Rufo, come si è visto nel capitolo precedente a proposito del Mondo salvato), adesso,
nella nuova “società dello spettacolo”, al centro del discorso si va a collocare l’immagine,
con le passibili implicazioni merceologiche. Tuttavia, per l’autore implicito, resta ferma
la funzione complementare di object d’art del feticcio. L’idolatria, opportunamente
materiata, rientra nella gamma psicologica della galleria dei personaggi femminili
morantiani
40, tutti caratterizzati da una fragilità esistenziale e da una Weltanschauung
primitivistica, da “mondo magico”, per cui ci sarebbe una corrispondenza tra forma
dell’immagine e suo contenuto, o per meglio dire tra inanimato e animato. Storicamente,
il culto dell’immagine del santo rientra nel culto dei morti, che ha ingenerato la
ritrattistica funeraria
41: «dalla onoranza funebre privata si sviluppò la venerazione
pubblica dei santi. Era la comunità a promuoverla ed era giustificata con i miracoli,
qualora lo scomparso non avesse senz’altro diritto al culto come martire. L’immagine
poteva contribuire a completare la trasformazione qui descritta»
42. Ciò ha reso possibile
la dotazione, per il mortale, di un corpo simbolico immortale:
Ai membri defunti di una comunità si ridava lo status che serviva loro per la presenza in un gruppo sociale. D’altra parte, e in altro tipo di rapporto, il fare le immagini gravitava intorno a una “trasformazione possessione; diventa quindi una forma di feticcio, in cui riemergono le connotazioni magiche e arcaiche del termine (la foto come emanazione del referente reale)», p. 74.
40 Questo, anche a voler prescindere dal dato della rifrazione autobiografica sul personaggio, dell’“alibi”
appunto. Cfr. E. Morante, Lettera, in Alibi, Milano, Longanesi, 1958; poi in Opere I, cit., p. 1382: «Tutto quel che t’appartiene, o che da te proviene, / è ricco d’una grazia favolosa […] // […] non ho che un voto solo: il tuo nome, il tuo nome, / o parola che m’apri la porta del paradiso. // Nel mio cuore vanesio, da che vi regni tu, / le antiche leggi del mondo son tutte rovesciate: / l’orgoglio si compiace d’umiliarsi a te, / la vanità si nasconde davanti alla tua gloria, / la voglia si tramuta in timido pudore, / la mia sconfitta esulta della tua vittoria, / la ricchezza è beata di farsi, per te, povera, / e peccato e perdono, ansia e riposo, sbocciano in un fiore unico, una grande rosa doppia». Soltanto uno degli esempi di prelievo dal lessico dell’erotica mistica in una fortunata combinazione di sacro e profano.
41 A questo proposito, si veda anche S. Ferrari, La psicologia del ritratto nell’arte e nella letteratura,
Roma-Bari, Laterza, 2002, pp. 21-23 e il terzo capitolo dedicato alla fotografia. Un altro riferimento imprescindibile per quanto concerne i rapporti tra fotografia e lutto è R. Barthes, La camera chiara. Nota
sulla fotografia, Torino, Einaudi, 2003.
ontologica” […] che subiva il corpo diventando un’immagine. Si trasmetteva all’immagine il potere di manifestarsi in nome e al posto del corpo. […] Esso forniva all’immagine, con la quale si praticava però un altro ambito simbolico rispetto a quello dei corpi viventi, un nuovo tipo di autorità.43
In ottica antropologica, dunque, l’icona-ritratto rafforza la posizione sociale del
soggetto rappresentato. E lo fa, originariamente, attraverso un simbolismo magico-rituale.
La «nostalgia dell’identico», che ha insito il rischio degenerativo della paralisi storica, si
manifesta nella volontà di duplicazione del reale attraverso l’immagine, della verità
attraverso la finzione, topos platonico alla base delle derive iconofobiche e
iconoclastiche. Eppure, paradossalmente, proprio tale imitatio naturae, secondo Ernesto
De Martino, assicura lo svolgimento della Storia «in una sorta di regime protetto»:
Si stava nella storia «come se non ci si stesse»: ma poiché questa pia fraus serviva per starci, la imitatio
naturae non riproduceva l’eterno ritorno naturale ma lo riplasmava in una dinamica che liberava la
coscienza della situazione umana e dischiudeva l’esserci-nel-mondo. […] ma perché l’eterno ritorno naturale diventasse oggetto di esperimento e fosse riplasmato in legge operativa, occorreva che il rischio umano di essere travolto dalla pigrizia del tornare non costituisse più il problema culturale centrale.44
Nel “mondo magico” descritto dall’antropologo, feticcio e reliquia potrebbero
rientrare, a nostro avviso, tra gli «oggetti forti», protetti da tabu che ne preservano la
qualità accessoria, quella di «mezzi magici» che «sorvegliano l’ingresso o il deflusso
incontrollato della forza, costituendo in tal guisa un compenso all’angoscia
esistenziale»
45. L’iterazione, garantita dall’immagine, comporta la «reincorporazione» del
potere personale; contrasta il senso della fine del mondo e del disfacimento del sé, o più
prosaicamente la paura della morte, e ottiene per l’uomo l’annessione a un orizzonte di
salvezza. L’icona assolve, pertanto, una funzione analoga a quella della liturgia e
dell’annuncio evangelico, come pure dell’eucarestia (il corpo di Cristo replicato
nell’ostia). Il personaggio carismatico – il mago, il santo, il leader – effigiato partecipa
del numinoso
46: è, allo stesso tempo, presente al mondo e assente, perché oltremondano.
43 H. Belting, Antropologia delle immagini, cit., pp. 176-177. 44 E. De Martino, La fine del mondo, cit., p. 224.
45 E. De Martino, Il mondo magico, Torino, Bollati Boringhieri, 1997, p. 116.
46 Il problema della ricezione sociale della rappresentazione è, a questo riguardo, affrontato da Bourdieu nei
termini di un «fondamento dell’illusione carismatica», con particolare riferimento alle signorie rinascimentali: «Basta aggiungere le soddisfazioni morali (e politiche) che procura la percezione di una raffigurazione armonica e armoniosa, equilibrata e rassicurante, del mondo visibile […] per accorgersi che,