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Fattore V Leiden mutato Protrombina G20210A mutato

ANALISI DELLA RICORRENZA DI EVENT

Successivamente, in base ai dati clinici ed anamnestici, abbiamo suddiviso la popolazione dei pazienti in due gruppi in base al numero di eventi ischemici precedenti al reclutamento.

In questo modo abbiamo selezionato 193 pazienti che avevano manifestato un solo evento ischemico cerebrale prima della chiusura del forame ovale pervio, e 27 pazienti che avevano avuto più di un evento.

Come possiamo osservare nella tabella 7, i due gruppi di pazienti sono paragonabili per quanto riguarda l’età e la presenza dei principali fattori di rischio per malattie cardiovascolari.

Tabella 7. Principali fattori di rischio cardiovascolari nei due gruppi di pazienti. 1 evento (n=193) >1 evento (n=27) χ2 P Età(anni), media±DS 44.9±11.7 46.2±14.0 0.6 Sesso (maschi) n(%) 89 (46.1) 13 (48.1) 0.04 0.8 Fumo n(%) 38 (19.7) 3 (11.1) 1.3 0.3 Diabete n(%) 6 (3.1) 2 (7.4) 1.2 0.3 Dislipidemia n(%) 21 (10.9) 4 (14.8) 0.3 0.6 Ipertensione n(%) 35 (18.1) 5 (18.5) 0 0.97

più di un evento ischemico rispetto a quelli che ne hanno manifestato solo uno (18.5% vs 7.2%; χ2=3.8, p=0.05) (tabella 8)

Tabella 8. ricorrenza di eventi e varianti protrombotiche. 1 evento (n=193) >1 evento (n=27) χ2 p FV Leiden 3 (1.5%) 1 (3.7%) 0.6 0.4 PT 20210 11 (5.7%) 4 (14.8%) 3.1 0.08 MTHFR 677TT 49 (25.4%) 10 (37.0%) 1.6 0.2 FV Leiden o PT 20210A 14 (7.2%) 5 (18.5%) 3.8 0.05 FV Leiden o PT 20210A o MTHFR 677TT 62 (32.1%) 13 (48.1%) 2.7 0.09

DISCUSSIONE

Nella nostra popolazione di studio, abbiamo osservato come la frequenza di mutazioni protrombotiche sia relativamente elevata in pazienti con forame ovale pervio ed eventi cerebrovascolari ischemici avvenuti in età giovanile. In particolare, i risultati del presente studio dimostrano come la presenza della variante di Leiden del fattore V o della protrombina G20210A determini, in questi pazienti, un aumento di 3.4 volte del rischio ischemico.

Al contrario, la presenza della variante C677T della MTHFR non sembra essere direttamente associata con un aumento del rischio di andare incontro ad ischemia cerebrale nei pazienti con FOP.

In questi anni, numerose evidenze scientifiche hanno mostrato come il forame ovale pervio possa essere coinvolto nell’eziologia di eventi cerebrovascolari ischemici (Di Tullio et al. 1992, Mas 1994, Chant e McCollum 2001). Infatti, la presenza di FOP è stata associata ad una maggiore incidenza di ictus ed attacchi ischemici transitori, presumibilmente di origine embolica, soprattutto in soggetti giovani ed in mancanza di fattori di rischio concomitanti (Lechat et al. 1988, Wu et al. 2004, Hara 2005).

Circa il 40% degli ictus ischemici, infatti, sono considerati criptogenici, ovvero senza una causa apparente certa (Wu et al. 2004, Hara 2005). In questi pazienti, uno stato di ipercoagulabilità dovuto a trombofilia ereditaria potrebbe aumentare il rischio di episodi ischemici cerebrali, soprattutto in presenza di una sorgente trombogenica importante quale un forame ovale pervio.

Recentemente, alcuni studi hanno confermato il ruolo di mutazioni protrombotiche, riconosciuti fattori di rischio tromboembolico, nell’insorgenza di episodi ischemici in pazienti con FOP, suggerendo l’embolia paradossa come possibile meccanismo causale sottostante (Karttunen et al. 2003, Lichy et al. 2003, Pezzini et al. 2003, Belvis et al. 2006, Botto et al. 2007, Offelli et al. 2007) (tabella 9). In particolare, la presenza della variante 20210A della protrombina ed, in misura minore, la variante di Leiden del fattore V, sono associati ad un rischio 3-4 volte maggiore di episodi ischemici, come confermato nel presente studio su una casistica di popolazione molto ampia.

Tabella 9. Mutazioni protrombotiche e rischio di eventi cerebrovascolari in pazienti FOP: studi condotti.

Referenza

Mutazioni

OR

95% CI

Karttunen et al. 2003 FV Leiden 7.77 0.85-71.30 PT 20210A 9.41 0.44-199.54 FV Leiden o PT 20210A 2.8 1.2-6.5

Lichy et al. 2003 FV Leiden 1.02 0.50-2.08 PT 20210A 3.76 1.29-10.96 FV Leiden o PT 20210A 1.58 0.88-2.83

Pezzini et al. 2003 FV Leiden 3.60 0.92-14.16 PT 20210A 6.08 1.30-28.52 FV Leiden o PT 20210A 4.25 1.43-12.66

Belvis et al. 2006 FV Leiden 0.64 0.03-11.76 PT 20210A 3.87 0.69-21.68 FV Leiden o PT 20210A 1.68 0.34-8.33

Botto et al. 2007 FV Leiden 3.35 0.03-37.41 PT 20210A 4.70 1.22-18.18 FV Leiden o PT 20210A 4.48 1.37-14.72

Offelli et al. 2007 FV Leiden 0.49 0.04-5.56 PT 20210A 0.49 0.04-5.56 FV Leiden o PT 20210A 0.49 0.09-2.74

Le evidenze qui presentate mettono in luce come una condizione di ipercoagulabilità, dovuta a fattori ereditati geneticamente, sia importante da identificare nei pazienti con FOP per poter individuare coloro che sono a maggior rischio per embolia paradossa.

annuo di avere una recidiva di ischemia cerebrale transitoria (TIA) è dell’1.2%, e del 3.4% di avere una recidiva di ictus cerebrale (Mas e Zuber 1995).

Nel presente studio, la presenza di almeno una mutazione protrombotica, FVL o PT 20210A, era associata ad un rischio superiore a 3 di andare incontro a recidive, senza un adeguato supporto terapeutico.

Ad oggi, infatti, non vi è ancora consenso sulla strategia di trattamento ottimale, terapia farmacologica o intervento di chiusura, da adottare nei pazienti con FOP (Ranoux et al. 1993, Meissner et al. 2006, Mareedu et al. 2007, Onorato et al. 2008).

La terapia farmacologica prevede l’assunzione di anticoagulanti orali o di antiaggreganti piastrinici, ma ancora non vi è un consenso su quale sia il trattamento farmacologico più efficace o per quanto tempo esso debba essere protratto. Inoltre, l’utilizzo di farmaci, pur prevenendo la formazione di coaguli, non elimina il difetto cardiaco e, quindi la possibile fonte trombogenica; inoltre, costringe i pazienti a modificare alcune abitudini di vita che possono aumentare il rischio di emorragia.

L’intervento di chiusura prevede l’utilizzo di un catetere il quale, inserito in un vaso sanguigno attraverso una piccola incisione, viene fatto avanzare fino a

raggiungere il cuore e attraverso di esso viene introdotto un dispositivo permanente in grado di chiudere il difetto cardiaco.

L’assenza di trials randomizzati che mettano a confronto la terapia medica con l’intervento di chiusura per via percutanea porta alla mancanza di linee guida precise da seguire.

L’American College of Cardiology, l’American Heart Association e l’American Society of Echocardiography non danno raccomandazioni in proposito, mentre

l’American College of Neurology sostiene che non vi sono prove sufficienti per valutare l’efficacia della chiusura del FOP (Mareedu et al. 2007, Pinto Slottow et al. 2007, Balbi et al. 2008, Onorato et al. 2008).

In questo contesto, l’impiego di uno screening genetico in grado di identificare soggetti ad alto rischio di eventi tromboembolici può essere importante per ottimizzare la scelta delle opzioni terapeutiche da parte del medico.

Infatti, difetti ereditari trombofilici possono, ad esempio, influire sui rischi potenziali dell’intervento di chiusura per via percutanea e ridurne i potenziali benefici (Giardini et al. 2004, Wu et al. 2004).

Allo stesso modo, pazienti portatori di tali mutazioni che abbiano avuto un precedente evento ischemico, soprattutto in giovane età, sono probabilmente ad

cardiaco, senza un opportuno trattamento terapeutico mirato, diminuendo i benefici attesi di tale intervento.

Sicuramente, quindi, la possibilità di eseguire uno screening per mutazioni protrombotiche potrebbe avere sicuri vantaggi in termini di rapporto costo- beneficio, migliorando la stratificazione del rischio in pazienti con FOP ed ottimizzando la profilassi secondaria allo scopo di ridurre la probabilità di eventi ricorrenti e di indirizzare il medico alla decisione terapeutica più adeguata a ciascun paziente.

CONCLUSIONI

È certo che nei prossimi anni la pratica clinica d’ogni giorno sarà sempre maggiormente influenzata dalle scoperte della genetica.

Tuttavia, un atteggiamento responsabile induce a limitare l’impiego della genetica molecolare nella pratica clinica a sottogruppi di pazienti in cui esista un forte rischio di eventi trombotici e l’applicazione del test diagnostico possa migliorare la diagnosi e le scelte terapeutiche.

Infatti, malgrado non vi sia alcun dubbio sulla possibilità che lo screening genetico troverà una larga applicazione nella pratica clinica contribuendo ad aumentare la prevenzione e l’approccio terapeutico di molte malattie multifattoriali, è opportuno procedere con cautela alla sua applicazione nella popolazione generale ed evitare il rischio di una “chiromanzia genetica” senza valore clinico.

Bisogna ricordare che uno degli aspetti più complessi della genetica delle malattie multifattoriali è rappresentato dal fatto che esse sono il risultato dell’interazione tra fattori genetici, spesso multipli, e fattori ambientali e non sono trasmesse

suscettibilità che conferiscono al paziente una certa vulnerabilità nei confronti di queste patologie e, quindi, rappresentano fattori di rischio quantificabili in termini di probabilità di ammalarsi.

La distribuzione combinata dei fattori genetici e la loro interazione con fattori ambientali nelle persone e nelle popolazioni diverse determina la variabilità del rischio di malattia. Soltanto la capacità del medico di comprendere appieno le implicazioni dei test genetici e di interpretarne i risultati nel quadro clinico complessivo consentirà di fornire al paziente informazioni adeguate, giocando un ruolo fondamentale per un corretto uso di questi nuovi strumenti

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