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aracoeliano, intessuto da Manuele, funzioni retroattivamente da romanzo terapeutico per la figura materna, come abbiamo ipotizzato nel capitolo precedente È possibile che

costituisca, cioè, «una manipolazione psicologica dell’organo malato». Non è, forse,

vero che la narrazione di Manuele si articola secondo «un itinerario complicato, vera e

propria anatomia mitica, corrispondente non tanto alla struttura reale degli organi

genitali, quanto a una specie di geografia affettiva» del corpo materno? Non è, forse,

vero che essa ci restituisce un simbolico affresco del «mondo uterino» aracoeliano con

la Totetaco della fecondità, la Roma cruenta della metamorfosi e dello sventramento

dell’amato sembiante e l’Andalusia della sterilità, di una femminilità desertica,

stravolta e inane, inaridita nelle sue promesse di fertilità? Ma cosa possiamo dire

dell’intenzionalità autoriale? Anche Morante, allora, nel rappresentare simbolicamente

una situazione di partenza di rischio per la persona, vuole operare una «manipolazione

psicologica» del lettore, posto in una condizione di crisi esistenziale e socio-politica,

come quella dell’arco cronologico preso in esame? Lo studio di Lévi-Strauss, che

abbiamo citato sin qui, può ancora fornirci qualche valida indicazione in merito:

[…] niente di simile avviene ai malati delle nostre società, quando si è ben spiegato loro la causa delle loro disfunzioni invocando secrezioni, microbi o virus. […] la relazione fra microbo e malattia è esterna alla mentalità del paziente, è una relazione di causa ed effetto: mentre la relazione fra mostro e malattia è interna a quella stessa mentalità, ne sia essa consapevole o meno: è una relazione fra simbolo e cosa

3 Ecco il commento assai favorevole di De Martino alle brillanti intuizioni del collega: «Con ciò si pone

in tutta la sua ampiezza il problema della efficacia dei simboli mitico-rituali, non soltanto nel senso di un tornare e di un riprendere una situazione iniziale, ma anche in quello di raggiungere conflitti e disordini inconsci per la loro natura organica o anche semplicemente meccanica. […] non c’è dubbio che tale rapporto tra nesso mitico-rituale e terapia psicoanalitica costituisce uno dei temi più fecondi e promettenti affiorati nel più recente corso del movimento di rivalutazione esistenziale della vita religiosa e del mito. Non si tratta più di applicare semplicemente il metodo psicoanalitico di interpretazione alla religione – con tutti i limiti e i pericoli che tale applicazione comporta –, ma di istituire in modo sistematico un paragone fra le condizioni di funzionamento e di successo della terapia psicoanalitica e le condizioni di funzionamento e di efficacia esistenziale del nesso mitico-rituale nella concreta vita religiosa; con ciò si attinge un punto di vista più alto, che rendendo conto delle differenze non meno che delle omologie promuova una migliore conoscenza della genesi, della struttura e della funzione della religione, e al tempo stesso arricchisca di nuove istanze le prospettive di sviluppo non soltanto della psicoanalisi come tale, ma della scienza dell’uomo nel suo complesso». Cfr. E. De Martino, Mito, scienze

simbolizzata, o, per adottare il vocabolario dei linguisti, fra significante e significato. Lo sciamano fornisce alla sua ammalata un linguaggio nel quale possono esprimersi immediatamente certi stati non formulati, e altrimenti non formulabili. E proprio il passaggio a questa espressione verbale […] permette, nello stesso tempo, di vivere in forma ordinata e intelligibile un’esperienza attuale, ma che sarebbe, senza quel passaggio, anarchica e ineffabile.4

Ciò che ci preme estrapolare dalla teoria «induttrice» dell’antropologo francese è,

non tanto la funzione riparatrice del mito, quanto l’importanza strategica, in termini

sociali, del processo di verbalizzazione di un rapporto «ineffabile» come quello tra

corpo malato e malattia, ossia, appunto, la verbalizzazione della crisi in termini più o

meno finzionali. In questo senso, anche la relazione tra linguaggio letterario e

linguaggio della medicina, come preconizzato dall’antropologia medica

5

, potrebbe

attestarsi sulla complementarità funzionale. Infatti, se il significato della malattia (o,

uscendo fuor di metafora, della debolezza di uno status psico-sociale) passa attraverso

delle pratiche narrative, allora occorrerà che per tali pratiche si disponga di un apparato

interpretativo, che combini la prospettiva antropologica, quella letteraria e la riflessione

sul potere delle procedure discorsive. L’efficacia simbolica della performance narrativa

diventa, dunque, il punto di partenza per un lavoro di critica culturale:

Sul piano della costituzione di forme culturali, all’uomo è dato problematizzare e rimettere in causa le sfere di ovvietà in cui si trova gettato, e tale rottura con la realtà condivisa rappresenta una delle possibilità in cui si esprime autenticamente l’umanità dell’uomo. Tuttavia, all’uomo è preposto anche un compito culturale (che è anche una necessità biologica), che è quello della socialità. Pertanto, ogni problematizzazione (attiva o passiva) delle evidenze dell’esistenza, affinché non se ne perda il nesso dialettico con tale compito culturale, deve compiersi, come ha messo in luce De Martino, “entro una ovvietà di sfondo, che custodisce tesori di latenti memorie” che assicurano all’esistenza la sua “immediata storicità”, cioè la sua efficacia reintegratrice e l’adesione ai valori intersoggettivi storicamente determinati.6

4 C. Lévi-Strauss, Antropologia strutturale, cit., p. 222.

5 «La prima antropologia dichiaratamente “medica” – il lavoro sul campo degli antropologi impiegati

nella sanità pubblica su scala mondiale negli anni Cinquanta – è nata sì per dare sostegno ai medici generici, ma anche come critica alla loro ingenuità culturale». Cfr. B. J. Good, Narrare la malattia. Lo

sguardo antropologico sul rapporto medico-paziente, Torino, Einaudi, 2006, p. 41. 6 G. Stanghellini, Antropologia della vulnerabilità, Milano, Feltrinelli, 1997, pp. 93-94.

Anche per De Martino, dunque, la connessione di «psichico» e «somatico», alla

luce di una comune narrazione, ha un effetto modellizzante, per così dire

paradigmatico:

Il simbolo mitico-rituale si atteggia come strumento tecnico che, in date condizioni culturali, funziona da dispositivo per segnalare il rischio, per dare un orizzonte figurativo alle alienazioni ricorrenti e per trasformare il ritorno irrelato e servile del passato in una ripetizione attiva e risolutiva, aperta alle regole umane e ai valori culturali.7

Sull’asse Lévi-Strauss-De Martino, le rappresentazioni simboliche, cioè mitico-