PRIME CONSIDERAZIONI SULLA RIFORMA TRIBUTARIA
Sommario: 1. Premessa. — 2. II mancato coordinamento del sistema tributario con il sistema della sicurezza sociale. — 3. Il ripiego sull’imposta locale sui redditi. — 4. Assenza di un pregnante collegamento tra accertamento agli effetti dell’IVA e accertamento ai fini delle imposte sul reddito. — 5. La riforma tributaria e la finanza regionale e degli enti locali. — 6. Altre insufficienze della riforma. — 7. Conclusioni.
1. Il varo definitivo da parte del Consiglio dei Ministri, nella riu nione del 29 settembre 1973 scorso, degli ultimi decreti delegati sulla ri forma tributaria relativi alle imposte sul reddito dovrebbe capitare, come si suol dire, a proposito. Sono infatti a tutti ben note le ragioni per cui si impone ormai con carattere di indilazionabilità, pena l’aggravamento dell’attuale sfavorevole situazione economica, il passaggio dell’azione di governo dalla fase della così detta politica dei cento giorni a quella di avvio delle riforme e cioè di rilancio della politica dell’espansione e degli impieghi sociali. L’auspicato miglior assetto del carico tribu tario conseguente alla riforma dovrebbe appunto fornire per il futuro, almeno teoricamente, un’adeguata base a tale avvio ed anzi condizionarlo attraverso i tanto attesi effetti di incremento del gettito. Sia bene inteso però che l’entrata in vigore dei decreti dal 1° gennaio 1974 produrrà even tualmente tali effetti solo a medio e lungo termine ad iniziare dall’anno 1975, per cui va da sé che le attuali incombenti esigenze di cassa per il finanziamento delle riforme varate e da varare nel breve periodo non po tranno essere soddisfatte fisiologicamente attraverso il ricorso alle en trate offerte dal nuovo sistema fiscale, ma dovranno trovare la loro fonte finanziaria in provvedimenti estemporanei emanati ad hoc, come appunto è avvenuto con il primo aumento dell’imposta di fabbricazione sui pro dotti petroliferi, con il condono fiscale e come sarà con altri provvedi menti che, a quanto sembra, i ministeri finanziari stanno studiando.
Anche se nel nostro paese la funzione fiscale è stata sicuramente sottovalutata, è comunque pacifico che un moderno sistema tributa rio dovrebbe adempiere alla funzione di insostituibile sostegno di qual siasi politica riformatrice: non è una novità, infatti, che le imposte rap presentano il necessario supporto della spesa pubblica, come dire del principale strumento strutturale dell’economia. Né può dimenticarsi che un nuovo ed agile sistema tributario dovrebbe esaltare la possibilità di utilizzare la manovra congiunturale dei tributi affiancandola e com pletandola con gli altri strumenti della politica fiscale e che quest’ul- tima, se poggiata su una moderna ed organica disciplina normativa e
se condotta in modo ordinato, rappresenta forse l’unica valida alter nativa al semplice impiego della politica monetaria per raggiungere obiettivi di stabilizzazione e di rilancio dell’economia. Sul piano poi degli squilibri settoriali e territoriali il sistema tributario potrebbe es sere opportunamente utilizzato per operare, attraverso lo strumento de gli incentivi e dei disincentivi, ai fini strutturali tanto nel campo del riequilibrio regionale quanto in quello del superamento delle patologie e delle disfunzioni che possono verificarsi nel mercato in sede di pro duzione e di distribuzione.
Se sono queste le funzioni assegnate ad un moderno sistema tributa rio, dobbiamo confessare che la lettura seppure affrettata dei testi defi nitivi dei decreti delegati relativi alle imposte dirette non riesce com pletamente a fugare alcuni seri dubbi che si sono venuti via via affac ciando sulla possibilità che esse possano essere soddisfatte nella loro globalità dalla nuova struttura tributaria. Tali perplessità valgono, a nostro avviso, meno per quei compiti diretti solo ad ottenere, come si è detto, un incremento del gettito attraverso il semplice miglioramento delle procedure di accertamento (che indubbiamente, come diremo più avanti, dovrebbero garantire nella nuova disciplina una seppur parziale perequazione) e di più per quelli tesi ad apprestare un idoneo stru mento di politica economica ed a diminuire il divario in termini di pressione tra imposizione indiretta e diretta.
Ad essere più espliciti, diciamo subito che la nostra impressione è che la riforma si sia limitata a razionalizzare ed a rendere più effi ciente il precedente sistema. Il che potrebbe essere decisamente positivo se si ritenesse che questo ha finora, bene o male, adempiuto ai suddetti compiti; in tale ipotesi, infatti, per potersi ritenere in qualche modo soddisfatti, sarebbe sufficiente accrescere e rendere manifesta la poten ziale attitudine del sistema, cosa che non si può negare che si sia fatto con la riforma. Il fatto è che, invece, ben pochi possono prendere sul serio certe affermazioni che ancora si fanno sulle « nascoste qualità del vecchio sistema », essendo abbastanza evidente che esso ha dato tutto quello che poteva in termini di pressione fiscale e di flessibilità ai fini anticongiunturali ed è ormai talmente decrepito, congestionato ed ane lastico da essere arrivato, indipendentemente dal sopravvenire della riforma, al limite estremo di resistenza. Indubbiamente all’ancora per poco vigente struttura tributaria italiana si addicono le parole pronun ciate dal Ministro francese delle finanze, Calonne, nel lontano 1787 a pro posito del sistema che di lì a poco la rivoluzione avrebbe travolto: «Non si può fare un passo in questo immenso reame senza imbattersi in leggi diverse, costumi contraddittori, privilegi, esenzioni, immunità dalle im poste, ogni sorta di diritti e pretese; e questa disarmonia generale complica l’amministrazione, ne turba il corso, ne fa inceppare la mac china e accresce spese e disorganizzazione in ogni dove».
Sarebbe stato dunque logico che quelle parti politiche interessate a varare una seppur minima politica delle riforme incidente struttural mente sulla sottostante realtà non si fossero accontentate solo del rag giungimento di limitati obiettivi di razionalizzazione e di
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mento, ma avessero contemporaneamente preteso di rendere non solo più equo e rispettato il nuovo sistema, ma soprattutto in grado di darci pun tualmente, senza immanenti pericoli di saturazione e di squilibrio, quel livello di pressione tributaria, quell’inversione e redistribuzione del flusso del reddito e quell’accennata capacità di manovra ebe, come si è detto, sono richieste dalla politica strutturale della spesa pubblica secondo le grandi opzioni della seppur tramontante programmazione.
Da questo punto di vista le nostre perplessità rischiano invece di essere largamente giustificate e confermate specie se poste in relazione alla tendenziale neutralità della riforma varata in questi giorni. Ed in- vero, mentre essa può ritenersi in linea di massima soddisfacente ri guardo ad alcuni anche rilevanti aspetti — semplificazione e riduzione del numero dei tributi; estensione del metodo della ritenuta d’acconto sui redditi personali; aumento delle detrazioni ammesse per detti red diti; abolizione della dichiarazione unica dei redditi per i lavoratori subordinati che non producano redditi di altra natura; istituzione (an che se ancora solo sulla carta) dell’anagrafe tributaria; eliminazione di un numero grandissimo di esenzioni e di agevolazioni; introduzione di più pesanti sanzioni in caso di inadempimento; modifica del sistema di riscossione in modo che esso non sia più basato sull’iscrizione prov visoria e sul conguaglio in via definitiva, ma sul pagamento delle im poste da esaurirsi quest’ultimo nello stesso anno della dichiarazione; previsione per le persone fisiche dell’obbligo di versamento di un ac conto da calcolare sul reddito imponibile dell’anno precedente e per le persone giuridiche di un acconto calcolato dalle stesse attraverso una forma di autoliquidazione su quanto dichiarato nello stesso anno; ampliamento della platea impositiva raggiunto, ad es., per l’imposta sul reddito delle persone fisiche, attraverso la previsione di una presunzione di speculatività nelle vendite di immobili; più precisa ed analitica de terminazione del reddito d’impresa in base alle scritture contabili — deve considerarsi invece non del tutto positivamente sotto due preva lenti profili riconducibili in definitiva alla mancanza di una chiara volontà politica di trasformazione strutturale del sistema. Il primo pro filo si traduce in omissioni a nostro avviso di particolare rilevanza ai fini di garantire una più equa imposizione; il secondo attiene ad un insoddisfacente assetto dato ad alcune parti della nuova normativa. La riforma, pertanto, nonostante gli indicati aspetti positivi, corre il serio rischio di non essere accolta favorevolmente sia per quello che in essa non c’è, ma avrebbe dovuto esserci, sia per quello che c’è, ma è stato mal disciplinato.
2. Sotto il profilo delle omissioni basti ricordare la totale assenza di un coordinamento del sistema delle imposte con quello della sicurezza sociale, la mancata introduzione del tributo patrimoniale e l’assenza di pregnanti collegamenti tra l’accertamento dell’IVA e quello delle im poste dirette.
Con la mancata integrazione del sistema delle imposte con quello della sicurezza sociale sembra chiaro che la riforma non solo rinuncia
ad esplorare i vantaggi che deriverebbero da tale integrazione, ma si espone inevitabilmente ad una crisi allorché si arriverà, come dovrà arrivarsi, alla fiscalizzazione di una larga parte degli attuali contri buti previdenziali. Neppure i più ottimisti possono illudersi che il si stema tributario derivante dalla riforma sarà così efficiente, flessibile ed equo da consentire, senza gravi tensioni, l’aumento del prelievo ne cessario per la fiscalizzazione. Sarebbe stato perciò decisamente auspi cabile, se non necessario, darsi conto fin d’ora della instaurazione di un meccanismo che permettesse di realizzare una graduale fiscalizzazione dei contributi sociali per quanto attiene almeno le assicurazioni malat tie e la pensione base con priorità delle prime, in modo da facilitare il superamento del sorpassato principio mutualistico per la costru zione del servizio sanitario nazionale previsto dalla riforma sanitaria. Non si dimentichi che i contributi sociali pagati dai lavoratori hanno la caratteristica di un tributo regressivo che grava sul contribuente non in base alla sua capacità contributiva, ma in maniera percentual mente uniforme al salario: essi pertanto costituiscono una vera e pro pria « tassa » sul salario. D’altro canto i contributi sociali pagati dal datore di lavoro non facilitano una politica di piena occupazione per ché favoriscono le imprese che usano il sistema degli straordinari assu mendo quindi caratteristiche di « tasse » sulla occupazione. Inoltre essi gravano in fin dei conti sul lavoratore perché elevano i costi di pro duzione che si trasferiscono in avanti sui prezzi o all’indietro sui salari, contenendo comunque la possibilità di espansione delle remunerazioni dirette reali. 3
3. Altra omissione sulla quale è opportuno spendere qualche parola è poi, come si è detto, quella costituita dalla rinuncia all’introduzione di un’imposta patrimoniale ordinaria col conseguente ripiego sull’im posta sui redditi patrimoniali tramutata poi in imposta locale sui red diti (ILOE). Eppure non deve dimenticarsi che essa è ormai applicata da molto tempo in quasi tutti i paesi occidentali industrializzati ed ha dato sempre buoni risultati sia sotto l’aspetto di una più equa tas sazione sia sotto quello dell’entità del gettito conseguito. Essa trova la sua ragion d’essere nell’esigenza di colpire la ricchezza statica non collegata di per se stessa all’esercizio di un’attività produttiva e cioè, in ultima analisi, quella particolare capacità contributiva che presen tano i redditi derivanti da un patrimonio e che si riferisce a patri moni anche indipendentemente dal distacco da essi di un reddito in senso stretto. Questa capacità si ricollega al particolare beneficio che i patri moni ricavano dalla finanza pubblica soprattutto per effetto delle spese sostenute dagli enti locali per i pubblici servizi da essi erogati.
Diremmo anzi che proprio dalla stessa carta costituzionale discende un vincolo al legislatore ad istituire l’imposta patrimoniale. Ed invero, se si tiene presente il disposto dell’art. 53 Cost., secondo il quale ogni cittadino deve concorrere al riparto delle spese pubbliche in relazione alla propria capacità contributiva, e se si considera che la capacità contributiva è manifestata non solo dalla capacità economica in senso
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stretto come unanimemente si ritiene, ma anche, in termini più propria mente economico-finanziari, dal godimento di pubblici servizi, è evidente che nel nostro caso il patrimonio gode dei pubblici servizi molto più, ad es. del reddito o delle entrate lorde e quindi, manifestando mag gior capacità contributiva, debba essere assoggettato prima di ogni altra ricchezza ad imposizione. Come si vede, non sarebbe nemmeno difficile giungere ad individuare addirittura un vincolo costituzionale ad intro durre una siffatta imposta.
Essa avrebbe costituito, inoltre, la classica imposta da attribuire agli enti locali (regioni, comuni e province): infatti i patrimoni costi tuiti da case, terreni ed aziende, hanno una ben precisa localizzazione e quindi possono essere ripartiti come base imponibile fra i vari enti locali, in considerazione del luogo in cui sono ubicati. Gli enti locali, d’altra parte, per la loro competenza edilizia e per la stretta correla zione territoriale con i patrimoni possono utilmente cooperare al loro accertamento. Le spese locali per infrastrutture e per servizi sostenute da tali enti valorizzano, come si è autorevolmente rilevato, questi beni sia direttamente che indirettamente attraverso lo sviluppo metropoli tano ed è logico allora che a carico dei suddetti patrimoni gli enti frui scano di una tassazione il cui gettito sarà tanto più dinamico quanto più dinamica è la vita locale. Giustamente osserva al riguardo il Forte, che di recente è tornato ad occuparsi brillantemente del problema, che la discriminazione all’interno di tale imposta attuata attraverso la di versità di aliquote (o anche, diremmo noi, attraverso la concessione di abbuoni) fra i vari enti locali, può ben essere accettata in relazione al fatto che nei vari ambienti i diversi patrimoni ricevono una diversa valorizzazione. Ciò non toglie, peraltro, che, avendo di mira il generale assetto economico del paese, si potesse anche pensare, d’accordo con un altro studioso, il Maffezzoni, di attuare tale discriminazione in riferi mento alle qualificazioni che il programma economico nazionale fa delle diverse zone territoriali : così potrebbe accentuarsi l’imposizione sui beni patrimoniali localizzati nelle zone e appartenenti ai settori che appunto il programma considera più sviluppati, alleggerendola invece sui beni patrimoniali localizzati nelle zone e appartenenti ai settori che lo stesso programma considera depressi.
Del resto l’imposta patrimoniale avrebbe permesso anche di attuare una serie politica discriminativa della tassazione riguardo a particolari forme di ricchezza che denotano appunto maggiore capacità contribu tiva, senza costringerci — come è stato richiesto e parzialmente otte nuto dai sindacati relativamente ai redditi di lavoro subordinato -— ad operare sull’imposta unica personale attraverso interventi discriminatori nell’ambito di tale imposta, la quale per la sua natura personale, glo bale e non reale, non ammette agevolmente siffatte diversificazioni se non ai fini dell’accertamento. Questi interventi, diretti ad assicurare, at traverso detrazioni, un trattamento più agevolato a particolari redditi, riprodurranno, anche se giustificati, gli stessi inconvenienti che si lamen tano ora riguardo all’imposta di ricchezza mobile e che invece con la riforma tributaria si volevano evitare. D’altronde abbiamo ragione di
credere che i sindacati difficilmente avrebbero continuato ad insistere per ottenere un ulteriore parziale sgravio dei redditi di lavoro subordi nato dall’imposta personale, se fosse stata accolta la proposta, che era pure loro, di istituire un’imposta patrimoniale. Anche ad essi non sa rebbe sfuggito che attraverso tale imposta si poteva raggiungere più correttamente l’obiettivo non solo di differenziare il trattamento a favore dei redditi derivanti da lavoro, ma anche di effettuare la discrimina zione all’interno dei redditi d’impresa in funzione del capitale investito; cosa che invece ora si presenta difficile anche se non impossibile attuare con la sola manovra delle detrazioni (la quale, come è noto, esplica la sua efficacia esclusivamente tra categorie di redditi).
Accertata l’opportunità di introdurre un’imposta ordinaria sul pa trimonio, bisognerà ora rispondere ad un’altra domanda: per quale ra gione sarebbe stato possibile tassare il patrimonio e non, come è in qual che modo avvenuto, il solo reddito patrimoniale cui sono stati aggiunti, con decisione tecnicamente opinabile, anche il reddito di impresa e quello professionale? La risposta è facile: se tutti i redditi patrimoniali di una data entità risultassero dallo stesso ammontare di patrimonio e tutti i patrimoni dessero un reddito nel senso stretto del termine, i due tributi sarebbero identici. Ma le cose non stanno così. Yi sono infatti patrimoni che non danno un reddito: non consideriamo i gioielli, i qua dri, i mobili che sono di difficile accertamento e che forse sarebbe bene tassare forfettariamente insieme con gli immobili includendoli nel loro valore od assoggettare alle imposte indirette al momento della loro ces sione. Ci riferiamo invece ai patrimoni tipo le aree fabbricabili e ai possessi immobiliari privati di lusso che, come Forte ha giustamente posto in luce, hanno una redditività monetizzabile inferiore al loro valore, perché danno un vantagio diverso in termini di quiete, signo rilità, prestigio sociale, ecc.: chi ha un patrimonio oltre che un red dito ha più capacità contributiva di chi ha solo un reddito senza pa trimonio, perché il primo riceve particolari benefici dalle spese locali e perché il secondo ha meno sicurezza finanziaria, meno capacità di ot tenere credito, fa più fatica a conseguire un reddito dovendolo ottenere con il lavoro e non ha vantaggi extrapecuniari di consumo connessi al possesso del patrimonio.
Ciò significa che attraverso l’imposta locale sui redditi voluta dal l’amministrazione finanziaria sfuggiranno senza dubbio all’imposizione quei patrimoni che non danno redditi tassabili in senso stretto e che invece, per la maggiore capacità contributiva che manifestano, dovreb bero andare assoggettati ad imposta a maggior ragione dei redditi.
D’altra parte, come non tutti i patrimoni danno dei redditi in senso stretto, così non tutti i redditi patrimoniali derivano esclusivamente dal patrimonio: il lavoro e l’organizzazione entrano diversamente nei vari redditi dotati di una componente patrimoniale. Basti pensare alle im prese artigiane di produzione, all’esercizio di professioni e di attività commerciali, tutti casi in cui il patrimonio giuoca un ruolo poco rile vante ed invece sono preponderanti il lavoro e l’organizzazione. "È evi dente che la tassazione di tali redditi con un’imposta di natura, anche
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se solo approssimativamente, patrimoniale snatura — come in effetti ha snaturato — l’imposta stessa fino a farle cambiare i suoi stessi originari connotati, senza poi voler tener conto delle duplicazioni di tassazione che, come già abbiamo avuto occasione di dire in un nostro precedente scritto, si verificano in relazione alle altre imposte (personali o sulle persone giuridiche) che colpiscono gli stessi redditi.
In verità, c’è chi ragionando in termini di capacità contributiva, è arrivato a conclusioni opposte a quelle da noi qui sostenute. ÍS il caso di un acuto studioso di diritto tributario, il Gaft'uri, il quale, partendo dalla considerazione, in parte condivisibile, che il concetto di capacità contributiva cui si riferisce l’art. 53 Cost. quale limite alla potestà im positiva dello Stato è idoneo nella sua genericità a imprimere un sep pur minimo carattere di razionalità al sistema tributario, arriva tra l’altro alla conclusione che le uniche manifestazioni accettabili della capacità contributiva sono quelle connesse ad incrementi delle fonti produttive e cioè, in altri termini, quelle che non costituiscono fonti pro duttive. Da ciò appunto deriverebbe tra l’altro il divieto di istituire imposte ordinarie sul patrimonio e la conseguente superiorità sul piano costituzionale delle imposte sui redditi patrimoniali.
Tale opinione, peraltro, non tiene a nostro avviso conto del fatto che, come è affermato da un altro studioso, il Maffezzoni, la capacità contributiva è assunta dall’art. 53 Cost. come termine di riferimento e commisurazione per disciplinare il concorso delle spese pubbliche e queste ultime, « una volta tradotte in servizi pubblici, influiscono po sitivamente sia sulla formazione degli incrementi delle fonti produttive sia sulla conservazione delle fonti produttive stesse» .
Né pare altresì accettabile l’ulteriore argomento traducentesi nella