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Intervista a Carmelo Musumeci

Nel documento Carcere e dignità umana (pagine 49-53)

Agnese Pignataro

Carmelo Musumeci ha 55 anni ed è in carcere da 20. Sta scon-tando l’ergastolo nel carcere di Spoleto. La sua famiglia vive in Toscana: la sua compagna, un figlio, una figlia e due nipotini. Ha compiuto gli studi in carcere da autodidatta, superando le varie restrizioni (in particolare quelle previste dal regime 41 bis, il «carcere duro», a cui è stato sottoposto per 5 anni) e le difficoltà pratiche dovute a spostamenti da un carcere all’altro e alle condizioni quotidiane di detenzione. Nel 2005 si è laureato in Scienze Giuridiche all’università di Firenze con una tesi in Sociologia del Diritto dal titolo Vivere l’ergastolo1. Attualmente è iscritto all’università di Perugia al corso di laurea speciali-stica. Ha concluso tutti gli esami ed ora sta preparando la tesi con il Prof. Carlo Fiorio, docente di Diritto Processuale Penale È promotore della campagna «Mai dire mai» per l’abolizione dell’ergastolo2 ed è autore di diverse raccolte di racconti e po-esie, tra le quali Le avventure di Zanna Blu e Gli Uomini Ombra, editi da Gabrielli Editori.

Ha scritto nella conclusione della sua tesi di laurea: «Spes-so si vuole che il detenuto, in quanto prigioniero, debba ac-cettare di essere punito ingiustamente, si vuole che il de-tenuto sia sempre e soltanto ciò che il carcere lo farà essere. Spesso al detenuto conviene non avere mai un pensiero au-tonomo e conviene essere sempre d‘accordo con il suo car-nefice. Invece il carcerato ha tanto da trasmettere e da co-municare. In carcere convivono: dolore, prostrazione, fede,

1 Si può scaricare all’indirizzo http://www.ristretti.it/commenti/2009/novembre/pdf9/ tesi_musumeci.pdf

48 abbandono, odio, pentimento, talvolta brutalità, ma anche un senso infinito di umanità e la possibilità di rinascere.»

Come le è venuta l’idea di scrivere fiabe?

Probabilmente perché le fiabe trovano una felice soluzione. Probabilmente perché le fiabe fanno crescere interiormente e spesso molti detenuti, fra cui io, si trovano in carcere o perché non sono cresciuti o perché sono cresciuti troppo in fretta. Probabilmente per rivalsa delle fiabe che nessuno ci ha mai rac-contato o semplicemente perché una fiaba con la sua magia può trovare una via di uscita nel buio dei nostri cuori.

Probabilmente perché la fantasia ci offre la speranza che la vita reale non ci può più dare.

Probabilmente perché le fiabe ci riaccendono la speranza che possiamo tornare ancora bambini.

Probabilmente perché quando alla sera ti accorgi che la vita di-venta troppo difficile e non hai più nessuna speranza che la vita può cambiare in meglio ci si attacca a tutto, anche alla ma-gia, perché senza neppure la speranza della nostra fantasia non avremmo la forza di affrontare le avversità della vita.

Probabilmente perché tramite le nostre fiabe possiamo immagi-nare un eventuale lieto fine.

Probabilmente perché tramite la magia delle nostre fiabe pos-siamo cancellare l’infelicità ed il dolore del carcere e della no-stra pena.

Probabilmente perché alla notte quando la cella si riempie di orchi, mostri, draghi e sputafuoco, solo la fantasia ci può porta-re in un mondo miglioporta-re.

Scrive più per se stesso, o per gli altri? Secondo lei, che tipo di persone legge i suoi racconti? Chi, invece, non li leggerà mai?

Si scrive soprattutto per gli altri e per essere letti. Noi siamo anche quello che leggiamo e scriviamo.

Io credo che se uno ama la lettura legge di tutto anche se l’auto-re gli è antipatico.

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In che modo la prigione influisce sul rapporto con i figli? È possibile restare «genitore» mentre si è dentro?

Da bambino, avevo fatto questa domanda a mia madre: «Per-ché mi hai messo al mondo senza che te lo chiedessi?» Lei non ha saputo rispondermi, ma ho sempre avuto paura che questa domanda me la facessero anche i miei figli. Per fortuna non me l’hanno ancora mai fatta. Non è difficile mettere al mondo dei figli, è più difficile amarli. Spero di riuscirci nonostante che manco da casa da venti anni.

Quando siamo bambini veniamo abituati alle punizioni fin dalla più tenera età: per questo, diventati adulti, l’esistenza della prigione ci sembra un fatto inevitabile. Esiste un’educazione che possa fare a meno delle punizioni? Qual è l’effetto della punizione sullo sviluppo della persona?

Neppure gli animali si dovrebbero educare con le punizioni. Io per esempio sono persino contrario a rimproverare i bambini perché a volte i rimproveri fanno più male delle botte.

L’amore, lo studio, la legalità, la tolleranza, il senso di giusti-zia, un buon governo, politici onesti e diligenti, una pubblica amministrazione efficiente educano più di qualsiasi carcere e punizione.

E soprattutto il dialogo: fatemi capire dove ho sbagliato e non sbaglierò più.

Si dice che si nasce tutti innocenti, ma non è vero: molti nasco-no culturalmente già colpevoli, come dice il titolo del mio libro

Nato colpevole.

In un’intervista ha detto: «Sono condannato ad essere colpevole per sempre». È come se l’ergastolo congelasse la biografia di chi vi è con-dannato. In che modo è riuscito a preservare e far evolvere la sua storia personale?

Dopo venti anni di carcere sono ancora un’anima viva, ma mor-ta perché prigioniera.

50 Sono un’anima con il dolore nel cuore, stanca e ancora più cat-tiva.

Sono un’anima che non ha potuto realizzare tutti i suoi sogni e che non ha potuto amare come avrebbe voluto le persone a cui vuole bene.

Il cambiamento fuori fa bene ed è utile, il cambiamento dentro se è positivo diventa un problema perché ti fa soffrire di più.

La prigione può essere compatibile con la dignità umana?

No! La giustizia non dovrebbe essere vendetta, quindi niente carcere come pena detentiva, ma verità processuale prima con condanna riparatrice di risarcimento dopo.

Perché esiste la prigione? Perché esiste l’ergastolo? Quali potrebbero essere le alternative?

Il carcere aiuta a governare e a ottenere consenso politico ed elettorale.

Il carcere è un affare per tutti ma non per chi ci sta. La legalità prima di pretenderla va data.

Le alternative: chi è stato condannato per omicidio per tutta la vita dovrebbe lavorare per mantenere la famiglia del morto. Non è un’utopia come non lo era neppure quando molti pensa-vano che le donne non potessero fare il lavoro degli uomini. È solo una questione culturale e in tutti i casi, l’utopia è il mo-tore dell’umanità.

Io per esempio preferirei spazzare le strade della mia città che stare chiuso in questa cella a rispondere a queste domande. E in tutti i casi la pena dovrebbe servire a migliorare e non a distruggere chi la subisce, ma come fa a migliorare una pena che non finisce mai?

Nel documento Carcere e dignità umana (pagine 49-53)