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Sommario: 1. Premessa – 2. La legittimazione «di posizione» e l’emergere di esigenze di stampo comunicativo – 3. La ricerca di una qualche semplificazione nella redazione delle decisioni – 4. Le esplicazioni a latere delle decisioni – 5. Le sintesi delle decisioni – 6. L’utilizzo dei social media – 7. L’utilizzo delle lingue straniere – 8. Un appunto per una non-conclusione.

1. Premessa

La legittimazione degli organi che esercitano la giustizia costituzionale è certamente un tema tra i più classici negli studi di diritto costituzionale e di diritto costituzionale comparato1. L’argomento, del resto, è troppo

importante per non attirare l’attenzione ed è troppo delicato per non richiedere approfondimenti: la legittimazione della giurisdizione, ed a

1 In una prospettiva di diritto comparato, la legittimazione degli organi di giustizia

costituzionale è stata affrontata, tra i molti, da L. Favoreu, La légitimité du juge constitutionnel, in Revue internationale de droit comparé, 1994, pp. 557 ss.; C.R. Sunstein, Introduction – The Legitimacy of Constitutional Courts: Notes on Theory and Practice Feature: Questioning Constitutional Justice: Introduction, in East European Constitutional Review, 1997, pp. 61 ss.; W. Sadurski, Rights Before Courts, Dordrecht, 2005; L. Garlicki, La légitimité du contrôle de constitutionnalité: problèmes anciens c/ développements récents, in Revue française de droit constitutionnel, 2009, pp. 227 ss. Nella dottrina italiana, v. L. Mezzetti, Teorie della giustizia costituzionale e legittimazione degli organi di giustizia costituzionale, in Estudios Constitucionales, 2010, pp. 307 ss.; M. Calamo Specchia (a cura di), Le Corti Costituzionali. Composizione, Indipendenza, Legittimazione, Giornate seminariali, Bari, Università degli Studi, 25-26 maggio 2011, Torino, 2011.

* Professore Ordinario di Diritto Comparato presso l’Università di Pisa. Coordinatore

scientifico pro tempore dell’Area di diritto comparato del Servizio Studi, Corte costituzionale della Repubblica Italiana.

maggior ragione di quella che incide sui rami più alti dell’ordinamento, si pone esattamente al crocevia tra l’esplicazione del principio democratico e l’inveramento storico dei postulati del costituzionalismo. Se è chiaro che siano questi ultimi a rappresentare le fondamenta su cui poggiano i sistemi di giustizia costituzionale, è parimenti indiscutibile che questi sistemi non possano semplicemente trascurare il significato e l’impatto del radicarsi della democrazia come sistema di governo.

L’equilibrio (o la ricerca di un equilibrio) tra queste istanze è una cifra che, da sempre, caratterizza gli organi di giustizia costituzionale e, non a caso, l’argomento è tra i più dibattuti, non solo a livello dottrinale. Un dibattito che ha generalmente preso le mosse dai rapporti tra giurisdizione e politica, sotto il profilo suggerito dall’art. 10 della legge 16-24 agosto 1790, sull’organizzazione giudiziaria della Francia post-rivoluzionaria, secondo cui «les tribunaux ne pourront prendre directement ou indirectement aucune part à l’exercice du pouvoir législatif, ni empêcher ou suspendre l’exécution des décrets du Corps législatif sanctionnés par le Roi, à peine de forfaiture»2: sulla scorta

di questa impostazione, il contemperare democrazia e costituzionalismo, per le Corti, si è tradotto, storicamente, nell’individuazione dei limiti entro i quali il sindacato giurisdizionale può svilupparsi, al di qua di una linea metaforica oltre la quale le determinazioni politiche possono dirsi «libere»3.

Il discorso si è riverberato sulla legittimazione, proprio per l’idea che solo di fronte ad atti che incidano sui cardini ordinamentali essenziali il principio democratico debba irrimediabilmente cedere il passo. In buona sostanza, se la giurisdizione è un’istituzione «anti-maggioritaria»4, la sua legittimazione

dipende dal ruolo «anti-maggioritario» – appunto – che esercita, un ruolo

2 Il principio è stato poi consacrato, nella sua più nota formulazione, con la Costituzione

del 1791: «les tribunaux ne peuvent s’immiscer dans l’exercice du pouvoir législatif ou suspendre l’exécution des lois» (Titolo III, Cap. V, art. 3). Questa impostazione ha evidentemente contribuito a degradare – per riprendere la classica definizione di Montesquieu – «la puissance de juger, si terrible parmi les hommes», al rango di una funzione «pour ainsi dire, invisible et nulle» (De l’esprit des lois, Livre XI, Chapitre VI).

3 L’individuazione del confine che separa la libertà di azione degli organi politici

ed il sindacato delle corti è una preoccupazione che accomuna qualunque organo giurisdizionale, a fortiori se esso esercita funzioni apicali. Enunciazioni che riconoscono l’esistenza di questo confine sono rintracciabili nella giurisprudenza di qualunque corte costituzionale o suprema, inquadrate ora nella categoria delle «political questions» (si pensi alla relativa doctrine elaborata dalla Corte suprema statunitense) ora in quella dell’«acte de gouvernement» (nozione classica dell’ordinamento francese) o in quella della discrezionalità legislativa, o in altre ancora.

4 Il riferimento è, ovviamente, alla «Counter-Majoritarian Difficulty» enunciata da

A.M. Bickel, The Least Dangerous Branch. The Supreme Court at the Bar of Politics, Indianapolis, 1962, pp. 16 ss.

La comunicazione istituzionale degli organi di giustizia costituzionale

che, chiaramente, non può tradursi in un sostituirsi al legislatore, ma che non può, però, neppure significare che le illegittimità che abbiano una valenza significativa possano essere tollerate in nome della forza, della legittimazione e del consenso di chi le abbia perpetrate. Al riguardo, la Corte suprema statunitense, nel pieno della seconda guerra mondiale, quando cioè le preoccupazioni per i diritti individuali era fisiologico che cedessero il passo, almeno in certa misura, alle esigenze collettive, ebbe a scrivere parole di inarrivabile efficacia: «The very purpose of a Bill of Rights was to withdraw certain subjects from the vicissitudes of political controversy, to place them beyond the reach of majorities and officials and to establish them as legal principles to be applied by the courts. One’s right to life, liberty, and property, to free speech, a free press, freedom of worship and assembly, and other fundamental rights may not be submitted to vote; they depend on the outcome of no elections»5.

È evidente che con la trattazione di queste problematiche si va al cuore della legittimazione delle Corti. In questa prospettiva, del resto, dovrebbe inscriversi un qualunque contributo che intendesse concentrarsi sulle fondamenta del ruolo assegnato alle giurisdizioni nel sistema. Ferma restando la centralità di questa prospettiva – per così dire «tradizionale» –, un altro profilo nel quale la tematica della legittimazione si articola pare che meriti di essere esaminato. Un profilo che sta conoscendo, negli ultimi anni, un interesse crescente, non solo per la sua interdisciplinarietà, ma anche per le ripercussioni che in concreto hanno i fenomeni su cui si appunta. Il riferimento va alle modalità attraverso le quali le Corti si aprono all’esterno e danno notizia della propria attività. Tale aspetto, apparentemente accessorio, è, in realtà, sempre più rilevante, nella misura in cui disegna la traiettoria mediante cui la legittimazione dell’organo si dipana, per farsi, auspicabilmente, da postulato del sistema, una realtà effettuale, verificabile alla luce del consenso che l’azione riesce a catalizzare.

Negli ultimi lustri, la comunicazione come strumento di consenso ha acquisito uno spazio di primissimo piano, anche negli studi di stampo più prettamente giuridico. In questo quadro, è estremamente significativo lo sviluppo avuto dal diritto della comunicazione istituzionale, che tuttavia si è concentrato essenzialmente sui rapporti tra organi politici e consociati, sull’assunto dell’indefettibilità, per i primi, di una azione che veicoli efficacemente messaggi verso i secondi, in chiave di visibilità e, in ultima analisi, di creazione o di rafforzamento del consenso6. Da questa dinamica 5 Così si espresse il Justice Robert Jackson nella majority opinion della sentenza West

Virginia State Board of Education v. Barnette, del 1943 (319 U.S. 624, 638).

6 Sulla comunicazione pubblica, con particolare riferimento a quella istituzionale, anche

sono rimasti esclusi, almeno in un primo tempo, gli organi giudiziari, proprio perché la non centralità del consenso ai fini della legittimazione ha fatto presumere che non fosse indispensabile un’attività di comunicazione.

Contro una tale presunzione, si è progressivamente constatato che, in concreto, oltre ad una legittimazione che potrebbe definirsi «di posizione», derivante dal semplice fatto di essere le Corti gli organi garanti della Costituzione, le giurisdizioni costituzionali non possono non avere anche una legittimazione che viene dall’attività concretamente svolta. Ma perché questa legittimazione sussista, nella forma dell’adesione alle pronunce rese, è necessario che gli atti posti in essere vengano adeguatamente divulgati e resi fruibili. Non solo tra gli «addetti ai lavori», ma – almeno per quanto concerne i contenuti essenziali e gli interventi più caratterizzanti – anche oltre questa cerchia di destinatari, con il corollario di dover offrire strumenti diretti a prendere cognizione da parte del non giurista di contenuti di stampo prettamente tecnico, sovente connotati da un elevato grado di complessità.

Una volta acquisita la consapevolezza di questa esigenza, che può ormai darsi per assodata, ci si può e ci si deve interrogare circa la validità della massima tradizionale secondo cui il giudice «parla attraverso le sentenze». Una massima, questa, che viene ancor oggi ripetuta, ma sempre più stancamente, e sempre più raramente: all’evidenza, tale crescente difficoltà non può essere casuale, perlomeno se si assume come vero quanto si è venuti dicendo. Del resto, se la comunicazione istituzionale ha raggiunto gli organi di giustizia costituzionale, ed è divenuta – in forme certo variabili e con diversi gradi di intensità – una componente della loro attività, non

M. Miani, Comunicazione pubblica e nuove tecnologie, Bologna, 2005; M.R. Casuale (a cura di), La comunicazione istituzionale e la gestione delle risorse umane, Roma, 2007; A. Rovinetti, Comunicazione pubblica: sapere & fare, 4a ed., Milano, 2010; S. Rolando

(a cura di), Teoria e tecniche della comunicazione pubblica, Milano, 2012; F. Foti – G. Scarpato, Teorie e tecniche della comunicazione pubblica, Milano, 2014; S. Miconi (a cura di), La pubblicità istituzionale dei soggetti pubblici, Bologna, 2014; A. Papini, Post- comunicazione. Istituzioni, società e immagine pubblica nell’età delle reti, Milano, 2014; S. Sepe – E. Crobe, La comunicazione partecipata: narrare l’azione pubblica coinvolgendo i cittadini, Roma, 2014; R. Ingrassia (a cura di), La comunicazione istituzionale nelle organizzazioni pubbliche e private, Milano, 2015; L. Solito – S. Splendore (a cura di), Questioni in comune: giornalismo e comunicazione pubblica tra social media e open data, Bologna, 2016. Con precipuo riferimento agli aspetti giuridici connessi alla comunicazione pubblica, v., ancora ad es., R. Grandi, La comunicazione pubblica. Teorie, casi, profili normativi, nuova ed., Roma, 2007; R. Zaccaria – A. Valastro (a cura di), Diritto dell’informazione e della comunicazione, 6a ed., Padova, 2007; V. D’Antonio – S. Vigliar

(a cura di), Studi di diritto della comunicazione: persone, società e tecnologie dell’informazione, Padova, 2009; R. Razzante, Manuale di diritto dell’informazione e della comunicazione, 5a

La comunicazione istituzionale degli organi di giustizia costituzionale

è dato ignorarla nel momento in cui si intenda ricostruire la collocazione delle Corti nel sistema. Le brevi considerazioni che seguono, da intendersi come il primo passo di una ricerca a più ampio spettro che si auspica di poter intraprendere, muovono proprio da questa constatazione. Senza aspirare in alcun modo a proporre valutazioni in termini di legittimità e/o di opportunità del processo comunicativo che si è innescato, lo scopo che si persegue è semplicemente quello di registrare l’inveramento di questo processo, di misurarne l’avanzamento e, soprattutto, di verificare come le Corti si siano concretamente poste nei suoi confronti.

2. La legittimazione «di posizione» e l’emergere di esigenze di stampo comunicativo Si è accennato, appena sopra, a quella che può definirsi alla stregua di una legittimazione «di posizione», che si offre all’organo di giustizia costituzionale, e che è derivata direttamente, come logico corollario, dalla funzione che ad esso è stata conferita. In una prospettiva storica, ciò è stato particolarmente vero per quegli ordinamenti e per quei contesti storico- politici in cui il radicamento di forme di garanzia della Costituzione è stato strutturalmente concepito come argine alla deriva che il culto della legge, come «espressione della volontà generale», non aveva saputo arginare; la legittimazione «di posizione», comunque, può ben assumersi come un dato invariabilmente connesso all’esistenza di un sistema di giustizia costituzionale.

Se la legittimazione viene dalla funzione di garanzia della Costituzione, è chiaro che la base su cui poggiano gli organi di giustizia costituzionale non è di matrice direttamente democratica, ma piuttosto di matrice razionale. Volendo radicalizzare il discorso, si potrebbe individuare la consacrazione di questi organi nella massima che Charles Evans Hughes propose ben prima di diventare Chief Justice: «We are under a Constitution, but the Constitution is what the judges say it is»7. Come dire che le Corti supreme e/o costituzionali

si legittimano per il fatto di dar voce alla Legge fondamentale, dispiegando, attraverso un procedimento logico ed argomentativo, l’autorità di cui

7 La massima è tratta dal discorso tenuto presso la Chamber of Commerce, ad Elmira, New

York, il 3 maggio 1907 (pubblicato in Addresses and Papers of Charles Evans Hughes, Governor of New York, 1906–1908, New York, 1908, p. 139), quando Evans era governatore dello Stato. Di lì a poco (nel 1910), verrà designato Associate Justice della Corte suprema, carica che manterrà fino al 1916, salvo poi tornare presso la suprema giurisdizione federale nel 1930, come Chief Justice.

sono investite. Il riconoscimento di questa funzione storica delle Corti si è avuto alle più diverse latitudini, una volta affermatisi regimi di democrazia liberale, con pochissime eccezioni. Finanche in un ordinamento come quello francese, dove l’influenza della tradizione giacobina ha ritardato non poco il radicamento di un’istanza di garanzia (giurisdizionale) della Costituzione, la legittimazione del Conseil constitutionnel ha finito per imporsi. Se ne ha una dimostrazione nel rifiuto sempre più chiaro del messaggio che, ancora nel 1981, il deputato socialista francese André Laignel tentava di veicolare: «Vous avez juridiquement tort parce que vous êtes politiquement minoritaire»8.

Si trattava degli ultimi fuochi di una concezione destinata ad essere di lì a poco spazzata via dalla constatazione – che poteva ben dirsi «rivoluzionaria» – secondo la quale, per dirla con Louis Favoreu, «la politique a[vait] été saisie par le droit»9.

Quanto sin qui detto, nel ripercorrere dati ormai largamente acquisiti, per non dire scontati, può senz’altro valere ancora a descrivere, sul piano teorico, la collocazione degli organi di giustizia nel sistema e le fonti che ne alimentano la legittimazione. È d’altro canto indiscutibile che queste argomentazioni siano valide oggi allo stesso modo in cui lo erano decenni fa. Il punto è, però, che, nella realtà, qualcosa è cambiato, sia pure al di fuori del circuito la cui descrizione trova sede nei manuali di diritto costituzionale o di diritto costituzionale comparato.

Se non è stata toccata la radice della legittimazione, sono andate mutando, invece, le forme attraverso cui la legittimazione si rinsalda. La legittimazione «di posizione» non può più in alcun modo prescindere da una legittimazione connessa all’attività in concreto svolta dalle Corti. E su questo punto non è dato proporre l’esistenza di una continuità rispetto al passato, e ciò non per le forme mediante le quali le Corti agiscono, poiché – oggi come ieri – la legittimazione passa essenzialmente dalla ricerca di un’adesione al processo argomentativo-razionale che guida l’elaborazione delle soluzioni. Ad essere profondamente mutato è il modo di veicolare i messaggi relativi all’attività che le Corti pongono in essere; un mutamento, questo, che ha riguardato, sì, le Corti, ma che è stato (ed è) innanzi tutto un fenomeno che ha coinvolto (e coinvolge) l’intera società.

Non sono dunque gli organi di giustizia costituzionale e la loro collocazione nel sistema ad essere cambiati, bensì le società in cui tali organi

8 L’argomento fu esplicitato nella seduta dell’Assemblée nationale del 13 ottobre 1981,

per replicare alle proteste dell’opposizione di centro-destra nei confronti della legge sulle nazionalizzazioni in corso di approvazione.

9 Il riferimento va al volume di L. Favoreu, La politique saisie par le droit. Alternances,

La comunicazione istituzionale degli organi di giustizia costituzionale

operano. E il cambiamento non è di poco conto, poiché la razionalità cui fa appello, in chiave di legittimazione, la funzione dell’organo di giustizia costituzionale deve fare i conti con la constatazione che, «dans un monde où les médias jouent le rôle d’une caisse de résonance et d’une loupe grossissante, les émotions comptent plus que jamais»10.

Se sono le emozioni a guidare la percezione dei messaggi, allora l’immagine dei «saggi» (come continuano a chiamare in Francia i giudici costituzionali) che, dall’alto della torre, dicono cosa sia la Costituzione si sbiadisce sempre di più, fino a rischiare di vedersi sovrapporre l’immagine sconcertante che Bob Dylan disegna in Jokerman: quella di «judges dying in the webs that they spin».

Fatta questa premessa, delle due l’una: o le Corti continuano ad operare nel modo tradizionale, rischiando di veder disperso il capitale di legittimazione di cui sono strutturalmente dotate, oppure le Corti si adeguano alle esigenze della società, senza snaturarsi, certo, ma accettando le sfide della modernità.

L’alternativa è, all’evidenza, puramente fittizia, poiché, se le Corti costituzionali vogliono continuare ad esercitare il ruolo che è stato loro affidato, non possono chiudersi al mondo: riproporre lo schema del «parlare con le sentenze» significherebbe questo, per il semplice fatto che una tale modalità di veicolare i messaggi non basta più per farsi ascoltare. Se ne ha un riscontro eloquente negli scritti degli studiosi dei processi comunicativi, i quali non esitano a rimarcare che «le società sono sempre state modellate più dal tipo dei media con cui gli uomini comunicano che dal contenuto della comunicazione»11: poiché viviamo nell’epoca dei social, non è pensabile che

la comunicazione possa passare efficacemente attraverso un atto formale, complesso e sovente complicato, come è (e come deve essere) una sentenza.

L’idea che sia il destinatario a doversi adattare alle forme di espressione del produttore del messaggio non può essere validamente proposta in generale, e non può esserlo, a maggior ragione, allorché esistano per il destinatario diverse opzioni tra cui scegliere per acquisire contezza del messaggio. Nella specie, una corte che si limiti alle forme tradizionali (ed anacronisticamente limitate) di comunicazione è una corte che può anche illudersi di stimolare i destinatari a compiere uno sforzo di comprensione finalizzato ad una più compiuta informazione; alla prova dei fatti, però, si tratta di una corte che, a fronte dell’impossibilità oggettiva di imporre la lettura ai destinatari, sta affidando integralmente ad altri la veicolazione dei contenuti che le sue

10 La citazione è tratta da D. Moïsi, La géopolitique de l’émotion: Comment les cultures de

peur, d’humiliation et d’espoir façonnent le monde, Paris, 2008, p. 5.

11 Cfr. M. McLuhan – Q. Fiore, Il Medium è il Messaggio. Un inventario di effetti

pronunce recano.

Il rischio di un atteggiamento di chiusura è, infatti, quello di far parlare i mass-media, più che le sentenze, il che non può non ingenerare il rischio di una banalizzazione, stanti tra l’altro i contenuti, sovente di non agevole decifrazione, che delle sentenze sono propri.

In buona sostanza, è ormai un dato da cui partire nell’analisi che, se le Corti vogliono essere padrone del loro destino, debbono farsi esse stesse comunicatrici. E, allora, il vero problema è quello di elaborare schemi che possano guidare l’attività di comunicazione istituzionale, il che appare lungi dall’essere agevole, anche in ragione del fatto che le acquisizioni provenienti dalle prassi più risalenti, essendosi sviluppate con e per organi di matrice politico-rappresentativa, sono solo molto blandamente applicabili agli organi che amministrano, su base prudenziale, la giustizia.

Quali che siano gli schemi da seguire, è indiscutibile che una policy comunicativa non possa più essere ritenuta un accessorio puramente eventuale dell’attività giurisdizionale. Gli indici e gli esempi che potrebbero citarsi a suffragio di questa asserzione sono molti, ma, nel panorama comparatistico, la vicenda più emblematica, tra tutte, è probabilmente quella dell’istituzione della Corte suprema britannica.

La vicenda, troppo nota per essere qui ripercorsa, ha preso avvio dal Constitutional Reform Act 2005, con cui al vertice del sistema delle impugnazioni del Regno Unito si è sostituito l’Appellate Committee della House of Lords con una Supreme Court of the United Kingdom12. Una corte

tutta nuova, dunque, nelle forme, ma molto meno sotto altri profili, visto che a farne parte sono stati chiamati gli stessi Law Lords che svolgevano già il ruolo di supremi giudici dell’ordinamento, e visto che la giurisprudenza della House of Lords è stata per così dire incorporata nella nuova istituzione, che l’ha recepita come insieme di precedenti orizzontali. Senza voler tacciare la riforma di mero maquillage istituzionale, è chiaro che questi elementi di