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plebiscitarie che sanno d’antico?» (seminario 2013)

libro documenta tuttavia bene il tono della giornata, dedicata al tema complessivo dell’Appello al popolo e democrazia: nuove forme plebisci-

tarie che sanno d’antico?

Il tempo trascorso da allora non ha peraltro fatto perdere di interesse ad esso, caricandolo anzi di ulteriori motivi e suggestioni di meditazione e consentendo di confermare – attraverso gli eventi che hanno investito molti Paesi e ordinamenti occidentali – la sua pregnanza e centralità ana- litica, ai fini dello studio delle trasformazioni istituzionali, tra loro anti- che premesse, manifestazioni odierne e prefigurati sviluppi futuri.

Lo svolgimento – effettivo o tentato – di referendum di secessione territoriale (tenuti in Scozia, in Gran Bretagna, in Catalogna) o relativo a decisioni attinenti all’apertura o meno verso gli immigrati extracomu- nitarî (come è accaduto in Ungheria), quello su una legge costituzionale approvata in Italia dalle Camere e poi respinta da un’ampia maggioranza del corpo elettorale per introdurre significativi mutamenti alla Carta co- stituzionale del 1948, come anche l’ormai diffuso costume di ricorrere – anche laddove esse non sono disciplinate da leggi e tradizionalmente svolte – a consultazioni primarie di iscritti e simpatizzanti dei partiti di antico insediamento per designare quanti dovranno concorrere a cariche pubbliche (è ancora il caso dell’Italia e più di recente della Francia), se- gnalano univocamente – pur nella diversità delle vicende e degli esiti – le difficoltà presenti della democrazia rappresentativa.

Essa è incalzata dall’affannosa ricerca di strumenti di coinvolgimento diretto del popolo nelle decisioni politiche fondamentali, al fine di su- perarne l’altrimenti conclamata indifferenza (quando non l’aperta osti- lità) verso ceti politici avvertiti, rectius subiti, come distanti, inefficienti, sovente gravati in taluni loro esponenti da condotte penalmente repren- sibili.

La cifra comune di questa fase storica viene rubricata nel dibattito pubblico sotto la categoria unificante e variegata, nelle espressioni con- crete, del «populismo» che – superata l’originaria matrice storica, che l’a- veva visto nascere in seno al movimento di intellettuali russi che sul fi- nire dell’Ottocento si proponevano appunto di «andare verso il popolo» e il più attuale, benché risalente, contesto latino-americano, che ne ha fornito nel tempo notevoli e numerosi esempî – investe le liberaldemo- crazie occidentali, all’insegna di una diffusa protesta verso quella che nella nostra discussione giornalistica si è incominciato a definire come «la Casta», termine nel quale viene non poche volte ricompreso altresì chi sia in possesso di competenze tecniche, accomunato ai politici di pro- fessione dal sospetto di permeabilità agli interessi di oscure lobbies.

A questa si è contrapposta nella polemica una sorta di assunta, ver- ginale «purezza» del Popolo (le lettere maiuscole quali iniziali dei so- stantivi rispettivamente usati sono intenzionali), che dalla prima sarebbe

Salvatore Prisco

stato tradito, dimodoché a molti sembra ormai opportuno testarne – come si diceva – l’effettiva volontà attraverso l’incremento degli istituti di democrazia diretta, anche grazie alle nuove possibilità offerte dalla te- lematica, conseguendone dunque l’accentuata integrazione – nelle pro- poste più estreme addirittura l’emarginazione – dei luoghi e delle forme della democrazia rappresentativa (ritenuta «mera liturgia della delega») con sedi e pratiche di diverso tenore.

Si spiegano così le teorizzazioni e gli esperimenti di democrazia «de- liberativa», come anche la richiesta di limitare o addirittura superare il cuore stesso della teoria politico-costituzionale della rappresentanza, cioè la libertà del mandato parlamentare, in favore invece del suo vincolo (il che finisce per riavvicinare il mandato politico a quello giuridico priva- tistico, che ne è all’origine lontana), nonché la pressione perché vengano introdotti e articolati nelle Costituzioni nuovi procedimenti referendarî, rispetto a quelli già in precedenza accolti, una più cogente disciplina del- l’iniziativa legislativa popolare a deliberazione parlamentare garantita e il

recall.

In buona sostanza, non si può negare il carattere ispirato a «fonda- mentalismo democratico» di tali istanze (all’insegna di quella «radicaliz- zazione della democrazia», ora appunto invocata da un saggio di Do- minique Rousseau, della cui traduzione italiana si dispone a cura di Eleo- nora Bottini e con una prefazione di Alberto Lucarelli), ma quello che colpisce è il loro conclamato divorzio dal milieu liberale, se con tale ag- gettivo identifichiamo un assetto istituzionale che sfocia in definitiva ne- gli istituti e nella logica del tradizionale compromesso parlamentare, fa- vorito da sistemi elettorali proporzionalistici, al più solo debolmente cor- retti in chiave maggioritaria.

Al contrario, proprio la presenza di sistemi elettorali maggioritarî ap- pare funzionale a quella «democrazia di investitura» di un leader e dei suoi più vicini seguaci che emerge a seguito della evidente liquefazione delle risalenti forme partitiche europee, senza che peraltro si possano su questo piano individuare ricette rassicuranti e decisive.

Da un lato, infatti, nella vicenda italiana del referendum costituzio- nale del 2016 ha molto influito il collegamento (percepito dai più, an- che se formalmente sottratto alla deliberazione popolare) della riforma fortemente sostenuta dal governo allora in carica con una legge eletto- rale ad elevato premio di lista per la sola Camera dei deputati, confe- zionata dopo la sentenza 1/ 2014 della Corte costituzionale.

Dall’altro, dopo il referendum consultivo britannico che ha visto pre- valere l’opzione «leave» rispetto all’Unione Europea – in una temperie che peraltro ha già riservato ulteriori colpi di scena, per l’ingerenza del potere giudiziario nella dialettica tra popolo, Assemblee politiche e Go- verno, elemento ormai esso pure comune del paesaggio costituzionale

vivente dell’area euro-atlantica – anche la premiership di quel Paese, a sistema elettorale saldamente maggioritario, è caduta, benché avesse ten- tato (diversamente da quanto aveva fatto il Presidente del Consiglio ita- liano) di rendersi neutrale rispetto all’esito della consultazione.

La tendenza populista sopra rilevata non ha del resto mancato di in- vestire nemmeno gli Stati Uniti, che praticano un consolidato assetto presidenziale: l’affermazione del ticket repubblicano capitanato da Do- nald Trump è stata ascritta in prevalenza al voto della «maggioranza si- lenziosa» dell’«America profonda», tale rispetto alla ben più visibile in- fluenza sui mezzi di comunicazione di massa delle élites urbane, ma de- cisiva nel farsi ascoltare al momento del voto rilevante, mentre anche l’e- lettorato democratico che nelle primarie aveva sostenuto fino all’ultimo il senatore Sanders, in contrapposizione alla candidata Clinton, infine vit- toriosa in quella fase, si era mobilitato su issues di rifiuto dell’establish-

ment.

Questo panorama sembra dunque indicare che il cuore del problema non è tanto nel nesso tra legislazione elettorale, stabilità e accountability dei governi – dunque nella crisi del rappresentante, ovunque sicuramente problematica – quanto nel malessere del medesimo rappresentato, come ha diagnosticato persuasivamente Massimo Luciani, ovverosia nel disa- gio di popoli spiazzati dagli effetti indesiderabili della globalizzazione.

Si è in presenza di masse impoverite, sottoposte a sfide epocali come la precarizzazione del lavoro, i disastri ambientali, la difficilissima ge- stione di movimenti migratori dalle aree di conflitto e di ben maggiore bisogno economico del mondo o il fronteggiamento di un terrorismo insidioso perché imprevedibile nelle circostanze e nei luoghi di soppio, che spesso chiama in suo strumentale soccorso la fede religiosa e che si è generato nel cuore stesso delle città occidentali e dentro famiglie da tempo immigrate, il che costringe tra l’altro ad interrogarsi ancora sulla plausibilità del noto «paradosso di Böckenförde», secondo il quale la de- mocrazia social-liberale secolarizzata vive in realtà di (e su) promesse di integrazione e di benessere crescenti che non è più effettivamente in grado di garantire.

Uno studioso di diritto pubblico e costituzionale non può che os- servare con sconforto il momento attuale, ma al tempo stesso l’espe- rienza della storia deve pur ricordargli che una crisi (come attesta anche l’etimologia della parola) è anche l’occasione di una trasformazione, dun- que di un’opportunità che va governata e non subita, senza più nutrire – ove mai lo avesse fatto prima – aspettative palingenetiche sul ruolo e il peso in essa e per risolverla dell’ingegneria costituzionale, ma tenendo ferma la barra dei valori partecipativi ed inclusivi dei popoli sovrani.

A questo fine vanno rilanciate con decisione le ipotesi di un riassetto istituzionale che tenga comunque assieme istanze e strumenti tecnici li-

Salvatore Prisco

berali e democratici, tanto sul piano delle organizzazioni sovranazionali (fin qui troppo spesso deludenti e burocratizzate per affascinare e mo- bilitare a loro sostegno, mentre va proprio adesso, cioè nel momento del disincanto dal sogno, perseguito un nuovo orizzonte di effettiva federa- lizzazione), quanto su quello della vita delle comunità locali, che restano perduranti riserve di common sense e di identità per individui e gruppi sociali, altrimenti esposti a percepirsi senza radicamento e senza ideali collettivi praticabili e perciò a correre disavventure della ragione, rinser- rata in nuovi e illusorî sovranismi nazionalistici.

Francesco Bonini*

PLEBISCITI “COSTITUENTI”: ALL’ORIGINE (E ALLA FINE) DEL REGNO D’ITALIA

Sommario: 1. I plebisciti. – 2. Un dibattito tra giuristi. – 3. L’ultimo plebiscito, che è un referendum.

«L’odierno Stato italiano, quantunque nel fatto sorto da un procedi- mento rivoluzionario, tuttavia formalmente esso vennesi costituendo per mezzo dell’allargamento successivo di un piccolo Stato, il quale aveva davvero una vita secolare. Con grande senno politico questa continuità dello stato, sia pure formale, dappoiché altrimenti non poteva conse- guirsi, venne gelosamente curata, non mutandosi nel nome dei Re il nu- mero relativo la serie dei suoi predecessori»1.

Questo passo dei Principi di diritto costituzionale del fondatore della scuola scientifica del diritto pubblico italiano è molto noto e in effetti il virgolettato “costituenti” presente nel titolo è proprio collegato all’evo- cazione dell’argomentazione sviluppata da Vittorio Emanuele Orlando. La quale però suggerirebbe anche un sottotitolo, che potremmo decli- nare in questi termini: ovvero dell’ambiguità. Perché l’origine costitu- zionale del Regno d’Italia solleva in modo patente la questione di come gestire l’ambiguità, pone insomma il problema che, in termini storico- politici, quelli che qui si svilupperanno, si può dire del management del- l’ambiguità, relativa proprio al rapporto in Italia tra plebiscito e Costi- tuzione, ovvero sulla partecipazione popolare all’elaborazione costitu- zionale.

Il noto passo di Orlando infatti evoca un altro passo molto noto, a proposito del processo di unificazione, cui sarebbe mancato, come ica- sticamente annota Giuseppe Mazzini, nel suo ultimo scritto, nel 18722,

*Professore ordinario di Storia delle istituzioni politiche presso la Libera Università “Maria SS. Assunta” - LUMSA di Roma.

1V.E. Orlando, Principi di diritto costituzionale, 5ª ed., Firenze 1925, p. 39. 2Costituente e patto nazionale, in la Roma del Popolo, 34/1872. Mazzini ricorda la

«il fiat della nazione», che «non può essere proferito che da una Costi- tuente e non può incarnarsi che in un patto nazionale». Questo Maz- zini peraltro è citato da Giacomo Perticone3, in un fortunato volumetto

pubblicato in occasione del passaggio costituente, come sappiamo per fe- lice scelta politica accompagnato (ma non seguito) dal referendum, ov- vero da un passaggio “plebiscitario”.

Tra le posizioni illustrate in queste due citazioni, che pongono, l’una risolvendola, l’altra denunciandola, la questione della partecipazione po- polare al processo costituente del Regno, lo spazio dei plebisciti è assai stretto, ma evidentissimo, trattandosi, tra ’48 e ’70 del più rilevante pro- nunciamento popolare nella storia dell’Italia unita, fino appunto al refe-

rendum del 2 giugno 1946, che, anche per questo sarà il termine di que-

sta breve e problematica riflessione.

Lo Statuto è plebiscitato o ottriato, si chiedeva un giovane e brillante costituzionalista nel 1883. I plebisciti insomma fanno parte dello Statuto? Certamente il passaggio costituente del 1946 comprende il referen-

dum/plebiscito, che così si trova tanto alla fine che all’inizio del Regno

d’Italia.

Ma da Brunialti ripasserò tra breve, dopo avere appunto percorso l’i- tinerario dei plebisciti. Che sarà il primo e più corposo dei tre punti che rapidamente tratterò.

1. – Che sono ovviamente di scuola francese. Con un antefatto. Prima, fino al 1848, nella cosa, poi anche nel nome. Le prime espe- rienze di tipo plebiscitario, come ha ben ricordato Gian Luca Fruci4,

sono nell’Italia del primo e del secondo passaggio di Napoleone Bona- parte.

Quelle del 1848 per molti versi nelle forme le echeggiano. Si tratta di “liberi voti”, di “votazioni universali” (dizione contenuta nelle leggi di unione emanate tra il 29 maggio (Piacenza) e il 27 luglio (Venezia) dal Regno di Sardegna. Sono espressi su registri, per sancire, con il suf- fragio universale, passaggi costituenti in senso lato o stretto.

Il primo è quello piacentino, il più significativo quello lombardo, che

Francesco Bonini

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fermato, sin dal 1848, dagli istinti dei popoli sollevati e da solenni promesse regie. A guerra vinta, un’Assemblea italiana deciderà dei destini d’Italia» e conclude: «manca nel caos che ci si stende d’intorno il fiat della Nazione. E quel fiat non può essere proferito che da una Costituente: non può incarnarsi che in un Patto Nazionale. Tutto il resto è menzogna o, per ora, impossibilità».

3 G. Perticone, Il problema attuale della costituente, in Studi storici per la Costi-

tuente, Firenze 1946, n. 19.

4G.L. Fruci, Appelli al popolo. Il momento plebiscitario nel Risorgimento (1796-1870),

in E. Fimiani (a cura di), Vox populi? Pratiche plebiscitarie in Francia, Italia e Germa- nia (XVIII-XX secolo), Bologna 2009, pp. 87-144.

accompagna il progetto di un nuovo regno, attraverso la convocazione «col mezzo del suffragio universale» (legge dell’11 luglio, articolo unico) di una assemblea costituente. Nel mezzo Parma, Reggio e Modena, che rappresenta l’unico sostanziale fallimento di un plebiscito nella storia del Risorgimento.

La parola plebiscito in realtà nel quarantotto non compare, il voto è espresso con la firma su registri che restano a disposizione della cittadi- nanza (maschi adulti in possesso dei diritti civili) per alcuni giorni.

Il voto è largo e sancito da una legge del Parlamento sardo-piemon- tese. In realtà nella fase iniziale della vita costituzionale (e della guerra nell’Alta Italia) queste consultazioni popolari di annessione sono coe- renti con quell’idea di uno svolgimento dello Statuto, che peraltro viene enunciata fin dall’avvio dei lavori del primo Parlamento, l’8 maggio 1848, quando, nel discorso inaugurale del principe luogotenente Eugenio, si parla di “mutazioni” e poi si vota, il 18 giugno, la già ricordata legge, con l’unità della Lombardia e della province venete con gli Stati sardi e gli altri emiliani, la Costituente e una «nuova monarchia costituzionale colla dinastia di Savoia»5.

Dieci anni più tardi, in occasione dell’acquisizione del Lombardo, la questione di un eventuale rinnovo dell’“appello al popolo”, secondo Ca- vour non andava nemmeno posta, ormai in un quadro politico-istitu- zionale ed internazionale molto diverso. Secondo il Presidente del Con- siglio, come testimonia Cesare Giulini «la questione italiana va divisa in due. Le provincie che nel ’48 hanno pronunziato la fusione con Pie- monte, si intendono riunite, perché la guerra del 1859 ha infranto il trat- tato del 1849. Quanto alle altre provincie la fusione è un’altra cosa»6.

La necessità dell’“appello al popolo” per la legittimazione delle an- nessioni emerge in realtà con grande evidenza nei mesi successivi, a pro- posito della questione della sistemazione dell’Italia centrale e con riferi- mento obbligatorio a Napoleone III, ovvero al complesso gioco che si svolge nei primi mesi del 1860. Illuminante a questo proposito la con- clusione di Cavour, come viene espressa in termini icastici in una lettera al cavaliere Emanuele Marliani: «Le résultat merveilleux du vote de l’I- talie centrale rend l’annexion de ces contrées non seulement possible, mais facile. L’Europe ne pourra se refuser à reconnaitre un fait qui vient de recevoir une sanction sans précédents dans l’histoire».

Le parole utilizzate dal Presidente del Consiglio sono forse la mi- gliore definizione del significato dei plebisciti che si tengono l’11-12

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5R. Ferrari Zumbini, Tra idealità e ideologia: il rinnovamento costituzionale nel Re-

gno di Sardegna fra la primavera 1847 e l’inverno 1848, Torino 2008.

6E. Mongiano, Il voto della nazione: i plebisciti nella formazione del Regno d’Ita-

marzo. Una “sanzione” essenzialmente rivolta all’Europa, cioè a quelle potenze che ancora per diversi mesi saranno alle prese con la questione italiana e poi, l’anno successivo, con quella del riconoscimento del Re- gno d’Italia. Plebisciti insomma dall’alto, nel migliore stile adottato mezzo secolo prima, a sottolineare anzi come del processo costituente del Re- gno d’Italia partecipino in modo significativo proprio anche le potenze europee. A conferma del fatto che le vicende italiane rappresentano – come disse sir James Hudson con motto famoso – «una folgore che cade sui trattati del 1815».

Illustra molto bene questa dinamica anche la lettera ufficiale di Vit- torio Emanuele II al Papa del 20 marzo, che vi colloca appunto i ple- bisciti: «dileguata la speranza d’un congresso europeo, innanzi al quale si portassero le questioni dell’Italia centrale, non era riconosciuta possi- bile altra soluzione fuorché quella di interrogare nuovamente le popo- lazioni sopra i loro futuri destini. Riconfermata con tanta solennità di universale voto la deliberazione per l’annessione alla Monarchia costitu- zionale del Piemonte, io doveva per la pace ed il bene d’Italia accettarla definitivamente»7.

Il risultato, cioè l’annessione, è il frutto di una triangolazione Torino- Parigi-Londra, con l’attenzione ovviamene alle altre tre potenze, in un raffinato gioco di reciproche ruseries. Tra Torino e Parigi innanzi tutto, per cui, come si scrive a Cavour «j’ai la ferme conviction qu’on se ré- signe ici à l’annexion de la Toscane, pourvu qu’ils aient, bien entendu, la Savoie et Nice». In concreto Napoleone III fin dal gennaio 1860 su- bordina l’annessione, ovvero il mancato rispetto degli accordi di Villa- franca e della pace di Zurigo, al saldo di Plombières e alla necessità (pa- rallelamente anche a Nizza e in Savoia) di «se conformer au vœu des populations librement consultées»8.

Il suo nuovo Ministro degli Esteri formalizzava il 24 febbraio l’im- portanza per Napoleone III del fatto che il «principe du suffrage uni- versel, qui constitue sa propre légitimité, devenait le fondement du nou- vel ordre des choses en Italie. Sur un tout outre terrain la participation de la France serait une inconséquence manifeste à laquelle son Gouver- nement ne peut s’expliquer»9.

Suffragio universale, dunque secondo una prospettiva bonapartista,

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7Il Carteggio Cavour-Nigra dal 1858 al 1861, a cura della R. commissione editrice,

Bologna 1926-1929, vol. 3, La cessione di Nizza e Savoia e le annessioni dell’Italia Cen- trale, p. 199.

8Cit. da P. Pastorelli, 17 marzo 1861. L’Inghilterra e l’unità d’Italia, Soveria Man-

nelli 2011, p. 37.

9Thouvenel all’ambasciatore a Londra, cit. da E. Mongiano, Il voto della nazione,

cit., p. 205, che però indica la data del 24 gennaio 1860, in luogo di quella corretta del 24 febbraio.

che suscitava le diffidenze non solo di Londra, ma anche di Cavour, come tornerò a sottolineare in conclusione. Così si può dire che il suf- fragio universale (maschile of course) italiano, nella breve ed unica sta- gione di concessione, quella plebiscitaria-costituente, è pensato ed attuato in questa prospettiva.

Vi si arriva nel giro di poche settimane, attraverso un gioco di spec- chi, di scambi e di reciproche ruseries, come sintetizza il racconto sto- rico di uno dei protagonisti: «Conforme la intesa riposero il Farini e il Ricasoli avere fermo di consultare i popoli per lo suffragio universale. E poiché la Inghilterra se ne accomodava, e si riseppe che le due grandi potenze del settentrione, non però ammettendo il principio generatore della sovranità, alli fatti compiuti si acqueterebbero; e si rilevò che l’Au- stria medesima, per le note del Rechberg alle sollecitazioni di Francia, pure tempestando contro l’alterazione dei patti di Villafranca, già non si disporrebbe per allora a cimentarsi allo argomento delle armi, senza più indugiare» si procedette10.

Dal punto di vista costituzionale «l’opera dei regimi provvisori co- nosce delle somiglianze di fondo. C’è innanzi tutto un’opera costituente in senso specifico, nel senso cioè di prendere le decisioni supreme in tema di ordinamento provvisorio dello stato e addirittura di sorte dello stato stesso» – come per gli atti preparatori dell’annessione, accompa- gnati da un’azione di politica internazionale.

La fase dei plebisciti è quella di compimento dell’annessione, per cui

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