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antico feticcio o baluardo irrinunciabile?» (seminario 2014)

tivi contenuti che si snoda lungo un crinale stretto, sempre in bilico tra aporie, distorsioni e travisamenti.

È noto che intorno al concetto di rappresentanza (e di mandato) si intrecciano molteplici linee di pensiero con esiti ricostruttivi assai diffe- renziati. Quando applicata in ambito politico, la nozione di rappresen- tanza, specie in alcune sue sfaccettature, si presta particolarmente ad un approccio ricostruttivo diacronico e sincronico. Essa infatti costituisce un autentico trait-d’union tra il costituzionalismo pre-moderno e quello dei “moderni”.

L’architettura costituzionale liberale, prima, e quella democratico-plu- ralista, poi, si fondano sul presupposto della rappresentanza politica li- bera da vincoli in quanto posta in essere in relazione a un soggetto col- lettivo (la nazione, il popolo). Rappresentanza (politica) chiamata ad espri- mere la volonté général (in senso rousseauiano) in connessione con l’i- dea della sovranità “una e indivisibile”.

La prima positivizzazione costituzionale del divieto di mandato im- perativo recata dalla Costituzione francese del 1791 – «Les représentants nommés dans les départements, ne seront pas représentants d’un dépar- tement particulier, mais de la Nation entière, et il ne pourra leur être donné aucun mandat» (art. 7, sez. III, c. I, tit. III) – trova una signifi- cativa anticipazione nella teorizzazione di Edmund Burke – consegnata al suo celeberrimo Speech to the Electors of Bristol, tenuto il 3 novem- bre 1774 – a difesa dell’idea degli eletti impegnati, senza vincoli, alla cura di interessi generali («Parliament is not a congress of ambassadors from different and hostile interests; which interests each must maintain, as an agent and advocate, against other agents and advocates; but parliament is a deliberative assembly of one nation, with one interest, that of the whole; where, not local purposes, not local prejudices, ought to guide, but the general good, resulting from the general reason of the whole»).

Nello stesso contesto francese, per l’immediato precedente della di- sposizione costituzionale del 1791 si può risalire all’epoca degli Stati Ge- nerali, e più precisamente al periodo immediatamente successivo al 9 lu- glio 1789, data della proclamazione di questi in Assemblea Nazionale Costituente. È in quei giorni che, come nota G.G. Floridia, «a questa trasformazione funzionale degli Stati Generali faceva riscontro … il com- pimento della loro trasformazione sul piano istituzionale. In coerente sviluppo della Déclaration del 17 giugno, i deputati recisero infatti l’ul- timo legame che – sebbene ormai superato dai fatti – formalmente an- cora li legava alle logiche pre-parlamentari dell’Ancien Régime: quello cioè del valore vincolante (o, come si usa dire, “imperativo”) dei man- dati ricevuti dai rispettivi elettori» (La Costituzione dei moderni, Torino 1991, p. 118 s.). Fu appunto «nel quadro del significato del tutto nuovo assunto dall’assemblea di Versailles quale rappresentanza unitaria dell’in-

Romano Orrù

tera nazione, che i deputati ruppero quest’ultimo legame con le logiche istituzionali dell’Ancien Régime. Peraltro, diversamente da quanto in ge- nere si ripete, la decisione assunta in tal senso sembra dovuta ad esi- genze non dichiarative e di principio, ma pratiche e tecnico-giuridiche. Se si vuole, infatti, l’idea “privatistica” di uno specifico vincolo procu- ratorio tra ciascun eletto ed il gruppo da lui rappresentato risultava già chiaramente superata dalla Déclaration del 17 giugno sia per la funzione ascritta all’assemblea, “di interpretare e presentare la volontà generale della nazione” (e non appunto la somma delle volontà particolari dei vari gruppi sociali e geografici di elettori), sia per il valore attribuito alla circostanza “quantitativa” per cui i deputati presenti e verificati rappre- sentavano ormai il novantasei per cento della nazione» (G.G. Floridia,

La Costituzione dei moderni, cit., p. 119 s.)

A tal proposito, G.G. Floridia osserva ancora che «[i]l carattere uni- tario e totalizzante di una rappresentanza “nazionale” … comportava dunque già di per sé che i suoi membri avessero la libertà di movimento necessaria per elaborare quelle soluzioni di sintesi che, ottenendo il con- senso della maggioranza dei deputati, potessero valere come “volonté

général”» (La Costituzione dei moderni, cit., p. 120).

Con l’avvento dello Stato liberale, dunque, la rappresentanza trasmi- gra dal campo privatistico a quello politico o pubblicistico, mutando lo schema relazionale che ne è alla base da tripolare a bipolare: nella rap- presentanza politica tutto fluisce tra rappresentante e rappresentato, man- cando il terzo soggetto dinnanzi al quale il rappresentante (nell’architet- tura politica pre-moderna) era tenuto (con vincolo) a far valere la vo- lontà del rappresentato (illuminante a tal proposito è l’esperienza inglese dei c.dd. pre-parlamenti – nel linguaggio di A. Marongiu, Parlamento

(storia), in Enc. dir., XXXI, 1981, p. 724 ss. – alla luce delle clausole 12

e 14 della Magna Charta del 1215).

Siffatta evoluzione è del tutto in linea sia con l’impostazione nuova della sovranità una e indivisibile sia con la necessità mediante il man- dato rappresentativo di curare interessi collettivi in un contesto nel quale domina il rapporto individuo-autorità senza la mediazione di corpi so- ciali intermedi (in primis i partiti politici).

In sostanza, la rappresentanza politica, libera da condizionamenti, è l’espressione della fine dell’epoca della “Costituzione mista” (nella quale convivono diverse legittimazioni) e l’avvio di una stagione nuova dell’e- sperienza giuridica, quella “liberale”.

L’analisi storico-comparativa mostra per tanto una particolare utilità al fine di mettere a fuoco i punti di attrito, in un contesto democratico- pluralistico, tra la logica del “libero mandato parlamentare” e le condi- zioni di coerenza interna dello “Stato di partiti”.

La riflessione sul vincolo del mandato diventa un’occasione per av-

vicinarsi al cuore (alla quintessenza) del costituzionalismo, vale a dire per porre adeguatamente in risalto le garanzie sistemiche e personali (inge- gneria e cultura) di cui si nutre il costituzionalismo liberaldemocratico quale tecnica di garanzia delle libertà attraverso la limitazione giuridica del potere.

Nella cornice del seminario, lo strumento d’indagine, atteso l’amplis- simo ambito speculativo coinvolto, deve limitarsi a forme di approfon- dimento di particolari esperienze storicamente date nel panorama com- parato. Per dirla in breve, con linguaggio espressivo, il contesto che pre- siede al seminario impone di privilegiare un approccio che si avvale di una sorta di “carotaggi” storico-comparatistici.

La questione dell’inammissibilità di istruzioni vincolanti per i rap- presentanti (il divieto di mandato imperativo) si colloca ormai da tempo sullo sfondo della presenza di un duplice legame degli eletti: con il po- polo e con i partiti.

Le cospicue dimensioni di recente assunte nel nostro ordinamento dal ricorrente fenomeno del c.d. trasformismo o transfughismo parla- mentare conferiscono particolarmente rilievo al tema del vincolo tra eletto e partiti (che sono strumenti della sovranità popolare). In altri e più di- retti termini, ricorrente è l’interrogativo se il negare l’opportunità del- l’esistenza di un qualsiasi vincolo tra eletti e partiti non finisca per vul- nerare, anziché rafforzare, il principio della sovranità popolare. La de- strutturazione della responsabilità degli eletti nei confronti degli elettori consentita da un’incontrastata mobilità parlamentare, in un contesto in cui i partiti hanno smarrito molto del loro spessore ideologico e persa molta della loro consistenza organizzativa tipici dei primi decenni suc- cessivi alla secondo conflitto mondiale, sembra essere elemento decisivo nel favorire la trasformazione delle élites politiche in oligarchie.

L’interrogativo che periodicamente ritorna è se nella cornice del Par-

teienstaat (pur se oggigiorno colto in declinazioni fattuali diverse da

quelle presenti all’elaborazione concettuale di G. Leibholz, nel 1929) sia ammissibile l’esistenza di un vincolo tra eletto e partito tale per cui la conservazione del mandato parlamentare risulti in funzione del per- durare dell’affiliazione nel partito all’interno del quale è avvenuta l’ele- zione.

In non pochi ordinamenti si è aperto il dibattito intorno alle misure atte a contenere il c.d. floor-crossing, e in alcuni sono state in effetti ac- colte. Misure di anti-defezione partitica tra gli eletti si ravvisano, tra gli altri, nei sistemi costituzionali del Sudafrica, dell’India e del Brasile.

La crisi della rappresentanza in connessione con il fenomeno della personalizzazione della politica e sulla scorta dell’imporsi di nuovi pa- radigmi culturali e valoriali offre anche in Europa alimento al dibattito sull’opportunità di introdurre forme di rapporti più o meno vincolanti

Romano Orrù

(come del resto già sperimentato nell’esperienza portoghese) nella catena elettori-partiti-eletti.

Sull’eventuale opzione in favore della consacrazione costituzionale di meccanismi di decadenza dal mandato per i parlamentari infedeli al par- tito cui devono l’elezione incidono molteplici fattori e presupposti, tra i quali vanno annoverati certamente l’assetto del sistema partitico, la ro- bustezza delle condizioni di democraticità del sistema politico (con evi- denti differenze al riguardo tra old democracies e Paesi new comers nel novero delle liberaldemocrazie), la formula elettorale in senso lato. Quanto all’ultimo aspetto la questione in particolare sembra divenire acuta in presenza di formule a forte propensione proporzionale imperniate sul si- stema delle c.dd. liste bloccate. Di certo, il tema di un eventuale man- dato (imperativo) di partito sembra invocare l’assoluta necessità della ga- ranzia, anch’essa positivamente fissata, della democraticità dell’organiz- zazione e dei processi decisionali nei partiti.

Valentina Corneli*

LO STATO DELL’ARTE DEL DIBATTITO SULLA ANTI-DEFECTION CLAUSE IN CANADA,

AUSTRALIA, NUOVA ZELANDA E ITALIA

Sommario: 1. Introduzione. – 2. Canada. – 3. Australia e Nuova Zelanda. – 4. Italia. – 5. Conclusioni.

1. – La crisi del sistema partitico e delle istituzioni democratiche che si è registrata in diversi Stati, si manifesta, tra l’altro, attraverso un fe- nomeno denominato, a seconda del contesto geografico di riferimento,

crossing the floor, party jumping o waka jumping. A prescindere dalle

più o meno bizzarre denominazioni che gli vengono affibbiate, il feno- meno è lo stesso, il c.d. “transfughismo” del parlamentare che nel corso della legislatura abbandona il partito nelle cui fila era stato eletto per passare ad altro partito, o rendersi indipendente, continuando a svolgere il proprio ruolo istituzionale, ovvero, nella sua dimensione minima, l’at- titudine del parlamentare a votare in maniera divergente rispetto a quella che è la linea del partito di appartenenza1.

In particolare, in alcuni Paesi, tale fenomeno è stato considerato come una delle principali cause dell’instabilità del sistema istituzionale, tanto da decidere di provvedere in via legislativa, talvolta a livello costituzio- nale, con leggi anti-defection, meccanismi normativi volti a contrastarlo. Attualmente più di 40 Paesi (4 monarchie costituzionali, 28 repubbli- che con Presidente eletto direttamente e 8 con Presidente eletto indiretta- mente), per lo più semi-democrazie, giovani democrazie ed ex colonie del

Commonwealth, hanno nel loro ordinamento leggi che prevedono mec-

canismi “punitivi” a carico del parlamentare che “tradisce” il partito2.

*Dottoranda di ricerca in Processi di armonizzazione del diritto tra storia e sistema presso l’Università di Teramo.

1Per approfondire sul punto v. K. Janda, Laws against party Switching, Defecting,

or Floor Crossing in National Parliaments, in The Legal Regulation of Political Parties, Working Paper 2, 2009.

2Per approfondimenti v. C. Nikolenyl, Constitutional Sources of Party Cohesion:

Gli obiettivi delle norme anti-defection sono: evitare che i partiti più forti perdano il controllo del governo attraendo i membri dei partiti mi- nori con incentivi finanziari o di altra natura; ridurre la frammentazione partitica evitando che i parlamentari che si distaccano dal partito ne fon- dino altri; aumentare la coesione interna al partito per far sì che ci sia più stabilità, meno corruzione e forza interna3. Invero, vi è chi ritiene

che questi meccanismi favoriscano in senso antidemocratico solo i par- titi più forti e assestati a discapito delle minoranze e della rappresenta- tività4.

Infine si deve rilevare già da ora come, in un periodo di forte crisi del sistema partitico, si riaccende il dibattito sulla teoria della c.d. rap- presentanza vincolata (che notoriamente si articola nei due istituti com- plementari del mandato imperativo e del recall) anche in Paesi dall’an- tica e consolidata tradizione costituzionale liberal-democratica, questa volta prettamente come strumento per declinare in un’accezione moderna e più pregnante il principio democratico.

2. – Il Canada è una democrazia con una lunga tradizione democra- tica e parlamentare di diretta derivazione britannica. Mentre il Parla- mento federale inizia ad operare nel 1867, le Province già molto prima erano dotate di proprie istituzioni parlamentari. Il sistema elettorale (FPTP)5è un sistema uninominale maggioritario secco. Non vi è una le-

gislazione che proibisce il floor crossing. La stragrande maggioranza dei parlamentari è eletta per il tramite dell’affiliazione partitica, solo una pic- cola percentuale è costituita da indipendenti. Niente vieta ai parlamen- tari di passare al partito avversario, ma non sembra una pratica diffusa analizzando la storia istituzionale del Paese (pare sia avvenuto solo 3 volte dalla nascita del Parlamento), quindi la necessità di introdurre una specifica legislazione al riguardo non si era mai palesata6. Nel marzo del

2006, però, l’Ethics Commissioner ha contestato al Primo Ministro Stephen Harper la violazione del codice sul conflitto di interessi della House of

Commons, nella misura in cui aveva offerto a David Emerson, liberale,

membro del Parlamento di Vancouver-Kingsway, di entrare nel Cabinet del nuovo Governo guidato dal partito conservatore. Le conclusioni del rapporto si orientarono nel senso di non imputare ad Harper alcuna vio- lazione per cui Emerson accettò l’incarico, ma si sottolineò che comun-

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3K. Janda, op. cit., p. 16.

4Sul punto v. G. Shabad e K.M. Slomczynski, Inter-Party Mobility among Parlia-

mentary Candidates in Postcommunist East Central Europe, 2004.

5Conosciuto anche come single-member, simple-plurality.

6 Per approfondimento v. X. Majola, E. Saptoe e C. Silkstone, Floor Crossing:

que si era svalutata, se non addirittura violata, la volontà dei cittadini espressa attraverso il voto. Il dibattito instauratosi in seguito verterà pro- prio sull’opportunità di evitare in futuro nuovi episodi di questo tipo, facendo in modo che ove il parlamentare accetti un ruolo nel governo guidato dallo schieramento opposto a quello al quale appartiene, debba lasciare il seggio nella House of Commons, oppure ove passi allo schie- ramento opposto nel corso della legislatura, non possa entrare nel Ca-

binet prima delle nuove elezioni7.

Il dibattito si è riacceso più di recente quando il democratico Mathieu Ravignat8ha proposto una legge per contrastare il crossing floor che pre-

vedeva una elezione medio tempore per il parlamentare che durante la legislatura avesse abbandonato il partito. La proposta fu però respinta con 181 voti contro 91. Emblematico il caso di Claude Patry che votò a favore della proposta di legge, ma l’anno successivo lasciò il partito di appartenenza (federalista) per il Bloc Québécois.

La dottrina, in particolare il prof. Ned Franks, esperto di istituzioni parlamentari, ha da sempre sostenuto che l’elettorato vota in primis il rappresentante, non il partito, ma Franks sottolinea altresì: «In theory, MPs are elected from constituencies, not parties. Up to about 30 years ago, no parties were listed on the election ballot. Times have changed. MPs represent constituencies and, largely, parties, but in the House it- self, representing constituents is subordinate to the party. Parliamenta- rians should pay attention this»9 prendendo atto di una tendenza che si

è ormai sviluppata nella realtà fattuale e nella costituzione reale del Paese. 3. – Il dibattito sull’anti-defection clause è stato particolarmente si- gnificativo in Australia e Nuova Zelanda. In Nuova Zelanda vi è stato altresì un tentativo di disciplina della materia, poi venuta meno. L’Elec-

toral Integrity Act (2001-2005) difatti prevedeva che il politico che avesse

abbandonato il partito nelle cui fila era stato eletto, fosse costretto a sot- toporsi ad un immediato nuovo test elettorale di medio termine o a ras- segnare le dimissioni dal Parlamento.

Il dibattito nella dottrina australiana si è perlopiù incentrato sulla que- stione dell’appartenenza del seggio, ci si è chiesti se effettivamente esso

Lo stato dell’arte del dibattito sulla anti-defection clause 143

7Così spiega D. Gussow, Crossing the Floor, Conflict of Interest and the Parliament

of Canada Act, in Canadian Parliamentary Rev., summer 2006.

8 Congiuntamente a Peter Stoffer (Sackville-Eastern Shore) l’11-2-2011 presenta la

proposta per mezzo di un Private Member’s bill affermando: «members shouldn’t play petty politics and think only of their career, by changing political parties whenever they like. Members were elected personally, and under their party banner. We must ensure that members are accountable to their constituents».

9B. Vongdou, A chill in floor-crossing sets in to 39thParliament?, in Hilltimes, 27-

debba ritenersi di spettanza del partito, partendo dal dato di fatto che sono i partiti ad essere divenuti il pilastro delle moderne democrazie, ri- levando che, in assenza di un sistema partitico stabile ed equilibrato, viene a crearsi una situazione di caos e di ingestibilità sistemica, come dimostrato dall’esperienza della Nuova Guinea10.

Ancora, la dottrina si è soffermata sul “dilemma del legislatore”, il membro del Parlamento deve sostenere il peso di una moltitudine di re- sponsabilità: egli è responsabile nei confronti dei propri elettori, del pro- prio partito e nei confronti della propria coscienza. Considerazioni di natura generale che, in effetti, riguardano qualsiasi sistema democratico. Nel momento in cui il politico abbandona il partito di appartenenza mantenendo il seggio che occupa, giustifica la propria pretesa affermando che: è stato il partito e non lui a cambiare la linea; che egli sta solo ob- bedendo alla volontà degli eletti; e che egli non può andare contro la propria coscienza. Ben vi possono essere, in realtà, ragioni occulte che riguardano il tornaconto personale del politico (incentivi economici o di altra natura).

Sempre volendo schematizzare e generalizzare, osservando l’esperienza australiana, le conseguenze della defection da parte del soggetto sem- brano essere di due tipi: accrescimento della fama nel breve periodo, ma conseguenze negative nel lungo. Il politico de quo può, infatti, essere tacciato di essere privo di etica, opportunista, senza scrupoli. Di contro, questi può difendersi invocando il famoso “Burke’s Speech”11 per cui

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10 Papua Nuova Guinea è una democrazia multipartitica le cui istituzioni si basano

principalmente sul sistema di Westminster con un Parlamento unicamerale eletto a suf- fragio universale diretto ogni cinque anni. L’art. 101 Cost. prevede che i membri siano eletti da collegi uninominali, alcuni dei quali sono circoscrizioni provinciali, invero i cit- tadini di ciascuna delle ventidue Province eleggono un rappresentante. La Papua Nuova Guinea aveva utilizzato un sistema di voto di ispirazione australiana sotto la dominazione dell’Australia e ha adottato il sistema elettorale britannico, al momento dell’indipendenza nel 1975. Nel 2006, però, il Paese è tornato a un sistema di voto differente, in cui gli elettori votano i candidati in ordine di preferenza nei loro collegi elettorali. Più precisa- mente, l’elettore deve scegliere né più né meno di tre candidati in ordine di preferenza sulla scheda elettorale. Il sistema partitico in questo contesto è molto debole; al contra- rio vi sono numerose comunità indigene, lingue e costumi, e gli elettori chiaramente ten- dono a votare un candidato appartenente alla loro comunità, pertanto finisce per vincere il candidato appartenente alla comunità demograficamente più consistente, ma le percen- tuali sono comunque molto basse. L’“Alternative Vote” è progettato per costringere i can- didati ad estendere la campagna elettorale oltre i confini della loro comunità etnica, poi- ché per essere eletti si devono classificare almeno secondi anche nelle comunità limitrofe. Il sistema però non si è mai assestato, nel 1997 e nel 2002 durante le elezioni numerosi sono stati gli episodi di corruzione, intimidazione, violenza e scontri mortali. Per ap- profondimento v. Research Paper n. 4, Politician Overboard: Jumping the Party Ship, 2002-03.

l’acquisita indipendenza del Member of Parliament costituisce un ba- luardo irrinunciabile che si riflette sulla sfera di indipendenza, autono- mia e prestigio dell’intero Parlamento, dando forma e senso compiuto alla supremacy di un organo legislativo inteso come entità collegiale preor- dinata a rappresentare non più interessi settoriali, bensì il bene indisso- lubile della Nazione.

Ancora, ci si può chiedere come mai il numero di transfughi in Au- stralia sia così esiguo, e le ragioni che si possono rintracciare sono es- senzialmente due: il ruolo ancora centrale che i partiti hanno nel sistema; i benefici che i politici traggono dall’affiliazione (l’identificazione degli

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