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Antimafia e legalità come obiettivi educativi: parole logore?

LA SOCIETA’ CIVILE ANTIMAFIA: VERSO L’EDUCAZIONE

3.1 Antimafia e legalità come obiettivi educativi: parole logore?

In un suo recente articolo, Nando Dalla Chiesa – sociologo milanese e familiare di vittima di mafia, nonché presidente onorario della rete di cittadini e associazioni

Libera, associazioni, nomi e numeri contro le mafie – denuncia il quoziente di retorica

e contraddittorietà attualmente nascosto nel mondo dell’antimafia.

E allora facciamolo scoppiare, il bubbone. E parliamo del variopinto circo che vorrebbe prendere le bandiere dell’antimafia. La Calabria ci ha offerto di recente due casi inquietanti. Quello del sindaco antimafia di Isola di Capo Rizzuto Carolina Girasole, accusata dai magistrati di rapporti (da definire) con il potente clan degli Arena. E quello di Rosy Canale, scrittrice e attrice teatrale, rappresentante delle “donne di San Luca”, che avrebbe intascato per privatissime finalità fondi pubblici ottenuti per contrastare la cultura mafiosa a San Luca.452

Se nel caso dell’ex prima cittadina di Isola di Capo Rizzuto, assolta con formula piena lo scorso 22 settembre 2015 dall’accusa di compravendita di voti perché “il fatto non sussiste”, tali affermazioni risuonano affrettate, altre situazioni sono ben più problematiche. Anche don Luigi Ciotti, fondatore di Libera e leader carismatico del movimento, ha espresso una denuncia simile in diverse occasioni, a partire dal discorso pubblico svolto alla Giornata della Memoria e dell’Impegno del 22 marzo 2014 a Latina, nel quale ha segnalato con insistenza la sopravvenuta insignificanza della parola “antimafia”, accusando manipolatori e seduttori che l’hanno utilizzata in modo abile, disinnescandone la profondità, facendola divenire oggetto di una retorica inconsistente nei sempre più diffusi appuntamenti istituzionali453.

Ciotti ha aggiunto in altra sede che “la mafia è così pericolosa anche per il nostro parlare a vuoto, il nostro promettere e non fare”, tanto che secondo la sua opinione “la

452 N. Dalla Chiesa, “Il circo dell’antimafia”, in Il Fatto Quotidiano, 21 dicembre 2013. 453 L. Pepino, “Antimafia. Ridiamo senso alle parole”, Narcomafie, 7, 2014, disponibile in:

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prima mafia da eliminare è la mafia delle parole”454. La direzione da lui indicata considera il fatto che se “troppe parole sono ormai sbiadite e coprono comportamenti ambigui, occorre più responsabilità anche nell’uso delle parole”455.

Dunque dall’interno di uno dei più estesi movimenti sociali che si pongono come orizzonte la liberazione dello Stato dalle mafie, oltre alla ricchezza di proposte e progettualità emergono diverse preoccupazioni rispetto al diffondersi di un utilizzo della parola “antimafia” come sigillo che intende rendere autentico un documento vuoto se non contraffatto, come schermo in grado di occultare e camuffare non solo le indifferenze, ma anche le complicità verso i mondi mafiosi, o addirittura la partecipazione piena a questi.

Luc Besson ci accosta ad una simile contraddizione nel suo film The Family456:

quasi giunti all’epilogo, gli applausi scroscianti vengono rivolti a un Robert De Niro ormai invecchiato rispetto ai tempi di Meanstreet, Il padrino, Goodfellas o Gli

Intoccabili457, ma pur sempre un figlio della Little Italy dominata da Cosa nostra. In

effetti, costui sembra particolarmente efficace a narrare le storie di malavita a un pubblico di persone di un contesto “lontano” come quello della Normandia. Come mai? Robert De Niro, alias Giovanni Manzoni, viene collocato con la moglie e i due figli adolescenti in una piccola cittadina francese, nel rispetto di un programma protezione testimoni statunitense. Nel film, Giovanni era un boss mafioso prestigioso e la sua famiglia viene ora protetta a seguito della sua collaborazione con lo Stato per assicurare diversi boss mafiosi alla giustizia. La famiglia rinominata “Blake” deve integrarsi nel nuovo paese, rendersi invisibile e indistinta dagli altri concittadini, ma sperimenta la fatica del convivere con i pregiudizi, la solitudine, la finzione rispetto al proprio passato e alla propria identità, il rimpianto per i trascorsi gloriosi e “rispettabili”. Il film è una commedia criminale e, probabilmente grazie anche allo sguardo di Scorsese – uno dei magistrali narratori della New York messa sotto scacco da parte di Cosa nostra – è efficace a cogliere alcune contraddizioni attuali del mondo della malavita organizzata mafiosa e del sistema antimafia sviluppato per contrastarla. La leggerezza del comico mostra tutta la vacuità di una vita che è solo apparentemente normale, laddove i

454 L. Ciotti, “Elogio del dubbio”, Narcomafie, 12, 2014, p. 9. 455 Ibidem.

456 Trad. it. “Cose nostre – malavita” uscito nel 2013; Martin Scorsese ne è il produttore esecutivo. 457 De Niro interpretò don Vito Corleone da giovane, tra la Sicilia e New York, nel Padrino – parte II

(1974), capolavoro di Francis Ford Coppola; Meanstreet è il primo film di Martin Scorsese (trad.it. “Domenica in chiesa, lunedì all’inferno”, 1973) a descrivere in modo realistico la vita dei giovani che crescono a Little Italy – quartiere Newyorkese da cui lo stesso regista proviene – legati agli ambienti di Cosa nostra; sempre di Martin Scorsese è Goodfellas – trad.it. “Quei bravi ragazzi” – uscito nel 1990.

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soggetti si rivelano incapaci di rivedere e modificare realmente i loro stili esistenziali. E così, di fronte ai soprusi e ai desideri inappagati, i membri della famiglia Blake reagiscono reiterando le modalità abitudinarie e il modello comportamentale mafioso, quello della violenza e dell’inganno “furbo”, dei favori, degli escamotage protettivo- estorsivi. L’incapacità di vivere una vita non solo normale ma anche “invisibile” diviene irrimediabile quando Giovanni Manzoni, o meglio lo scrittore di storia contemporanea Mr. Blake, viene invitato a commentare la proiezione di Goodfellas in un cineforum, lui che conosce quei luoghi e quella storia. Il pubblico sembra pieno di domande di comprensione di un fenomeno così inquietante e apparentemente esotico e, ascoltandolo inconsapevolmente narrare la propria biografia, applaude entusiasta. L’auditorium trova sazietà al suo bisogno, senza interrogarsi né accorgersi che dietro a quella persona così rispettabile si cela un mafioso che collabora con la giustizia unicamente per salvarsi la vita, senza alcuna revisione dei propri stili esistenziali: dunque, quella descrizione così efficace viene dall’interno di quel mondo e il riconoscimento sociale viene diretto a un criminale egoista e assai poco “pentito”. Nella discussione col responsabile FBI del programma di protezione, Mr. Blake/Manzoni poco prima aveva giustificato la sua disponibilità a salire sul palco chiedendo in modo retorico: “non mi avevi detto di non rendermi impopolare?”. E il poliziotto aveva acutamente risposto: “sì, ma non ti avevo mai detto di diventare popolare…”. I cittadini d’altra parte si accorgeranno, dopo che Mr. Blake è stato individuato da coloro che ha tradito, cioè i suoi (non più) amici della malavita, della leggerezza e pesantezza di quell’applauso: dopo che, nell’indomani che non ci è narrato, avranno amaramente scoperto la carneficina che ha accompagnato la sua protezione e la sua fuga. E il film si conclude, con circolarità, con una scena che richiama quella iniziale del viaggio della fuga, trasmettendo proprio l’idea del “girare a vuoto” di questa storia e di questi tragitti esistenziali.

Si può percepire con forza la contraddizione messa in evidenza nella pellicola di Besson e Scorsese: gli applausi possono diventare il nuovo segno, differente da un passato denso di silenzi e rimozioni della problematica mafiosa, di indifferenza e di inautenticità. Quando non è la mafia, ma l’antimafia ad essere popolare, si corre il rischio che questo “marchio” venga contraffatto. Se quindi la mafia non si presenta con una maschera violenta, ma con quella della normalità o meglio della popolarità che le consente di sviluppare consenso: siamo in grado di distinguere e non lasciarci confondere? Cosa succede se chi cresce sente la parola antimafia proposta come

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direzione progettuale e la scopre anche accostata a esperienze che ne contraddicono il significato più profondo? Quali possano essere le interpretazioni e i risvolti di tale tendenza sul piano dell’esperienza educativa e come possiamo attrezzarci per tutelarci da queste situazioni?

Prima di approfondire tali questioni, sembra necessario precisare che anche il concetto di legalità, che viene considerato un riferimento fondamentale per le istituzioni, le associazioni e i cittadini impegnati nel movimento antimafia è toccato da un rischio di svuotamento di significato simile a quello che abbiamo introdotto per la parola “antimafia”.

Il termine “legalità” è stato progressivamente sempre più accostato a “educazione” in discorsi, testi e progetti pensati in risposta alla diffusione o alla presenza dei fenomeni mafiosi: si sono diffusi ad esempio i finanziamenti per progetti di “educazione alla legalità” o di “promozione di una cultura della legalità”.

Francesca Rispoli, responsabile nazionale del settore educativo di Libera, spiega le perplessità sempre maggiori rispetto a queste diciture:

balza agli occhi quanto si sia giocato – non solo da parte dei poteri dominanti – con tale termine, al fine di indicarne un senso parzialmente o completamente diverso dall’originario. Ciò non ha solo un risvolto di tipo linguistico, ma anche una ricaduta sulla vita di tutti noi, aprendo strade che rischiano di condurre a risultati antagonisti a quelli auspicati, contribuendo a costruire realtà con tratti distintivi dove ingiustizia e legalità si fondono458.

Tale ambiguità è parte della parola legalità, nel suo significato formale che rimanda all’applicazione e al rispetto delle norme.

Agli albori della civiltà occidentale, la grande tragedia greca ha dato voce alle potenti contraddizioni del processo di civilizzazione, tra cui anche le tensioni tra la Legge e la responsabilità individuale che sono una tappa inquietante, ma comunque necessaria all’evoluzione della civiltà stessa459. Tale tensione è narrata attraverso uno dei grandi miti, la storia di Antigone che fu pronta a disobbedire alla Legge del sovrano Creonte per assicurare la sepoltura al fratello Laio, il sovrano deposto e caduto, e che si tolse la vita prima di sapere della grazia a lei concessale dal nuovo sovrano. La Legge

458 F. Rispoli, “Il valore delle parole”, in M. Gagliardo, F. Rispoli, M. Schermi, Crescere il giusto.

Elementi di educazione civile, Torino, EGA, p. 94.

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di Creonte è totalmente disumana: la pratica di dare sepoltura ai morti è uno dei passaggi fondamentali nell’evoluzione dell’umano. Se la Legge è violenta, l’umanità non può che resistere, poiché viene a mancare il fondamento stesso della Legge, sorta per gestire la violenza e garantire l’ordine e la convivenza pacifica.

Questo mito narra di una delle grandi tensioni del processo di civilizzazione, che troviamo incarnata in “memorie inquietanti” della nostra storia e civiltà contemporanea.

Non rispettavano un principio di legalità anche coloro i quali negli anni ’30-’40 del Novecento hanno programmato e condotto l’olocausto della popolazione ebrea in ossequio alle leggi razziali? E per tornare al fenomeno mafioso, non emerge dalle biografie di tanti criminali la pretesa di porsi come giustizieri laddove la legge fallisce? Oppure la grande rilevanza attribuita agli elementi normativi e ai codici dai vari associati?

Disobbedivano alla legge, invece, gli obiettori di coscienza alla leva militare che hanno chiesto allo Stato di poter svolgere un servizio alternativo di difesa dello Stato, pagando con il carcere e dando avvio a un’importante esperienza formativa come quella del servizio civile che coinvolge tuttora tanti giovani ragazzi e ragazze. Disobbediva alla legge Danilo Dolci, quando di fronte alla fame e miseria assoluta toccata con mano nel paesino siciliano di Trappeto, una delle zone più povere della regione, promosse esperienze di “sciopero alla rovescia”, una delle quali vide il coinvolgimento dei disoccupati a lavorare per riparare una strada: nel nome dei diritti umani, al lavoro e alla dignità di ogni persona.

La storia dell’educazione è piena anche di audaci e profonde esperienze di educatori al dissenso e alla disobbedienza che rendono problematico approvare ad occhi chiusi il senso dell’“educazione alla legalità”. Se, dunque, esso da una parte è uno dei fondamentali principi dello stato moderno e democratico, dall’altra la sua natura regolativa e formale lo sottopone continuamente al rischio di manipolazione come strumento antidemocratico, trasformandolo in veicolo di conformismo e di conservazione dell’esistente, quando non di disumanizzazione.

Se antimafia e legalità diventano etichette utilizzate da chi persegue scopi opposti, rischiano di essere abusate e risultare vuote: allora l’esperienza educativa informata a tali obiettivi diventa poco comprensibile. Utilizzando la categoria interpretativa ideata da Mariagrazia Contini, si possono considerare parole logore:

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se, ad esempio, con autenticità, pace, solidarietà indichiamo ai nostri interlocutori obiettivi da perseguire, affrontando la fatica di un lungo e tortuoso camminare […], bisogna che quelle parole coincidano col proprio significato più denso, pesante e, soprattutto, vincolante. Cosa succede se, cinicamente, vengono utilizzate ‘a vuoto’, se non vincolano, se chi le usa non tende alla coerenza con esse, ma ostenta comportamenti e atteggiamenti che contrastano con il loro senso finora condiviso? Che chi da esse si sentiva interpellato vede, sente svuotarsi di senso non solo le parole, ma l’impegno che ne derivava, l’obiettivo che perseguiva: derubato del senso delle parole, diventa povero di senso complessivamente, di fronte a se stesso, agli altri, alla vita460.

L’accadimento di parole logore richiama il coinvolgimento di coloro che hanno responsabilità educative e che utilizzano tali parole per definire finalità e obiettivi educativi. Un’ipotesi di superamento dei rischi di svuotamento di senso richiede, secondo Contini, un impegno a

esercitare (ed educare a esercitare) una delle prioritarie e fondamentali forme di resistenza. […] Dunque, l’uso spregiudicato e bugiardo delle parole va denunciato, attraverso una resistenza che, giorno per giorno, contesto per contesto, ‘rinomini’ le parole logore e le riscatti attraverso pratiche al cui interno siano ravvisabili le parole intere, coincidenti col loro significato più pieno e profondo461.

La direzione di una pedagogia della resistenza prevede da una parte l’impegno a fare un uso più rarefatto, rinominare e compiere una rielaborazione critica mettendosi in ascolto di parole “altre”; dall’altra l’impegno a restituire e comprendere il senso delle pratiche, cercando di renderle il più possibile aderenti alla complessità che tali fenomeni implicano e quindi, come suggerisce Fabbri nel recente saggio Controtempo: “Educare alla percezione e all’ascolto del reale […]. Accettare di conoscerlo non per oggettivarlo […], ma assumendosi le proprie responsabilità in ordine al peso e al significato di queste interpretazioni, anziché porle, con indifferenza, tutte sullo stesso piano”462.

Rinominare le parole è un’operazione che può aprire la possibilità ad un pensiero rinnovato, ha a che fare con un sapere pedagogico forse debole e incerto, ma

460 M. Contini, Elogio dello scarto e della resistenza. Pensieri ed emozioni di filosofia dell’educazione,

Bologna, Clueb, 2009, p.22.

461 Ibidem.

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denso di significato perché connesso alle direzioni che l’azione sociale dovrebbe assumere per contrastare l’azione del fenomeno mafioso.

Rispoli esprime la consapevolezza della problematicità insita a tale concetto, tanto da raccontare che

Libera ha progressivamente preferito al termine ‘legalità’ parole come ‘responsabilità’, ‘Costituzione’, ‘giustizia sociale’ o ha accompagnato il termine con l’aggettivo ‘democratica’, a significare che non si può educare al rispetto di una serie di leggi che non vadano nella direzione della democrazia463.

Sergio Tramma sostiene piuttosto in un recente saggio464 che la comprensione pedagogica può realizzarsi all’interno dell’ambivalenza legalità/illegalità, schierandosi sulla linea di confine, sul margine nelle quali si fronteggiano; argomenta inoltre la necessità di sostituire l’obiettivo di educare a essere “buoni cittadini” in senso comprendente anche del rispetto del quadro normativo esistente.

Prima di approfondire i diversi tentativi di precisare la parola legalità e antimafia all’interno di una cornice educativa, ci mettiamo nuovamente in ascolto del reale attraverso le ricerche empiriche e storiche che si sono addentrate in questo ambito.

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