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Antonio Fiscarelli

Nel documento Carcere e dignità umana (pagine 194-200)

La questione formulata nel titolo può sembrare retorica. Va dun-que chiarita nei dettagli perché non risulti davvero tale. Essa pre-suppone che il silenzio sia un valore educativo in sé ma che po-trebbe essere generato dalla timidezza, la quale appunto risulterà essa stessa – e non solo per la funzione che qui riveste – generatri-ce di un importante valore educativo.

Indubbiamente la pratica del silenzio accomuna non poche vir-tuose e valorose personalità della conoscenza e dell’azione. Il suo valore educativo può essere favorito da una naturale inclinazione alla serenità e alla calma, se non da un’attitudine ricercata, una scelta saggia e sapiente dentro quella dimensione poliedrica che costituisce il rapporto della realtà umana con il mondo. I perso-naggi più diversi, dagli eremiti agli scrittori, hanno abbracciato la pratica del silenzio come un’etica di vita. San Francesco si ri-tirava nel silenzio e nella meditazione ogni qualvolta percepiva il divenire superfluo delle parole. Dostoevskij, la cui esistenza è stata così precariamente vincolata alla narrazione scritta, riteneva che «la parola è d’argento, ma il silenzio è d’oro». Rilke aveva as-soluta necessità di raccogliersi lontano dai «rumori della civiltà» quando doveva scrivere i suoi poemi; le sue opere sono scolpi-te con le parole germogliascolpi-te nel silenzio. Quale scrittore, amanscolpi-te della conoscenza, uomo d’azione non ha avuto bisogno di rac-cogliersi per dare sfogo alla propria creatività? «La strada per la grandezza,» scrisse Nietzsche da qualche parte, «passa attraverso il silenzio». Giusto, ma bisogna riconoscere che il silenzio ha un ruolo importante anche nelle piccole cose della vita quotidiana. Tale bisogno è, senz’altro, nella struttura essenziale della realtà umana, e si esprime ogni volta che la persona si pone in un

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giamento di apprensione verso qualcosa. Proprio in ciò il silen-zio rivela i suoi caratteri più propriamente educativi in generale, educativa in certa misura essendo ogni esperienza spontanea. Ma se il silenzio è una esperienza umana fondamentale, ispiratrice di una essenziale risorsa per il crescere umano, il vissuto in cui può emergere non lo è meno. Il silenzio può essere imposto in deter-minate circostanze, o essere un destino naturale, come nel caso della persona che nasce senza parola.

Senza dubbio l’educazione nel suo significato più ampio e ge-nerale può essere considerata come un composito sistema mol-to malleabile entro cui valori teorici e morali si intrecciano con comportamenti e atteggiamenti pratici, tutti prodotti di tradizioni e costumi, evoluzione della cultura generale e delle conoscenze pratiche e teoriche di una società. In uno dei suoi significati speci-fici, l’educazione può essere invece concepita come un insieme di stati affettivi o emotivi, esperienze psicologiche che la singola esi-stenza vive dentro una struttura sociale stratificata per ambien-ti e dimensioni umane parambien-ticolari, in cui i principali attori sono l’educatore e l’educando nelle loro varie forme (genitori/figli, in-segnante/scolaro, adulti/giovani, educatore propriamente detto/ utente…). Si tratta in questo caso del valore della «relazione in-terumana» implicata nell’educazione. Ora, se scaviamo in quelli che abbiamo chiamato stati affettivi o emotivi, ne ritroviamo non pochi: prima di tutto i concetti diametralmente opposti di auto-revolezza e liberalità, piacere e dovere, insegnare ed apprendere, trasmettere e comunicare; inoltre quelli della sfera più propria-mente emotivo-psicologica, come la dolcezza o l’aggressività, la volontà o la pigrizia, la motivazione e la demotivazione, se non i cosiddetti «disturbi dell’apprendimento».

Entro un quadro siffatto la timidezza ha un ruolo decisivo, magari proprio in opposizione a caratteri più propriamente ego-centrici. I turbamenti della psiche e della condizione umana nel suo insie-me sono molti e vari, e spesso di qualcuno si osserva solo l’aspetto debole, considerandolo magari un riflesso di atteggiamenti più risolutivi ed estroversi. La timidezza sarà dunque quell’espe-rienza passiva che caratterizzerà una persona introversa, molle e inefficiente, incapace di far valere le sue ragioni, incapacità talora

194 rivelatrice di una ben più intima e radicata viltà? La timidezza sarà il correlativo esistenziale, ontologico e teorico di quel mito molto più diffuso e benvoluto dell’intraprendenza e dell’ardire, se non della spericolatezza tout court? O non sarà piuttosto inte-riore processo di metabolizzazione di esperienze in sintonia con l’equilibrio naturale delle pulsioni soggiacente a ogni relazione interumana?

L’ipotesi che la timidezza possa avere un valore educativo o, se si preferisce, orientativo non è aspetto che viene spesso osservato; né che essa possa in qualche modo condizionare i rapporti in-terumani su un piano collettivo, in una dimensione di relazioni interumane organizzate per la realizzazione di un fine comune. Nessuno oserebbe sospettare, ad esempio, che essa possa avere avuto un significato preminente proprio nel percorso di un mae-stro della comunicazione come Gandhi, che nella sua

Autobiogra-fia dedica alla timidezza non poche pagine, scrivendone, peraltro,

in maniera molto semplice, senza troppe teorizzazioni, ma me-diante la descrizione di episodi significativi della sua vita privata e pubblica.

In un capitolo riguardante i suoi primi passi nella società inglese, Gandhi parla di una timidezza intesa come «scudo», risultato di una infantile forma di «viltà» che gli impediva, in determinate situazioni di gruppo, di reagire ed esprimere i suoi personali pen-sieri.

Fui eletto nel comitato esecutivo della società vegetariana e par-tecipavo scrupolosamente a tutte le assemblee, ma non riuscivo a spiccicare una parola… era ben strano che mentre gli altri espri-mevano il loro pensiero durante le riunioni, io restavo completa-mente zitto: non che non mi fosse mai venuta la voglia di parlare, ma non sapevo come fare, tutti gli altri soci mi parevano più in-formati di me. Succedeva poi spesso che proprio quando stavo per farmi coraggio ad aprire bocca, si cambiava argomento, que-sto durò per un bel pezzo1.

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Considerato che il prendere parola nell’ambito di una riunione richiede un minimo di spirito di iniziativa, Gandhi fa esperienza di una vera e propria forma di codardia anche nelle piccole cose della vita quotidiana, esperienza che giunge fino a ciò che egli definisce il «tarlo della menzogna». Tale il titolo di uno dei capi-toli dedicato ai tempi del suo passaggio a Londra. Allora era in uso tra gli studenti indiani emigrati nel Regno Unito mentire sul-la propria condizione matrimoniale, spacciandosi per scapoli là dove magari erano mariti e padri di famiglia. Gandhi non rifuggì dall’emulare tale atteggiamento, ciò che gli procurò una crisi di coscienza e un’ottima occasione per approfondire la conoscenza di sé. Il prodotto dell’autoanalisi che Gandhi svolse nel suo intimo si evince con evidenza da una lettera che egli si decise a scrivere ad una anziana signora conosciuta un giorno in un ristorante di Brighton, allorché, vedendolo in difficoltà con il menu, si prestò gentilmente per tradurglielo, e nei mesi seguenti, sulla base di una amicizia ormai consolidata, si adoperò per creare le condi-zioni di un suo fidanzamento con qualche giovane amica del suo giro. La signora non sapeva che Gandhi era già sposato.

Dal giorno che ci incontrammo a Brighton lei è stata buonissima con me, ha avuto cura di me come una madre. Lei ritiene che mi dovrei sposare perciò mi ha fatto conoscere giovani donne. Per evitare che le cose vadano avanti di questo passo, devo confes-sarle che non sono degno del suo affetto: quando ho cominciato a venire da lei avrei dovuto dirle che sono sposato, ma sapevo che in Inghilterra gli studenti indiani dissimulano il fatto di essere sposati e ho seguito il loro esempio. Ora capisco di aver sbagliato. Devo precisare che sono stato sposato da bambino ed ho un figlio. Sono desolato di averle nascosto queste cose per tanto tempo1.

La timidezza pare a Gandhi strettamente connessa con la men-zogna, in quanto il mentire talvolta coincide con la mancanza del coraggio di affermare la verità, con la dissimulazione o, il che è lo stesso, con il mascheramento di una cosa con un’altra. Tali

196 titudini possono essere risultato di una forma di paura interiore che arresta gli slanci possibili dello spirito e dell’istinto, i quali trovano nel camuffamento della realtà una via più semplice per affermarsi. Senza dubbio Gandhi aveva ben capito, facendone costante esperienza, che la timidezza celasse sì, nel confrontar-si con gli altri, un certo timore imbarazzante e paralizzante, ma anche una disposizione aperta verso il silenzio e una pratica più misurata del discorso e della parola nei loro fini essenziali, quelli del comunicare. La timidezza, aspetto negativo e debole del ca-rattere, diventa così potenza creativa del dialogo e del comunica-re, di un comunicare che esorbita in un agire pacato, coraggioso poiché esigente la liberazione dalla menzogna, il conseguimento del principio della «non-menzogna», senza cui diventa difficile la pratica stessa della ahimsa, ovvero non-offesa, non-violenza. È piuttosto lampante, nell’Autobiografia, questo passaggio da una esperienza passiva della timidezza a un’etica del silenzio, direm-mo, attivo, della parola sufficiente entro una struttura sociale di comunicazione in cui si evidenzia la differenza tra un parlare-comunicare e un parlare-chiacchierare.

Fu solo nel Sud Africa che superai la mia timidezza, sebbene non la vinsi mai completamente... Titubavo ogni qual volta mi trovavo ad affrontare ascoltatori sconosciuti e quando potevo evitavo di parlare; ancora oggi non credo correi o saprei partecipare ad una riunione formata da amici occupati a conversare piacevolmente. Devo aggiungere che la mia costituzionale timidezza, oltre a far-mi prendere in giro, non far-mi ha procurato nessun’altra difficoltà. Anzi, capisco che mi è stata di aiuto, e la fatica che faccio per esprimermi, che una volta mi imbarazzava, ora l’apprezzo, mi è stata utile perché mi ha insegnato a pesare le parole. Ho preso na-turalmente l’abitudine di controllare i miei pensieri... l’esperienza mi ha insegnato che il silenzio fa parte della disciplina spirituale di un seguace della verità, dato che la tendenza a esagerare, a sopprimere o a modificare la verità, consapevolmente o inconsa-pevolmente, è una debolezza naturale dell’uomo, e il silenzio ser-ve a vincerla... Quanta gente c’è smaniosa di parlare... non si può certo dire che tutto questo parlare sia utile all’umanità. In realtà,

197 la mia timidezza mi è servita da scudo e da difesa, mi ha aiutato a crescere, mi ha guidato nella percezione della verità1.

Misura di difesa di fronte a un mondo chiassoso, alla chiacchiera esteriore ed esagerante che modifica quando non sopprime la ve-rità, la timidezza genera quell’universo interiore entro cui diventa più probabile avere una «percezione» della verità. Nel declinare passivamente l’invito al parlare-chiacchierare la realtà umana si apre alla sua intimità, alle sue debolezze, generando riflessione, meditazione, ragionamento, ciò che renderà più genuino l’atto posteriore del parlare-comunicare. Nel silenzio che avvolge la persona timida si stabilisce un dialogo intimo con la verità, o ciò che con tale termine si vuole significare, e una disposizione più circospetta nei confronti degli altri.

Forse soltanto ora diventa intuibile il significato della timidez-za come esperientimidez-za educativa del silenzio. La timideztimidez-za patita si confonde spontaneamente con il silenzio, ossia il tacere, dal quale l’ego cerca di erompere lottando con se stesso. Questa interiore costante silenziosa battaglia rafforza lo spirito rendendolo au-dace in un senso diverso. All’esperienza della sconfitta, reiterata nelle diverse situazioni imbarazzanti, si sostituisce gradatamente la riflessione, l’esigenza di raccogliersi nella meditazione. Lenta-mente la riflessione sulla propria debolezza diventa controllo del proprio pensiero, specie quando si tratta di esprimerlo in parole al cospetto degli altri. È un’unica progressiva evoluzione inte-riore quella che conduce Gandhi dal raccogliersi taciturno al co-municare attivo. Un esercizio del genere rientra nell’ottica di una pratica di partecipazione e di una generale educazione sociale. La capacità di tacere – frutto di un timore reverenziale apparen-temente puerile – come condizione per un ascoltare più fecondo e un parlare al contempo più contenuto e fertile, la pratica del silenzio – estensione di un’indole riconosciuta nei propri limiti e trasformata nelle sue reali potenzialità comunicative – diventano attitudini essenziali di un concreto percorso educativo, evidente-mente non molto dissimile da quello previsto proprio dalla

198 sofia gandhiana.

Abbiamo all’inizio ipotizzato che la timidezza sia un processo di interiorizzazione di esperienze conforme all’equilibrio natu-rale delle relazioni interumane. Essa terrebbe molto in conto la percezione delle pulsioni implicate in una situazione di gruppo, o anche in una relazione duale. Il tipo timido, sensibile ai flussi pulsionali dell’insieme umano in cui è situato, attiverebbe in sé un laboratorio di emozioni e pensieri, concernenti sé e gli altri. Da tale laborioso processo sorge un comportamento incline alla riflessione, a soppesare le parole e i pensieri, prima di pronun-ciarli. Proprio in ciò è il suo caratteristico valore educativo, spon-taneo fino a quando non emerge una reale autocoscienza, la qua-le importerà senza dubbio un perfezionamento e nell’esperienza e nella teoria. La timidezza dunque, come esperienza dei limiti dell’ego, si rivela come coscienza dell’altro. Generando silenzioso e interiore meditare, produce al contempo le condizioni per edu-carsi dentro il complesso sistema delle relazioni interumane.

Nel documento Carcere e dignità umana (pagine 194-200)