connesse. Così

ogni designazione deve essere effettuata per mezzo di una relazio­ ne specifica con tutte le altre possibili designazioni. Conoscere ciò che propriamente appartiene a un individuo significa avere di fron­ te la classificazione di tutti gli altri, o almeno la possibilità di clas­ sificarli.9

Negli scritti di filosofi, storici, enciclopedisti e saggisti ve­ diamo come la designazione basata sul carattere si trasformi in criterio di classificazione fisiologico-morale: vi sono, per esem­ pio, i popoli selvaggi, gli europei, gli asiatici e così via. Li trovia­ mo, ovviamente, in Linneo, ma anche in Montesquieu, in John­ son, in Blumenbach, in Sòmmerring, in Kant. Le caratteristiche fisiologiche e morali sono più o meno equamente ripartite fra i vari tipi: l’americano è “rosso, collerico, eretto”, l’asiatico è "gial­ lo, malinconico, rigido”, l’africano è "nero, flemmatico, fiacco”.10 Simili definizioni acquistano però tutta la loro portata solo più tardi, nel corso del secolo XIX, quando viene a esse abbinata l’i­ dea del carattere come principio ereditario e come tipo genetico. In Vico e Rousseau, per esempio, la forza delle generalizzazioni morali è accresciuta dalla precisione con cui figure possenti e quasi archetipe - gli uomini primitivi, i giganti, gli eroi - vengo­ no poste all’origine di questioni attuali di natura morale, filoso­

fica, persino linguistica. Così quando ci si riferiva a un orienta­ le, lo si faceva mediante concetti universali di carattere genetico quali il suo stato "primitivo”, le sue caratteristiche primarie, il suo particolare retroterra spirituale.

I quattro fattori che ho descritto - espansione, confronti sto­ rici, atteggiamento simpatetico, tendenza classificatoria - sono le correnti del pensiero settecentesco dalle quali dipendono le strutture intellettuali e istituzionali che sono proprie dell’orien- talismo moderno. Senza di esse l’orientalismo, così come oggi lo

Nel documento Saggi Universale Economica Feltrinelli (pagine 100-132)

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