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C onrad , Heart of Darkness

Nel documento Saggi Universale Economica Feltrinelli (pagine 184-200)

Il 17 novembre, la più grande impresa di ingegneria di questo seco­ lo vedrà celebrato il proprio buon esito in una magnifica festa di

J. C onrad , Heart of Darkness

1. Orientalismo latente e orientalismo manifesto

Nel primo capitolo ho tentato di indicare l’ambito di pensie­ ro e di azione coperto dalla parola "orientalismo”, utilizzando co­ me esempi privilegiati le esperienze francesi e inglesi del Vicino Oriente, dell’islam e del mondo arabo; esperienze che rivelano, a mio avviso, un’intima relazione tra Oriente e Occidente. Esse so­ no solo un aspetto dell’ampia e durevole interazione tra Est e Ove­ st, ma rivelano come l’orientalismo sembri essere stato soprat­ tutto influenzato da un costante senso di sfida provato dagli oc­ cidentali che entravano in contatto con l’Est. La natura diadica, quasi di opposizione, della distinzione di Ovest ed Est; la proie­ zione di forze e debolezze, reali o immaginarie, cui diede appi­ glio; il tipo di caratteristiche attribuite all’Oriente: tutto ciò indi­ ca l’esistenza di una partizione voluta, immaginativa e geografi­ ca, tra Ovest ed Est, destinata a permanere per secoli. Nel se­ condo capitolo la prospettiva da me adottata è stata alquanto più specifica: ciò che mi interessava erano le origini di quello che ho chiamato “orientalismo moderno”, da ricercarsi negli ultimi de­ cenni del secolo scorso e nei primi di quello attuale. Poiché non intendevo fare del presente studio una cronaca dello sviluppo de­ gli studi orientali in Occidente, mi sono proposto di descrivere la

nascita, il consolidamento e l’istituzionalizzazione dell’orientali­ smo moderno nel contesto della situazione storica, politica, in­ tellettuale e culturale fin verso il 1870-1880. Sebbene mi sia in­ teressato, entro tale periodo, di un discreto numero di studiosi e scrittori, non posso sostenere in alcun modo di avere presentato più che un quadro delle strutture tipiche (e delle tendenze ideo­ logiche) nell’ambito della letteratura sull’Oriente, dei suoi rap­ porti con discipline limitrofe, dei contributi scientifici e artistici più importanti. I principali assunti operativi su cui ho basato la mia analisi sono la convinzione che i distretti del sapere, così co­ me il lavoro degli artisti - compresi i più eccentrici - vengano li­ mitati e modificati dall’ambiente sociale, dalle tradizioni cultu­ rali, da contingenze storiche e da fattori stabilizzanti come scuo­ le, biblioteche e istituzioni varie; l’idea che lo scrivere, sia in cam­ po scientifico che letterario, non sia un’attività libera, ma sia sog­ getta a forti limitazioni nel repertorio delle immagini, nelle pre­ messe e nelle intenzioni; e infine la convinzione che la forma­ zione di una “scienza" come quella orientalista obbedisca a leg­ gi assai meno imparziali di quanto ci piaccia pensare. In breve, ciò che sin qui ho cercato di descrivere è l'economia che fa del­ l’orientalismo un coerente argomento di studio, pur concedendo che come idea, concezione o immagine l'"Oriente” susciti negli occidentali risonanze culturali e psicologiche assai complesse e interessanti.

Mi rendo conto del fatto che questi assunti non sono privi di aspetti contestabili. Molti di noi pensano che la scienza e il sa­ pere tendano per lo più a progredire e migliorare col tempo, man mano che aumentano le informazioni, i metodi si affinano e nuo­ vi studi mettono a frutto studi precedenti. Inoltre coltiviamo la discutibile concezione del processo creativo secondo la quale un genio artistico, un talento originale, un’intelligenza fuori del co­ mune possono trarsi fuori come per magia dai confini dello spa­ zio e del tempo, e partorire un’opera "nuova”. Sarebbe sciocco negare che queste idee contengano una parte di verità; ma non si può dimenticare che le possibilità, per una mente acuta e ori­ ginale, di sottrarsi alle limitazioni e ai condizionamenti del­ l'ambiente culturale non sono assolutamente illimitate; del re­ sto un uomo di grande talento ha spesso una nobile propensio­ ne al rispetto per le opere di chi lo ha preceduto, e per i tesori custoditi in ogni cultura. Gli sforzi dei predecessori, le istitu­ zioni che circondano ogni campo di studio, la natura collettiva del sapere umano: tutto ciò, anche prescindendo dall’influsso dei processi economici e sociopolitici, tende a diminuire il peso dei contributi culturali del singolo studioso. Una disciplina co­ me l’orientalismo possiede un’identità cumulativa e corporati­ va, resa particolarmente solida dai rapporti con alcune delle più

tradizionali specializzazioni (l’antichità classica, l’esegesi bibli­ ca, la filologia), con varie istituzioni pubbliche (agenzie gover­ native, compagnie commerciali, università, società geografiche), con una vasta letteratura "di genere” (racconti di viaggi, reso­ conti di esplorazioni reali o immaginarie, libri di avventure e co­ sì via). Il risultato, per l’orientalismo, è stato una specie di con­ senso: un certo tipo di affermazioni, determinate impostazioni da dare a un’opera sono sembrate sin da principio corrette al­ l’orientalista. Su di esse egli ha basato le proprie ricerche e i pro­ pri lavori, e in definitiva ne è stato influenzato anche laddove credeva di allontanarsene. L’orientalismo può così essere visto come modo regolamentato (o orientalizzato) di scrivere, osser­ vare e studiare, dominato da imperativi, prospettive e inclina­ zioni ideologiche in apparenza costruiti a misura dell’Oriente. L’Oriente è pensato, studiato, amministrato e giudicato in mo­ do astratto.

L’Oriente presentato dall’orientalismo è quindi un sistema di rappresentazioni circoscritto da un insieme di forze che intro­ dussero l’Oriente nella cultura occidentale, poi nella consapevo­ lezza occidentale, e infine negli imperi coloniali occidentali. Se questa definizione dell'orientalismo sembrerà più politica di quanto dovrebbe, sarà semplicemente perché l’orientalismo stes­ so è il prodotto, più di quanto dovrebbe, di forze e attività di na­ tura politica. L’orientalismo è una scuola di interpretazione il cui oggetto è per caso l’Oriente, i suoi popoli, le sue civiltà, i suoi si­ ti geografici. Le effettive scoperte dell’orientalismo - frutto del­ l’impegno di innumerevoli devoti studiosi che hanno tradotto e curato testi, redatto grammatiche, compilato dizionari, rico­ struito epoche ormai trascorse, innalzato un edificio teorico ve­ rificabile - sono sempre state condizionate dal fatto che le sue verità, come tutte le verità trasmesse attraverso la lingua, solo in essa prendono consistenza; e che cos’è la lingua - osservò una volta Nietzsche - se non

un mobile esercito di metafore, metonimie, antropomorfismi, in breve una somma di relazioni umane che sono state potenziate poe­ ticamente e retoricamente, che sono state trasferite e abbellite, e che dopo un lungo uso sembrano a un popolo solide, canoniche e vincolanti: le verità sono illusioni di cui si è dimenticata la natura illusoria.1

Una tesi come quella di Nietzsche potrà forse apparire trop­ po negativa, ma ha il pregio di richiamare l’attenzione sul fatto che da quando r'Oriente” occupa un posto nella consapevolezza occidentale, il termine che lo designa ha funzionato come nucleo intorno al quale si sono cristallizzati e stratificati significati, as­

sociazioni e implicazioni, la cui ragione stava nel discorso intor­ no all'Oriente quanto e forse più che nella corrispondente realtà sociale e geografica.

L’orientalismo non è quindi soltanto una dottrina positiva pre­ sente in un certo momento in Occidente; è anche un’autorevole tradizione accademica (con i propri specialisti), nonché un’area di interessi delineata da viaggiatori, imprese commerciali, go­ verni, spedizioni militari, lettori di romanzi e racconti di avven­ ture, studiosi di scienze naturali e pellegrini, per i quali l’Orien­ te è un determinato tipo di conoscenza su determinati luoghi, po­ poli e civiltà. Una terminologia specifica per parlare dell’Oriente cominciò a diffondersi in Europa, portando con sé una dottrina sull’Oriente che derivava dalle esperienze di molti europei, espe­ rienze tutte focalizzate su quegli aspetti essenziali dell’Oriente che erano il carattere, il dispotismo, la sensualità. Per ogni eu­ ropeo che abbia vissuto nel secolo scorso - e penso di poterlo af­ fermare quasi senza riserve - l’orientalismo è il sistema di quel­ le verità, verità nel senso proposto da Nietzsche. È quindi natu­ rale che ogni europeo, nel suo modo di vedere l’Oriente, fosse di conseguenza razzista, imperialista e profondamente etnocentri­ co. Questo giudizio parrà meno immoderato ove si consideri che le società umane, per lo meno le culture più avanzate, ben di ra­ do hanno messo a disposizione del singolo altro che imperiali­ smo, razzismo e pregiudizi etnocentrici per confrontarsi con "al­ tre" culture. Così l’orientalismo aiutò, e fu aiutato da, varie for­ ze culturali che tendevano a rendere più nette le differenze tra Ovest ed Est. La mia tesi è che l’orientalismo sia fondamental­ mente una dottrina politica, imposta all’Oriente a causa della mi­ nor forza di quest’ultimo, e che dell’Oriente ha cancellato ciò che era irriducibile a quella minor forza.

Tale punto di vista è stato introdotto all'inizio del primo ca­ pitolo, e quasi tutto, nelle pagine successive, era in parte inteso come sua dimostrazione. La sola esistenza di una “disciplina” co­ me l’orientalismo, priva di un equivalente nelle culture orienta­ li, è l’indizio di una dissimmetria di forze tra Est e Ovest. L’enor­ me numero di pagine sull'Est prova che esiste una intensa inte­ razione; ma l’indicatore decisivo della forza dell’Occidente con­ siste nell’impossibilità di confrontare lo spostamento degli occi­ dentali verso est (soprattutto dalla fine del secolo XVIII in poi) con quello degli orientali nel senso contrario. Prescindendo dal fatto che armate, corpi ausiliari, spedizioni commerciali, scientifiche e archeologiche si mossero sempre da ovest a est, il numero di viaggiatori che dall’Oriente islamico vennero in Europa, tra l’Ot­ tocento e il primo Novecento, è trascurabile rispetto al numero dei viaggiatori nell’opposta direzione.2 Inoltre i viaggiatori orien­ tali si recavano in Occidente per imparare da una cultura che am­

miravano, mentre lo spirito con cui gli occidentali si recavano in Oriente era, come si è visto, profondamente diverso. Lo stesso si­ gnificato ha il fatto che tra il 1800 e il 1950 si siano scritti, in Oc­ cidente, qualcosa come sessantamila libri riguardanti il Vicino Oriente; nessuna cifra, a proposito degli scritti orientali sull’Oc­ cidente, è a questa paragonabile sia pure da lontano. Come ap­ parato culturale l’orientalismo è caratterizzato da uno spirito at­ tivo e aggressivo, portato alla valutazione critica e alla ricerca di informazioni e “verità”. L’Oriente esisteva in funzione dell’Occi­ dente, o così dev’essere parso agli innumerevoli orientalisti il cui atteggiamento verso ciò che studiavano fu paternalistico, o ca­ ratterizzato da un’ingenua condiscendenza - a meno che, natu­ ralmente, si occupassero di storia antica, nel qual caso l’Oriente "classico" era un’eredità destinata a loro, non al decaduto Orien­ te contemporaneo. E poi, cerano le numerose agenzie e istitu­ zioni che finanziavano le ricerche e le pubblicazioni degli stu­ diosi occidentali. Niente di tutto ciò esisteva in Oriente.

Un simile squilibrio tra Est e Ovest era ovviamente il risulta­ to di configurazioni storiche in mutamento. Durante la sua età dell’oro politica e militare, dal secolo VIII al XVI, l’islam esercitò un’influenza preponderante a Ovest come a Est. Poi il baricentro della storia scivolò verso ovest e ora, alla fine del secolo xx, sem­ bra spostarsi nuovamente verso l’Oriente. La mia descrizione del- l’orientalismo ottocentesco nel secondo capitolo si era interrotta in corrispondenza di quel periodo particolarmente significativo alla fine del secolo, in cui gli aspetti spesso dilatori, astratti e proiettivi dell’orientalismo stavano per acquistare un nuovo sen­ so di missione mondiale, al servizio di un esplicito colonialismo. Tale momento e tale progetto desidero ora descrivere, soprattut­ to perché potrà fornirci alcune utilissime premesse per com­ prendere la crisi attuale dell’orientalismo, e il risorgere di ener­ gie politiche e culturali nell’Est.

In alcune occasioni ho alluso ai nessi tra l’orientalismo, co­ me insieme di idee, convinzioni, cliché e nozioni intorno all’Est, e altre correnti di pensiero. Ora, uno degli sviluppi importanti nell’orientalismo del secolo scorso consistette nell’organizzare una serie di concetti essenziali intorno all’Oriente - la sensualità, la tendenza al dispotismo, uno stile di pensiero sempre impreci­ so e spesso illogico, il rifiuto del progresso - in una struttura coe­ rente e autosufficiente. Da quel momento, per uno scrittore, era sufficiente l’uso del termine orientale per indicare al lettore uno specifico insieme di informazioni; tali informazioni sembravano moralmente neutrali e obiettivamente valide, sembravano pos­ sedere uno status epistemologico eguale a quello della cronolo­ gia storica o dei dati geografici. Nei loro aspetti fondamentali, le nozioni orientaliste non avrebbero potuto venire sovvertite dalle

scoperte di qualche ricercatore, né sembrava probabile la neces­ sità di una significativa revisione. Se mai, i contributi dei molti ricercatori e scrittori del secolo xix resero più chiaro, più detta­ gliato, più convincente - e più distante da un possibile “occiden­ talismo” - quell’insieme di nozioni basilari. L’orientalismo pote­ va però allearsi con teorie filosofiche generali (come per esem­ pio quelle riguardanti la storia delle civiltà o dell’intero genere umano) e con visioni del mondo accreditate; e per la verità non pochi orientalisti si preoccupavano di formulare le loro ipotesi e scoperte in un linguaggio cui altre scienze e sistemi di pensiero avessero garantito validità culturale.

La distinzione che sto introducendo è in effetti tra un quasi inconsapevole (e certamente intoccabile) assolutismo teorico, che chiamerò “orientalismo latente”, e l’insieme delle cognizioni e ipotesi esplicitamente comunicate sulla società, le lingue, la let­ teratura e ogni altro aspetto della vita in Oriente, che chiamerò "orientalismo manifesto”. Orbene, mutamenti nel pensiero in­ torno all’Oriente si riscontrano quasi esclusivamente nell’orien- talismo manifesto-, unanimità, stabilità e durata dell’orientalismo

latente sono invece pressoché costanti. Tra gli scrittori del seco­

lo xix da me analizzati nel secondo capitolo, ci sono differenze nel modo di pensare l’Oriente soltanto al livello manifesto, sono differenze di forma e di stile personale, diversità nei presupposti di base sono assai rare. In tutti si ritrova la concezione di un Oriente separato dall’Occidente, e caratterizzato da stranezza, ar­ retratezza, silenziosa indifferenza e femminea acquiescenza, pas­ siva malleabilità; è per questo che quanti hanno scritto dell’O­ riente, da Renan a Marx (autori tendenzialmente ideologici), dai più scrupolosi ricercatori (de Sacy e Lane) alle menti più imma­ ginative (Flaubert e Nerval), hanno ritenuto che l’Est avesse bi­ sogno dell’attenzione dell’Occidente, e dei suoi sforzi di rico­ struzione, e persino di redenzione. L’Oriente si trovava in una po­ sizione decentrata rispetto alla grande corrente del progresso eu­ ropeo nelle scienze, nelle arti e nelle attività economiche. Così, qualsiasi valore, positivo o negativo, venisse attribuito all’Orien­ te, sembrava dipendere da qualche particolare interesse occi­ dentale. Questa fu la situazione dagli anni settanta del secolo scor­ so sino all inizio del secolo xx addurrò ora alcuni esempi per il­ lustrarla meglio.

La tesi secondo cui l’Oriente è arretrato, decadente e sostan­ zialmente diverso dall’Occidente si accompagnava per lo più, nei primi decenni del secolo scorso, con le ipotesi su presunte basi biologiche dell’ineguaglianza delle razze umane. Così le classifi­ cazioni razziali che si trovano nel Règne animai di Cuvier, nel­ l’Essai sur l’inégalité des races humaines di Gobineau, e in The Ra-

partner potenzialmente ben disposto. A queste ipotesi diede man forte un darwinismo di second'ordine, che riteneva di poter con­ ferire spessore “scientifico” alla classificazione delle razze come progredite oppure arretrate, ovvero europee-ariane oppure orien- tali-africane. Così la disputa tra chi era a favore e chi contrario all’imperialismo, molto viva verso la fine del secolo xix, finì per ribadire la tipologia dicotomica di razze, culture e società avan­ zate e arretrate (o sottoposte). Nel Chapters on thè Prìnciples of

International Law (1894) John Westlake sostiene, per esempio,

che le regioni della Terra designate come “non civilizzate” (ter­ mine in cui, tra l'altro, risuonano echi di concezioni orientaliste) dovrebbero venire occupate dalle nazioni progredite. In modo analogo, gli scritti di autori quali Cari Peters, Leopold de Saus­ sure e Charles Tempie si ispiravano al dualismo tra progresso e arretratezza3 che l'orientalismo ottocentesco tanto sovente chia­ mava,in causa.

Insieme ad altri popoli variamente definiti “arretrati", “deca­ duti”, "non civilizzati” o "in ritardo”, gli orientali furono collo­ cati in un contesto fatto di supposti determinismi biologici e am­ monimenti eticopolitici. Essi si trovarono inoltre idealmente in compagnia di membri delle società occidentali (criminali, psico­ patici, donne, poveri) aventi in comune, in grado più o meno ac­ centuato, personalità devianti e relativamente improduttive. Di rado gli orientali erano osservati; piuttosto, venivano analizzati e giudicati, non tanto come cittadini, e neppure come popoli, ma come problemi da risolvere, o circoscrivere, o - quando i terri­ tori che abitavano piacevano a qualche potenza occidentale - con­ trollare in modo repressivo. Il fatto è che la mera definizione di qualcosa come "orientale” già equivaleva a una valutazione ne­ gativa e, in particolare nel caso dei popoli appartenenti al deca­ dente Impero ottomano, a un preciso programma di azione. Dal momento che apparteneva a una razza sottoposta, era giusto che un orientale si sottomettesse, o fosse sottomesso: tanto semplice era l’idea. Il locus classicus di questa prospettiva è da cercarsi nel­ le Lois psychologiqu.es de l'évolution des peuples (1894) di Gusta­ ve Le Bon.

Ma vi è un altro aspetto dell'orientalismo latente. Oltre a ope­ rare una separazione tra gli orientali e i popoli considerati pro­ grediti, civili e potenti, e a trascurare completamente l’Oriente moderno in virtù del suo interesse per l’Oriente “classico , l' o- rientalismo latente incoraggiò una visione del mondo peculiar­ mente (per non dire sgradevolmente) maschile. Ho già accenna­ to al fenomeno a proposito di Renan. Il maschio orientale era esaminato prescindendo dall’insieme della comunità in cui vive­ va e cui molti orientalisti, sulle orme di Lane, guardavano con uno stato d’animo apparentemente sospeso tra il disprezzo e il

egli considerava il rifiuto inspiegabilmente testardo dell’idea di incarnazione. Le palesi differenze di metodo si rivelano in fondo meno importanti del consenso latente intorno alla presunta com­ plessiva inferiorità dell’islam.6

Lo studio di Waardenburg ha inoltre il merito di mostrare che i cinque studiosi appartenevano a una comune tradizione intel­ lettuale e metodologica di portata intemazionale. Sin dal primo congresso orientalista nel 1873, gli studiosi di tale materia co­ minciarono a tenersi in contatto e a informarsi dei rispettivi con­ tributi. Ciò che Waardenburg non sottolinea forse abbastanza è che i legami politici furono tra loro quasi altrettanto stretti. Snouck Hurgronje passò direttamente dagli studi islamici al ruo­ lo di consigliere del governo olandese per le colonie islamiche d’Indonesia; Macdonald e Massignon erano assai richiesti come esperti di questioni islamiche dagli amministratori coloniali, in Africa settentrionale e in Pakistan; e come riferisce lo stesso Waar­ denburg (un po’ troppo succintamente), i cinque studiosi diede­ ro forma a una coerente visione dell’islam, che esercitò una gran­ de influenza negli ambienti di governo di tutta l’Europa occi­ dentale.7 Ciò che vogliamo aggiungere all’osservazione di Waar­ denburg è che quegli studiosi stavano completando, portando a un ultimo, concreto perfezionamento, la tendenza, già presente nel xvI e xvii

secolo, a considerare l’Oriente non solo come astrat­

to problema letterario ma - come nota Masson-Oursel - anche con “un serio proposito di comprendere adeguatamente il valo­ re delle lingue per approfondire la conoscenza dei costumi e del­ le tradizioni di pensiero, e decifrare così i segreti della storia’’.8

Ho parlato in precedenza di incorporazione e assimilazione dell’Oriente, tendenze presenti in autori così diversi tra loro co­ me Dante e d’Herbelot. È chiaro che vi sono differenze tra quel­ le tendenze e quello che, alla fine del secolo xix, era ormai di­ ventato un formidabile attacco, condotto dagli europei sul piano culturale, politico e materiale. Ovviamente, la "gara per l’Africa” che si combattè durante il secolo scorso per colonizzare tale con­ tinente non fu affatto limitata all’Africa; né la penetrazione in Oriente fu l’effetto di una decisione improvvisa e drammatica, as­ sunta dopo anni di studio scientifico dell’Asia. Ciò che di fatto si verificò fu un lungo, lento processo di appropriazione attraver­ so il quale l’idea europea dell’Oriente si trasformò da atteggia­

Nel documento Saggi Universale Economica Feltrinelli (pagine 184-200)

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