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Il typus, la varietà, l’armonia

«La natura si ripete continuamente» («die Natur repetirt sich beständig»), scriveva Schelling nell’Erster Entwurf, ed è soggetta a un processo di «costante metamorfosi», a una «continua alternanza di espansione e contrazione»1. Il ritorno della natura su se stessa è il suo carattere peculiare e le diverse forme nelle quali essa si esprime non sono altro che i «diversi livelli dello sviluppo («Stufen der Entwicklung») di una medesima organizzazione assoluta»2, di uno schema comune che ha, come sua proprietà fondamentale, l’unione di principi opposti. Il percorso intrapreso da Schelling, alla fine degli anni Novanta del Settecento (1797-1799), per elaborare una Naturphilosophie, una filosofia della natura sistematica e ‘speculativa’, ruotava attorno all’esigenza di fornire uno schema interpretativo unitario alle più moderne indagini sperimentali nell’ambito della fisica e della fisiologia. Essa presupponeva, come requisito imprescindibile, l’idea di una saldatura di natura e spirito, di oggetto e soggetto, che costituirà un punto fermo anche per le edizioni successive degli scritti di questo periodo (Schelling ritornerà infatti, tra il 1802 e il 1809, a lavorare su nuove edizioni delle Ideen e del Von der

Weltseele), nel tentativo di conciliare unità e molteplicità. Il suo non era che il punto

di arrivo di un percorso che, per tutto il diciottesimo secolo, aveva visto filosofi e studiosi della natura interrogarsi sulle questioni relative alla vita e al mondo organico, al centro delle quali troviamo, in particolare, due nozioni fondamentali: quella di tipo o modello originario e quella di metamorfosi.

Il concetto di tipo assume nella riflessione settecentesca sulle specie viventi una tale importanza, proprio per la sua capacità di spiegare nel contempo la diversità

1 Primo abbozzo, cit., p. 224. 2 Ivi, p. 125.

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e la somiglianza dei prodotti naturali. Lo sviluppo a partire da una forma comune, che tuttavia non sfocia mai in strutture perfettamente uguali ad altre, acquista un senso soprattutto rispetto all’idea che, nel mondo organico, ogni individuo è identico soltanto a se stesso. Risale alla prima metà del Settecento la riflessione sulla classificazione delle specie e sulla spiegazione del vivente basata sull’idea di una sostanziale continuità della natura, dall’inorganico all’organico. Da Carl von Linné, ma soprattutto dal dibattito francese (Charles Bonnet, George-Louis Leclerc de Buffon, Pierre-Louis Moreau de Maupertuis, Denis Diderot) scaturito a partire dall’assioma leibniziano per cui la «natura non fa salti» e dalla sua idea di una «grande catena dell’essere», i filosofi della natura, in area tedesca da metà Settecento, avevano cominciato a riflettere, in modo sistematico, su un ordine nella natura e sul disporsi delle specie in successione, secondo gradi di complessità crescente3.

Nel primo volume della Histoire Naturelle (1749)4, dedicato alla spiegazione dei vari tipi di generazione, Buffon descrive come soltanto ‘apparente’ il disordine della natura, in cui vige, in realtà, una regolarità non direttamente manifesta. Da Leibniz, Buffon trae l’idea di un’armonia nella natura, che lo induce a elaborare una ‘legge di compensazione’: qualunque fattore, apparentemente ‘negativo’, viene compensato, in una ‘economia generale’ della natura, da uno ‘positivo’ che serve a ripristinare l’equilibrio. Accanto a questa idea, vi era in Buffon il concetto, che accese una lunga controversia, di moule o modello interiore,

3 G.W. Leibniz, Nouveaux essais sur l’entendement humain par l’auteur du système de l’harmonie

préétablie in Oeuvres philosophiques, latines et françaises, publ. par M.R.E. Raspe, avec une

préface de Mr. Kästner, Amsterdam-Leipzig: Schreuder, 1765, IV, 16; trad. it. Nuovi saggi

sull’intelletto umano, a cura di M. Mugnai, Roma: Editori Riuniti, 1982. Troviamo esplicitamente

l’espressione «natura non facit saltus» nella Philosophia Botanica di Linneo, Linnaeus, Philosophia

Botanica, Stockholmiae: G. Kiesewetter, 1751, Chap. III, § 77, p.27, e vi farà riferimento, come è

noto Charles Bonnet, nelle Considérations sur les corps organisés, Amsterdam: Rey, 1762, I, p. 218. Su questi temi è disponibile un’ampia letteratura: J. Roger, Leibniz et les Sciences de la Vie, in

Akten des internationalen Leibniz-Kongresses, Wiesbaden: Steiner, 1969, II, 1969, Ss. 209-219; F.

Duchesnau, Leibniz et la grande chaîne des êtres, in C. Blankaert et al., Nature, histoire, societé, Paris: Klincksieck, 1995, pp. 47-59. Sull’idea metafisica di una continuità degli esseri già A.O. Lovejoy, The Great Chain of Being. A Study of the History of an Idea, New York: Harper-Row, 1965; trad. di. L. Formigari, La grande catena dell’essere, Milano: Feltrinelli, 1966. Su questi temi si vedano anche G. Barsanti, La scala, la mappa, l’albero. Immagini e classificazioni della natura

fra Sei e Ottocento, Firenze: Sansoni, 1992 e P. Duris-G. Gohau, Storia della biologia, Torino,

Einaudi, 1999, in partic. pp. 40-44.

4 G.-L. Buffon, Histoire naturelle, générale et particulière avec la description du Cabinet du Roi,

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alla base della formazione degli organismi viventi. Esistono ovunque nella natura delle molecole organiche che vanno a ‘riempire’ questi moule, stampi interni, specifici per ciascuna specie. I dibattiti intorno a tali tematiche avranno un certo peso nella Germania di metà e fine Settecento, dove giunsero in area tedesca, attraverso autori come Haller5, Kästner, Lavater6, fino a Kant, Herder e Goethe7.

La stessa riflessione sulla struttura seriale della natura, spiegata attraverso il ricorso al concetto di typus, si trova già, tra gli anni Trenta e Cinquanta del Settecento, nelle opere di Swedenborg, dai Principia fino al De cultu et amore Dei. L’infinita varietà dell’universo si deve alla reiterazione di semplici forme di base in grado di riproporsi secondo modalità sempre diverse. Ciò che però caratterizza la concezione swedenborghiana, rispetto a molte altre – dalle quali emerge piuttosto un’immagine ‘statica’ del creato, in cui ciascuna specie, come in Buffon, non fa che riprodurre il proprio ‘modello’ – è l’idea di una processione graduale delle forme dall’una all’altra. Pur non trattandosi, naturalmente di ‘trasformismo’ in senso lamarckiano né di evoluzionismo, siamo di fronte a una concezione della natura che fa leva sul carattere auto-replicativo del mondo organico come di quello inorganico, concepito in un senso ‘dinamico’. L’impressionante ricchezza di forme, che contraddistingue la natura nell’ottica swedenborghiana, è giustificata non da un singolo atto di ‘creazione’ straordinariamente efficace, ma dall’armonico avvicendarsi di forze e di mutamenti, dal continuo infrangersi e ripristinarsi di equilibri, nonché dal graduale accordarsi reciproco delle parti nel tutto nel corso di un inarrestabile processo. Dai primi punti naturali e dalle particelle elementari

5 Haller tradusse in tedesco l’Histoire naturelle di Buffon, col titolo di Allgemeine Historie der

Natur, Hamburg-Leipzig: Grund -Holle, 1750-1757, ma criticò aspramente la sua teoria dei moules interieures nelle Réflexions sur le sistême de la génération de M. de Buffon, traduites d‘une préface allemande de M. de Haller, qui doit être mis à la tête du second volume de la traduction allemande de l’ouvrage de M. de Buffon, Geneve: Barrillot, 1751.

6 Lavater tradusse in parte la Palingénésie philosophique, ou Idées sur l’état passé et sur l’état futur

des êtres vivants, Genève: Chirol, 1769 di C. Bonnet, con il titolo Philosophische Untersuchung der Beweise für das Christentum, Zürich: Füeßlin, 1769.

7 Cfr. D. Kuhn, Empirische und ideelle Wirklichkeit.Studien über Goethes Kritik des französischen

Akademiestreites, Wien-Köln: H. Böhlaus, 1967; F. Dougherty, Buffons Bedeutung für die Entwicklung des anthropologischen Denkens in Deutschland der zweiten Hälfte des 18. Jahrhunderts, in G. Mann-F. Dumont, Die Natur des Menschen. Probleme der Physischen Anthropologie und Rassenkunde (1750-1850), «Sömmering-Forschungen», VI, Stuttgart-New

York: G. Fischer, 1990, Ss. 221-279; S. Poggi, Il genio e l’unità della natura, cit., pp. 129-130; P. Giacomoni, Kant e i terremoti delle teorie in A. Tagliapietra (a cura di), Sulla catastrofe.

L’illuminismo e la filosofia del disastro, Milano: Mondadori, 2004, p. 125-140, in particolare pp.

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dell’universo fino ai fenomeni magnetici, dai molteplici esemplari vegetali e animali, fino alle complesse involuzioni cerebrali e alle sferette corticali, tutto ciò che rientra nel sistema swedenborghiano si spiega in base alla ripetizione di un «tipo» comune. Così come era stato per Boehme – il quale tuttavia era ben lungi dal soffermarsi in una quasi maniacale descrizione dei dettagli – tutto si fonda sul principio di una corrispondenza tra l’esterno e l’interno e sull’idea che la manifestazione esteriore non sia altro che il riflesso dell’attività che avviene nella natura più interiore delle cose. Ma in Swedenborg tale corrispondenza acquista una concretezza particolare, caricandosi di immagini e di simboli particolarmente pregnanti (certamente questi presenti anche in Boehme), ma soprattutto arricchendosi di innumerevoli informazioni tratte da, e messe continuamente a confronto con i suoi studi naturalistici.

Swedenborg si propone di spiegare, sulla base di solide indagini empiriche, la varietà osservabile nella natura: nel mondo minerale, come nel sistema solare, nelle specie viventi, nelle parti organiche degli animali, ma anche, non a caso, nelle manifestazioni dello spirito. Egli applica la nozione di typus nei Principia, a proposito del mondo minerale, delle forze magnetiche e del cosmo, e nell’Oeconomia, ma anche nel Regnum animale, in relazione alla descrizione delle singole parti e funzioni corporee, in collegamento con la tradizione neoplatonica. Con ciò mostra in che modo la varietà dell’universo dipenda da tale schema originario e come la struttura primaria dell’universo e della Terra sia quella di un grande magnete, la cui legge di polarità rappresenta lo schema fondamentale di tutti i fenomeni della natura. Tale idea si ritroverà dopo di lui in Lichtenberg, Ritter, Schelling, ma anche Goethe, che nei Quaderni sulle scienze naturali (1823) definisce il magnete come «fenomeno originario»8. Nei Principia rerum naturalium del 1734, il magnete è «il tipo (typus) ed effige del cielo», un vero e proprio «sistema mondano in miniatura»9.

Ma il concetto di ‘tipo’ serviva a Swedenborg anche in scritti successivi, e in particolar modo nell’Oeconomia regni animalis e nel Regnum Animale, per

8 Älteres, beinahe Veraltetes, «Zur Naturwissenschaft überhaupt, besonders zur Morphologie,

Erfahrung Betrachtung, Folgerung, durch Lebensreignisse verbunden», IX-X (1823), trad. it. Cose

antiche, quasi antiquate, in Massime e riflessioni, Roma-Napoli: Theoria, 1996, pp. 91-94, §434, p.

94.

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spiegare la regolarità osservabile nel mondo organico, nonché il funzionamento del corpo e il suo rapporto con l’anima. L’unità di riferimento, il typus dell’organismo, è il sangue, la cui «natura, costituzione, determinazione, continuità e quantità» determinano le condizioni dell’economia del ‘regno animale’ o «regno dell’anima»10. In quanto modello dell’organismo e suo «genitore», il sangue fornisce all’organismo tutti i principi primi della natura (passività e attività, materia e forze immateriali, pesantezza e volatilità) necessari alla vita, facendo sì che «non esista niente nel corpo che non sia prima esistito nel sangue»11. Riassumendo in sé tutti gli elementi e le forze presenti nel cosmo, il sangue è il medium tra mondo esterno e singolo essere vivente. In esso si riflette l’intero universo, così come avviene anche nelle altre singole parti corporee, ciascuna delle quali è strutturata sulla base di una propria ‘unità’ o tipo fondamentale. Le sferette corticali, piccole sfere di cui si compone il cervello, sono a loro volta dei cervelli in miniatura. Ciascuna di esse è un «tipo minimo» dell’organo cerebrale, di cui ripete sia la forma (sferica o ovale), sia il tipo di movimento: la ‘pulsione’ o attività ‘animatoria’, un particolare tipo di ‘ondulazione’, che caratterizza le sostanze più ‘perfette’ come l’anima, e che, per questo, è assegnata anche alla struttura cerebrale e alle sue parti minime12.

La «perfezione del tutto» risulta dalla «varietà delle parti», di cui si avvale la natura per perseguire il fine della creazione13. L’espressione ‘varietà armonica’ indica tutte le differenze «esistenti tra individui dello stesso genere o della stessa specie», tale per cui, «presi questi collettivamente», non viene alterata la forma del tutto, che resta unitaria14. Le sostanze più pure, invisibili e volatili, appartenenti alla prima e più ‘interiore’ «aurea mondana», così come quelle presenti nei fluidi vitali sottili (la parte più interna e fine del sangue rosso)15, sono estremamente varie e diverse fra loro, cosa che tuttavia sfugge inevitabilmente all’intelletto umano, incapace di cogliere differenze così minute e di esprimerle con termini adeguati16.

10 Id., Oeconomia regni animalis, cit., I, §2, p. 1. 11 Ivi, I, § 4, p. 2.

12 Ivi, II, §195, p. 193. 13 Ivi, II, §299, p. 285. 14 Ivi II, §604, p. 20. 15 Ivi, II, §606, p. 23.

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Con ciò è resa plausibile la sorprendente somiglianza di forme e di processi naturali senza che venga mai meno la peculiarità individuale di ciascun ente, che è tanto maggiore quanto più ci si addentra negli stati più ‘profondi’ della materia, nella sua interiorità. Si tratta di considerazioni non irrilevanti, alle quali si ricollegheranno, riflettendo in maniera analoga, i giovani Goethe ed Herder, all’epoca della stesura delle Idee per una filosofia della storia dell’umanità17. Ciò consentiva di spiegare non solo l’origine della diversità, ma anche l’esistenza di una regola, di una costante, di una ‘analogia’ che giustificherà, soprattutto in Goethe, la comparazione morfologica tra le specie viventi18.

La più grande varietà, scrive Herder nelle Idee, tende all’uniformità e procede a partire da ciò che è semplice. «Ogni cosa sulla nostra Terra è la variazione di una sfera», che costituisce la «figura più perfetta»; eppure non vi è mai nulla di identico: «nessun punto assomiglia all’altro, nessuna atmosfera è simile all’altra». La natura ha un fine, verso il quale concentra tutti i suoi sforzi, creando un’infinita varietà di creature e raccogliendo «i fiori di tutti i mondi in unico giardino»19. Se in una fase iniziale le forme viventi esistono soltanto in forma di stami (stamina), tracce solo abbozzate dell’unico modello nella natura, esse saranno destinate a variare, col tempo, nei modi più diversi. Anche per Herder l’uomo non può cogliere tutte le somiglianze nella multiforme varietà dei viventi, ma «agli occhi dell’Essere eterno, che vede tutte le cose in una concatenazione unitaria, la figura della nascente particella di ghiaccio e del fiocco di neve che se ne forma, ha forse un rapporto che è ancora sempre analogo con la formazione dell’embrione nel seno materno»20.

L’uniformità che il concetto di tipo garantisce si sottrae, per Swedenborg, alle leggi di tipo meccanico, saldando l’idea di un’armonia della natura all’antica formula di una corrispondenza tra macrocosmo e microcosmo. Le specie vegetali,

17 J.G. Herder, Ideen zur Philosophie der Geschichte der Menschheit, cit. ; trad. it. di V. Verra, Idee

per la filosofia della storia dell’umanità, cit. Farò riferimento, ove possibile, alla traduzione italiana

di Verra (Idee); negli altri casi le traduzioni saranno mie (HSW 13).

18 Breidbach ha messo in luce l’importanza di comprendere fino a che punto Goethe abbia

contribuito alla stesura delle Idee di Herder nella ricostruzione della storia del concetto di typus in Goethe. Cfr. O. Breidbach, Goethe Naturverständnis, cit, S. 99. Su questi temi si veda già P. Giacomoni, Le forme e il vivente, cit., in partic. pp. 61-62. Sia Breidbach (S. 23) che Giacomoni (p. 20) hanno sottolineano l’importanza della nozione di typus e della ricerca di un ‘modello’ unitario come uno degli elementi più significativi della riflessione goethiana, alla base del suo metodo morfologico.

19 HSW 13, S. 20.

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dalle infinite forme e dai più variegati colori rispecchiano così le forme e i colori nel grande universo:

esse [le specie vegetali] avevano incise sulle loro foglie, e rappresentate in diversi modi, le serie del destino del globo e della natura dell’universo; alcune, per esempio, erano contrassegnate con stelle, o variegate per mezzo di macchie, e rappresentavano per questo il Cielo trapuntato di stelle; mentre altre raffiguravano il Sole che ardeva con i suoi raggi, ed il suo matrimonio con la terra; altre ancora rappresentavano il circolo del cielo, con le sue sfere distinte in vari colori21.

La forza delle immagini descritte nel De cultu conferma la cura che Swedenborg aveva riposto, per tutta la vita, nell’osservazione attenta della realtà naturale e, negli ultimi anni, anche di quella ‘interiore’. A dare effettivo vigore a tali descrizioni era il fatto che Swedenborg aveva di certo in mente tali immagini, che poteva consultare in numerosi trattati dell’epoca. Tra i testi presenti nella sua biblioteca, ve ne sono alcuni che riportano figure e illustrazioni che certo non sfuggivano alla sua curiosità. Accanto alle descrizioni e alle tavole presenti in trattati anatomici, come quelli di Raymond Vieussens (1641-1715)22, di Frederik Ruysch (1638-1731)23, di Philip Verheyen (1648-1711)24, a cui spesso aveva fatto riferimento nell’Oeconomia, vi erano anche resoconti di viaggi e le descrizioni e raffigurazioni degli animali e dei vegetali che popolavano terre lontane e sconosciute: quelli dedicati al ‘nuovo mondo’, nel caso del De medicina Brasiliensi di G. Piso25 e del

Voyage aux côtes de Guinée et en Amérique (anonimo)26. Agli occhi di un lettore europeo, specie se scandinavo, quella vegetazione, quelle foreste, quelle isole, dovevano sembrare dei veri paradisi terrestri, ai quali anche Swedenborg poteva essersi ispirato nella sua descrizione del Giardino della creazione.

21 De cultu et amore Dei, cit., §19. I riferimenti delle pagine, se indicati, si riferiscono all’edizione

inglese.

22 R. Vieussens, Neurographia universalis omnium corporis humani nervorum, simul ac cerebri,

medullaeque spinali descriptio anatomica, Lugduni [Lyons]: J. Certe, 1684, 1685.

23 F. Ruysch, Thesaurus anatomicus, Amstelodami: J. Wolters, 1701-1726. 24 P. Verheyen, Corporis Humani Anatomia, Lovanii: Aegidium Denique, 1693.

25 Il De medicina Brasiliensi, posseduto da Swedenborg nella sua biblioteca, è il quarto volume

dell’ampia raccolta di G. Marcgrave-W. Piso, Historia naturalis Brasiliae, in qua non tantum

plantae et animalia, sed indigenarum morbi, ingenia mores describuntur et iconibus supra quingentas illustrantur, Leiden-Amsterdam: F. Hack-L. Elzevier, 1648.

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L’originale versione swedenborghiana della corrispondenza macrocosmo- microcosmo era particolarmente efficace nella descrizione della varietà e bellezza delle specie viventi che cominciavano a popolare il grande Giardino terrestre:

questa prole [i volatili], fiera nei suoi ornamenti, dai suoi colori celestiali e fiammanti, dava lustro all’intera atmosfera della Terra; infatti c’erano alcune specie che avevano sulle loro teste corone e creste, ornate di specie di gemme e diademi, che ciondolavano dal collo come costose collane, mentre stelle, aurore e arcobaleni erano riconoscibili nelle loro code; e i raggi del Sole, diventando viola, ornavano le grandi piume delle loro ali; alcuni di essi portavano addosso sulle loro piume i segni dello stesso Paradiso, o del suo grande scenario27.

Se il piumaggio degli uccelli rifletteva la bellezza e magnificenza del Cielo, riflesso, a sua volta, di una realtà superiore, tanto profonda quanto inattingibile, la stessa cosa accadeva per i nuovi esseri viventi:

così anche facevano i banchi e i fondali dei fiumi, rivestiti di vegetazione, mentre davano la nascita ad animali acquatici di ogni specie […] come tartarughe e crostacei, i quali portavano nel loro dorso le loro case, che risplendevano dei chiari colori delle gemme e si avvolgevano in circoli perpetui o spirali, proprio come i Cieli rotanti28.

Ovunque era un continuo riflettersi e riprendersi reciproco di figure e forme, sfumature e colori, senza tuttavia che mai alcuna caratteristica fosse identica alle altre. In questa massima individualità si realizza perpetuamente un’unica legge eterna. La vita, presente nell’intera natura come un’anima, si avvaleva di una materia sempre diversa e diversamente organizzata, per apparire sotto sembianze concrete ogni volta differenti29.

L’armonia che domina in una natura concepita, almeno nella fase iniziale del mondo, come un grande Giardino, non è il frutto di una potente e istantanea creazione dal nulla, che dà vita a un tutto le cui parti sono, fin dall’inizio, completamente ‘preformate’. Ogni ente, nella concezione della natura swedenborghiana, si genera da un semplice abbozzo iniziale, che non ha nulla a che fare con le successive forme che, soltanto nel corso tempo, dovrà assumere. L’essenziale differenza con una «armonia prestabilita» di derivazione leibniziano-

27 De cultu, §26. 28 Ivi, §28. 29 Ivi, §24.

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wolffiana si fonda sul rifiuto, da parte di Swedenborg, dell’idea di un accordo delle parti col tutto già fissato al momento della creazione. «Non può esserci una tale cosa come l’armonia prestabilita»30, perché la somiglianza, l’equilibrio, il concerto tra le varie parti dell’universo è frutto soltanto di un loro graduale concordarsi, sulla base di un unico modello o ‘tipo’ (che funge da ‘bozza’ del progetto della natura) e in vista di un unico fine. Tale era l’«armonia constabilita» di Swedenborg, in cui l’accento si spostava da un Dio artefice di tutto sulla natura e le sue singole parti,

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