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Gli «apostoli del Vangelo»

Nel documento Giovanni Calvino e l'Italia (pagine 31-37)

accanto al libro, la parola. La predicazione fu l’altro strumento della propaganda riformata: forse il più potente, in una società di analfabeti come quella cinquecentesca, in cui la trasmissione della cultura restava orale per la maggioranza delle persone. La prima evangelizzazione ebbe luogo dai pulpiti, ad opera di frati che predicavano, come dichiarò l’Ochino, «Christo mascarato in gergo», ossia ricorrendo ad allusioni, sottintesi, mezze parole, mascheramenti, e nelle università, tra professori e studenti spesso itineran- ti e a contatto con le «novità d’oltralpe», per allargarsi poi alle piazze, alle dimore private, ai conventi, grazie all’attività di singoli attivisti. Le parole sollecitavano curiosità e insinuavano dubbi, che trovavano soddisfazione nei libri e nelle conversazioni, attivando circuiti di circolarità sempre più ampi e incontrollabili. Nell’Italia del Cinquecento, la propaganda del messaggio riformato vide infatti protagonisti un composito stuolo di attori sociali, dai predicatori agli intellettuali, ai patrizi, ai mercanti, agli artigiani, alle donne. Qui avvicineremo alcuni tra i più significativi predicatori; più oltre, apriremo una finestra sulla folla variegata dei propagandisti della Riforma.

Un protagonista assoluto della propaganda ereticale in Italia fu Bernardino Ochino da Siena (1487-1564). generale dei cappuccini, egli fu il predicatore più famoso e richiesto nella penisola: un «fenomenale Savonarola della sua generazione», come è stato definito. Del profeta egli aveva l’aspetto, con la sua barba bianca sul volto austero ed emaciato, lo sguardo rapito, la figu- ra fragile e venerabile, avvolta nel ruvido abito dei cappuccini, il ramo più spirituale dei francescani. Il suo eloquio era puro e commosso, impregnato di dolcezza: quando lo udì a Napoli, l’imperatore Carlo V dichiarò che egli parlava «con tale spiritualità e devozione da far piangere le pietre». Ochino percorse l’Italia dal nord al sud, attirando sempre folle enormi di persone, che sin dalla notte precedente lo attendevano in chiesa: a Modena, ad esempio, ebbe un uditorio foltissimo e «ducento homini marmorei» piansero alla sua predica. La sua popolarità fu tale da farlo contendere da principi e governi e da influire anche sugli impegni del papa. Dietro questa immagine pubblica se ne celava però un’altra. Il nome di Ochino ricorre spessissimo nei proces- si inquisitoriali come il primo stimolo ad approfondire le dottrine riformate o a sviluppare una concezione religiosa diversa; le comunità che sorsero in tutta Italia sulla scia della sua predicazione danno una prova indubitabile

della sua capacità di aprire brecce nella fede tradizionale. Ma quali erano i contenuti dei suoi sermoni?

Ochino incentrava la sua predicazione su Cristo, sul suo straordinario messaggio di amore e di misericordia, e sull’illuminazione interiore dello spirito quale testimonianza dell’autenticità della fede e strumento di adora- zione e di compenetrazione con il Messia e Dio:

Contempliamo Cristo sulla croce e mettiamo da parte ogni vanità e teniamo rapporti soltanto con persone immerse nel divino amore, le cui parole, quan- do parlano di Cristo, siano fiamme di fuoco che incitano dal profondo […]. Il vostro spirito vi solleverà a contemplare l’armonia della gerarchia celeste delle tre divine persone.

La fede in Cristo diveniva il fulcro della vita del cristiano e il solo stru- mento di giustificazione: Ochino lo affermava apertamente nelle sue predi- che, esortando a credere che «haveremo il paradiso per gli meriti di Christo». Egli non affrontava il tema delle opere, faceva solamente comprendere la loro inessenzialità ai fini della salvezza, portando «soavemente» i suoi ascoltatori a condividere quel principio fondamentale della Riforma. Tale dottrina e tali modalità di propaganda Ochino le aveva apprese nel circolo napoletano di Juan de Valdés, il riformatore spagnolo che, con la sua concezione sincretistica di alumbradismo, erasmismo e protestantesimo, forgiò le coscienze di molti italiani nel decennio tra il 1530 e il 1541, con il fine di compiere un rinno- vamento dei cristiani e della chiesa senza rotture traumatiche con Roma. La prima formazione valdesiana di Ochino si era poi arricchita di contenuti dot- trinali più precisi, sempre più orientati verso la Riforma: cosicché nel 1542, all’indomani dell’istituzione dell’Inquisizione romana, Ochino lasciò l’Italia per ginevra con una fuga clamorosa. Celebre è la sua lode della città presente nelle Prediche. E Calvino stesso si rallegrò con Viret della sua piena e aperta adesione alla Riforma «sine exceptione». Dall’esilio Ochino continuò la sua attività propagandistica in Italia, rendendola ancora più pervasiva grazie alla stampa e a più esplicite dichiarazioni dottrinali: oltre alle Prediche, egli pub- blicò l’Immagine di Antechristo, l’Epistola ai Signori di Balia della città di

Siena, i Sermoni e altri scritti, che diffusero largamente tra i suoi connazio- nali le concezioni riformate con venature spiritualistiche, insieme con l’idea della natura diabolica del papato e della necessità di sottrarsi al giogo della sua «empia tirannide». godendo dell’appoggio di Calvino, Ochino esercitò il ministero a ginevra, nella comunità italiana; fu poi pastore ad augusta, Lon- dra, Zurigo. La successiva evoluzione del suo pensiero verso posizioni più radicali (spiritualistiche, antipredestinazioniste, antitrinitarie) e favorevoli alla tolleranza religiosa, espresse nei Dialogi XXX (1563), provocò però la rottura con i capi della Riforma magisteriale e l’espulsione da Zurigo, in seguito alla quale terminò i suoi giorni in Moravia, in una comunità anabattista.

Nel 1542, insieme con l’Ochino, un’altra personalità di primo piano della Riforma in Italia lasciò la penisola, con enorme sconcerto di Roma: Pier Martire

Vermigli (1499-1562). La reputazione di cui godeva il canonico lateranense era difatti così alta da far attendere per lui un cappello episcopale: membro di una nobile famiglia fiorentina, egli aveva relazioni altolocate a Roma e a Lucca, ed era rinomato per la sua cultura classica e teologica. In realtà, già da anni Vermigli si era avvicinato alla Riforma, partendo dall’erasmismo e dal valdesianesimo (conosciuto nel circolo napoletano), attraverso le opere di Lutero, Zwingli, Butzer e Calvino. a Lucca, dove fu priore del convento di S. Frediano, aveva fondato la grande ecclesia Lucensis ed era divenuto il principale promotore del movimento ereticale cittadino. Predicatore seguitis- simo dai suoi concittadini, li guidò nel passaggio dalla sensibilità evangelica di stampo erasmiano, diffusa nella città, alle posizioni riformate, operando un profondo rivolgimento religioso: il suo strumento principale fu la spie- gazione metodica e quotidiana dell’evangelo – ogni giorno commentava un passo di san Paolo e ogni sera un salmo –, focalizzandola sulla dottrina della giustificazione per sola fede. La Parola evangelica rimase sempre al centro dell’insegnamento del Vermigli, nella costruzione di un ideale alto di chie- sa, corpo di fedeli uniti a Cristo e da lui guidati, caratterizzato dalla dottrina apostolica, dall’uso puro dei sacramenti e dalla disciplina spirituale.

all’intensa azione pastorale, Vermigli affiancò l’opera di riforma mora- le del clero e l’attività pedagogica, che incentrò sull’insegnamento trilingue (latino, greco ed ebraico) e sul commento della Bibbia, coadiuvato dai cor- religionari Emanuele Tremellio, Paolo Lazise, Celso Martinengo; ad essa collaborò anche Celio Secondo Curione, allora precettore in casa di Nicco- lò arnolfini. La moderazione, la religiosità, l’integrità che caratterizzarono Vermigli contribuirono al successo della sua opera. Il convento divenne un centro di pietà e di cultura, che attrasse molti intellettuali e fedeli, consen- tendo un duraturo radicamento dell’eresia a Lucca, nel governo cittadino come nell’importante comunità dei mercanti e nel popolo.

Quando emigrò per recarsi in Svizzera, a Strasburgo, a Londra e a Oxford (dove fu professore di ebraico), a Zurigo (dove insegnò teologia), continuò a guidare dall’estero il gruppo dei fedeli, coadiuvando l’opera evangelizza- trice di Celso Martinengo e di girolamo Zanchi, subentrati al suo posto e poi anch’essi pastori della diaspora. Per la propaganda in Italia scrisse Una

semplice dichiaratione sopra gli XII articoli della fede christiana (1544), un «catechismo a’ rozzi» per i «charissimi frategli», come egli lo definì, ma in realtà pamphlet di larga circolazione nei circoli eterodossi italiani, in cui si illustravano i principi dottrinali ed ecclesiologici riformati in contrapposi- zione a quelli cattolici. Dieci anni dopo, all’insegnamento subentrò l’amara rampogna per la preferenza accordata dai suoi connazionali alla vita agiata sotto l’«orrenda cattività dell’anticristo». Nell’esilio, Vermigli si impegnò per la causa religiosa divenendo il teorizzatore più sistematico e uno dei più rigidi difensori della dottrina calvinista, in particolare contro gli antiprede- stinazionisti e gli antitrinitari. In tale veste partecipò a importanti colloqui di religione (a Poissy, a Oxford sulla Cena, sulla predestinazione a Strasbur- go), alla riforma del diritto ecclesiastico inglese (con Ochino) e pubblicò

numerose opere teologiche, di commento alla Bibbia, su questioni dottrinali (eucaristia e Trinità) e di sintesi dottrinale (Loci communes, 1576).

Lasciando gli esuli, soffermiamoci ora su una figura che, dopo l’espa- trio, decise di tornare in Italia per svolgervi opera di evangelizzazione: l’esule napoletano Scipione Lentolo (1525-99). La sua vita è stata giudi- cata una sintesi delle «esperienze archetipiche della Riforma in Italia». Da carmelitano divenne predicatore evangelico e, a seguito della persecuzio- ne inquisitoriale, allievo di Calvino, che lo inviò, dopo un periodo di for- mazione a ginevra, a svolgere opera pastorale nelle Valli valdesi; associò all’attività di pastore, quella di polemista, politico e storico, pubblicando la famosa Historia delle grandi et crudeli persecutioni (1595), oltre a nu- merosi altri scritti, per concludere infine la sua esistenza come ministro a Chiavenna. L’aspetto più caratteristico della sua biografia è, comunque, l’impegno quotidiano per l’evangelo – fu uomo «quotidie laborans evan- gelii causa» –, profuso con grande passione nei vari campi della sua azio- ne, ma anche con grande rigidità verso gli avversari teologici, soprattutto suoi connazionali.

La predicazione del Lentolo nelle Valli (ad angrogna, nella cura di San giovanni e nella diaspora attigua, a Carignano, a Prali ecc.), iniziata nel 1559, fu agevolata dalla straordinaria ricettività della popolazione locale al messaggio riformato, dal livello assai avanzato dell’organizzazione eccle- siastica e della consapevolezza dottrinale delle comunità valdesi: egli stesso lo comunicò con soddisfazione a Calvino, che seguiva con grande premura l’opera dei pastori colà inviati da ginevra. I ministri, accolti con grande en- tusiasmo, potevano predicare in templi pubblici, e continua era la richiesta di ministri e di maestri da ginevra. Erano i frutti della precoce adesione alla Riforma del movimento valdese e dell’evangelizzazione effettuata sia dai barba locali sia da pastori formati a ginevra e a Losanna (come Etienne Noël, Jean Vernou e goffredo Varaglia), in un momento storico in cui la persecu- zione religiosa nel ducato era stata piuttosto blanda. Tuttavia, il progressi- vo inasprirsi della repressione pose Lentolo di fronte a crescenti difficoltà, scaturite dalla politica coercitiva del duca e dalle conseguenti scelte militari o nicodemitiche dei valdesi. Lentolo fu molto intransigente nell’affermare la coerenza con la propria fede e sempre in completa sintonia con Calvino in merito all’ortodossia dottrinale, mentre si mostrò più comprensivo nei confronti della resistenza armata dei valdesi. Per loro incarico, nel 1560 egli tradusse in italiano e corredò di una prefazione la Confessione di fede

delle chiese di Francia presentata al duca Emanuele Filiberto. Nel 1565 fu infine espulso dal ducato di Savoia. Dell’evoluzione religiosa nelle Valli e dei progressi della Riforma in esse Lentolo offrì un importante quadro nei suoi scritti storici – dalla Lettera ad un Signore di Geneva (1561) all’Hi-

stoire mémorable de la guerre faite par le Duc de Savoye, Emanuel Phili- bert, contre ses subiectz des Vallées (1561), alla summenzionata Historia –, che hanno un posto di onore per la causa riformata e per la genesi della storiografia valdese, anche per il loro valore analitico e documentario. Egli

contribuì altresì con le sue traduzioni alla divulgazione di temi della storia europea tra gli italiani.

Il rigorismo del Lentolo si manifestò pienamente quando divenne pastore a Chiavenna nel 1567, nella lotta contro l’eresia diffusa tra i suoi connazionali sin dagli anni Quaranta, dal soggiorno di Camillo Renato: egli fu il primo artefice del controverso Editto delle Tre Leghe (1570), che stabiliva l’espul- sione per quanti non si conformavano alla religione cattolica o riformata e attraverso il quale ebbe infine ragione del dissenso ereticale. Lentolo man- tenne comunque stretti contatti con l’Italia, dei cui avvenimenti informava con puntualità i pastori di Coira, Basilea e soprattutto Zurigo, offrendo loro un osservatorio privilegiato sul suo paese d’origine.

II

Nel documento Giovanni Calvino e l'Italia (pagine 31-37)