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Arte orale e arti della voce

Nel documento L’arte orale. Poesia, musica, performance (pagine 195-200)

Una delle più grandi trasformazioni del Novecento è stata senz’altro la riscoperta della potenza della voce grazie ai nuovi media. Lo registra in un passo indimenticabile uno dei protagonisti degli studi sull’oralità, Eric Havelock, ricor-dando di aver ascoltato nell’ottobre del 1939 il discorso di Hitler in cui esortava a cessare le ostilità, poco dopo l’oc-cupazione della Polonia. Havelock si trovava a Toronto, dunque nel Canada formalmente in guerra con la Germa-nia. Il discorso era stato trasmesso per radio all’aperto e Havelock rievoca l’effetto sugli ascoltatori:

Le frasi stridule, veementi, staccate, risuonavano e riverberavano e si inseguivano, in serie successive, inon-dandoci, tempestandoci, quasi annegandoci, eppure ci tenevano inchiodati là, ad ascoltare una lingua straniera, che nondimeno potevamo in qualche modo immaginare di comprendere1.

La narrazione di Havelock attribuisce a questo episodio una funzione paradigmatica che avrebbe segnato il pensie-1. E.A. Havelock, La Musa impara a scrivere. Riflessioni sull’oralità e l’alfabetismo

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ro e l’esperienza novecentesca. La possibilità di diffondere la voce oltre i confini fisici di un pubblico materialmente presente nello stesso luogo del parlante comporta, secondo Havelock, tanto una riattivazione degli effetti dell’oralità, quanto una sua radicale trasformazione e potenziamento. In un passo visionario, infatti, non soltanto ipotizza che lo stesso McLuhan, giovanotto a Toronto, e Lévi-Strauss, mentre era nell’esercito francese, abbiano ascoltato quella voce alla radio, ma arriva a immaginare l’effetto della radio trasmittente da campo sull’anglista Ian Watt, prigio-niero nella giungla della Birmania: «C’era la bocca che si muoveva, l’orecchio che risuonava e nient’altro, i nostri servi o i nostri padroni; non certo la tacita mano, l’occhio riflessivo. Era davvero la rinascita dell’oralità»2. La rievoca-zione dei presunti effetti di quest’esperienza su alcuni intel-lettuali dell’epoca si unisce alla riflessione sulla differenza tra quella che verrà chiamata oralità primaria e l’oralità secondaria:

Quanto era accaduto non era un ritorno a un passato primordiale, bensì una forzata congiunzione o ricongiun-zione in matrimonio delle risorse della parola scritta e di quella parlata, un matrimonio di natura tale da rafforza-re le energie latenti di entrambe; i media acustici, sia la radio sia la televisione, ovvero il disco e il nastro magneti-co, non sono in grado di assumersi tutto l’onere, o anche soltanto l’onore principale della comunicazione del mondo moderno. Si potrebbe anzi dimostrare che la tecnologia che ha ripristinato l’uso dell’orecchio ha nello stesso tempo rafforzato il potere dell’occhio e della parola scritta così come è vista e letta3.

Ciò che è rilevante, nel contesto di questo capitolo, sono due aspetti interrelati: la ricongiunzione tra parola scritta 2. Ivi, p. 42.

3. Ivi, p. 43. Sul concetto di seconda oralità si veda W.J. Ong, Oralità e

scrittu-ra. Le tecnologie della parola (1982), il Mulino, Bologna 1986; P. Zumthor, in La

presenza della voce. Introduzione alla poe sia orale (1983), il Mulino, Bologna 1984, arricchisce il concetto distinguendo oralità “mista” e “secondaria” e infine defi-nendo la voce trasmessa e/o registrata dai media come “oralità mediata”; Derrick de Kerckhove approfondisce gli ulteriori cambiamenti nell’era digitale parlan-do di “oralità terziaria” in Dall’alfabeto a internet. L’homme “littéré”: alfabetizzazione,

cultura, tecnologia, Mimesis, Milano-Udine 2008 e in La sensorialità terziaria, in A. Buffardi, D. de Kerckhove, Il sapere digitale, Liguori, Napoli 2011.

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e parola parlata e la riattivazione dell’ascolto. Il primo rimanda immediatamente al riemergere di pratiche perfor-mative progressivamente ridotte alla marginalità e alla secondarietà nella cultura otto-novecentesca prevalente-mente orientate al regime della letterarietà, tanto nell’am-bito della poe sia, quanto della musica4. Il secondo riguarda invece la riattivazione dell’ascolto, o meglio, dell’attenzione per i tratti sovragmentali del parlato, quei tratti espressivi e comunicativi che sfuggono alla codificazione della scrittura e sortiscono un effetto accanto e anche indipendentemente dalla comprensione del testo verbale.

Sarebbe una semplificazione fermarsi alla constatazio-ne della funzioconstatazio-ne della mediazioconstatazio-ne tecnologica constatazio-nella riat-tivazione dell’interesse per l’oralità. Questo fenomeno va anche messo in relazione alla crisi della parola scritta, delle pratiche letterarie tradizionali e della loro codificazione in generi. È una crisi che attraversa tutto il Novecento e che s’intensifica nei momenti di ribellione contro l’inte-ra compagine cultul’inte-rale e comportamentale tl’inte-radizionale, manifestandosi nelle sperimentazioni artistiche della prima e seconda avanguardia, parallelamente alla ri/scoperta della dimensione inconscia, del corpo, dell’Altro.

Gli atti performativi, concepiti nella cultura letteraria come momenti secondari rispetto a quello fondante della scrittura, come esecuzioni o riproduzioni di opere comple-te in se scomple-tesse, si autonomizzano all’incomple-terno delle pratiche. Ciò si riflette anche sulle discipline dedicate alla riflessione teorica sulle pratiche artistiche. La fondazione della

Theater-wissenschaft in Germania all’inizio del secolo, come ricorda Erika Fischer-Lichte, segna una rivoluzione rispetto alla 4. Su questo argomento si veda Ch. Bernstein (ed.), Close Listening. Poetry and

the Performed Word, Oxford University Press, Oxford 1998; L. Wheeler (ed.),

Voi-cing American Poetry: Sound and Performance from the 1920s to the Present, Cornell University Press, Ithaca 2008; N. Perloff, C. Dvorkin (eds.), The Sound of Poetry,

the Poetry of Sound, University of Chicago Press, Chicago 2009; R. Allison, Bodies

on the Line: Performance and the Sixties Poetry Reading, University of Iowa Press, Iowa City 2014. Un’istantanea della rinascita della lettura ad alta voce in Italia, accompagnata da riflessioni provocatorie e dalla formulazione di domande fon-damentali sul senso delle pratiche di lettura silenziosa ed alta voce si trova in F. Fortini, Poesia ad alta voce, «Taccuini di Barbablù», 6 (1986), che si legge anche in <http://www.absolutepoe try.org/LA-POESIA-AD-ALTA-VOCE>. Si vedano inoltre E. Minarelli (a cura di), Le voci dei poe ti. Parole, performance, suoni, Aspasia, Bologna 2011 e il database <https://www.lavoceregina.it/index.php>.

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tradizionale concezione del dramma come testo lettera-rio5. Altre discipline, come la musicologia, profondamente radicate nella cultura del testo, saranno toccate da queste problematiche soltanto molto più tardi, nel pieno dell’e-splosione dei performance studies6.

Il fattore più importante, però, è costituito dai feno-meni di attraversamento e di oltrepassamento dei confini che definiscono i domini delle diverse arti performative e dei generi al loro interno7. Essi sono inquadrabili a partire dai due elementi costitutivi della performance: la voce e il gesto. Da una parte questi due elementi distinguono le arti performative, dall’altra invitano a intersezioni e contamina-zioni. Il termine performance art contiene e definisce gli esiti di queste ibridazioni focalizzandosi soprattutto sull’elemen-to di “azione”, di gessull’elemen-to che accomuna pratiche originatesi dall’ambito poe tico, teatrale e musicale8. Mentre la vocal

performance art, ovvero quelle pratiche vocali performative che si sono sviluppate a partire dagli anni Sessanta circa, perlopiù slegate dalla scrittura in partitura e che prescin-dono dalla distinzione tra compositore e interprete, si foca-lizza soprattutto sulla voce, talvolta usata anche nella sua funzione gestuale9.

La relativa specificità di voce e gesto, elementi che, come si è appena accennato, hanno caratterizzato lo sviluppo delle sperimentazioni novecentesche, indicano la possibilità di individuare un’ulteriore suddivisione all’interno delle arti performative: le arti del gesto e le arti della voce. Si tratta di 5. E. Fischer-Lichte, Estetica del performativo. Una storia del teatro e dell’arte, Ca-rocci, Roma 2014, pp. 52 sgg.

6. Diversamente dall’etnomusicologia, da sempre ed inevitabilmente focalizza-ta sulle tradizioni orali e perfocalizza-tanto sensibile alla centralità della performance, e dai popular music studies, in musicologia il tema della performance si è attestato a partire dagli anni Novanta. Si veda a questo proposito M. Garda, E. Rocconi,

Introduzione, in Eaed. (a cura di), Registrare la performance. Testo, modelli, simulacri

tra memoria e immaginazione, Pavia University Press, Pavia 2016, pp. 2-3.

7. Cfr. M. Garda, Attraverso la voce. Oltrepassamenti e dislocazioni tra xx e xxi secolo, in A. Cecchi (a cura di), La musica fra testo, performance e media. Forme dell’esperienza

musicale, NeoClassica, Roma 2019, p. 175.

8. J. Fiebach, voce Performance in V.K. Barck et al. (Hg.), Ästhetische

Grundbe-griffe. Historisches Wörterbuch in sieben Bänden, Bd. IV, Metzler, Stuttgart 2002, pp. 741-7.

9. Adotto qui per chiarezza la versione inglese del termine usato da Theda Weber-Lucks in Körperstimmen. Vokale Performancekunst als neue musikalische

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una distinzione con confini porosi, se non fluidi, poco più di un punto di vista da cui guardare la produzione artistica novecentesca che consente un approfondimento cooperati-vo e integrato e non semplicemente multidisciplinare.

Parlare delle arti della voce, dunque – la poe sia riscoper-ta nella sua dimensione performativa, la musica vocale, il teatro di parola e quello musicale, il cinema –, comporta un allontanamento dalla primarietà della dimensione “lettera-ria”, una presa di coscienza della trasversalità delle pratiche e del loro radicamento in un contesto sperimentale, infine del loro carattere inevitabilmente mediato tanto dalla scrit-tura, quanto dalla tecnologia.

Proprio il tema della mediazione della voce sollecita un confronto tra i concetti di oralità e vocalità. Lo suggeri-sce il poe ta e studioso Yves Bonnefoy, collegando alcune linee concettuali tra gli scritti di Paul Zumthor10. Entrambi i concetti sono radicati in quello di performance. La defini-zione di questo termine, ricordata da Bonnefoy, è la seguen-te: «C’est la matérialisation […] d’un message poétique par le moyen de la voix humaine et de ce qui l’accompagne, le geste ou même la totalité des mouvements corporels»11. È una formulazione ampliata rispetto a quella offerta in La

presenza della voce. Qui il termine ha una valenza concettuale più limitata, inscritta nei termini della linguistica:

Nel corso di questo libro articolerò dunque la mia rifles-sione sull’idea di esecuzione, intendendo questo termine nell’accezione che in inglese ha performance […]. L’esecu-zione è l’aL’esecu-zione complessa mediante la quale un messaggio poe tico è simultaneamente trasmesso e ricevuto, qui e ora. Locutore, destinatari e circostanze (siano queste, d’altron-de, rappresentate oppure no dal testo mediante mezzi linguistici) si trovano concretamente messi a confronto, indiscutibili. Nell’esecuzione si intersecano i due assi della comunicazione sociale: quello che congiunge il locutore all’autore, e quello che unisce la situazione alla tradizione. A questo livello gioca appieno la funzione del linguaggio che Malinowski ha definito “fàtica”: gioco di contatto e di

10. Y. Bonnefoy, Paul Zumthor: Errance et transgressions dans une destinée d’historien, «L’Esprit Créateur», 38/1 (1998), pp. 104-116.

11. Il passo (cit. ivi, p. 108) si trova in P. Zumthor, Écriture et nomadisme. Entretiens

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richiamo, di provocazione dell’Altro, di domanda, di per sé indifferente alla produzione di un senso12.

Questa definizione “fredda” di performance, è collega-ta all’esigenza di distinguere la “trasmissione orale della poe sia” che riguarda il momento della comunicazione (da parte dell’emittente) e della ricezione del messaggio poe tico, dalla “tradizione orale” che riguarda le condizioni di produzione, conservazione e ripetizione13. È evidente da questa distinzione che parlare di “trasmissione orale” della poe sia, all’interno delle culture di oralità seconda-ria e mediata, comporta una certa ambiguità dovuta alla momentanea messa tra parentesi dall’insopprimibile circolo di mediazioni in cui inevitabilmente sono inserite le produ-zioni “orali”. Già in La presenza della voce, del resto, Zumthor declina un’accezione dell’oralità in cui questo termine signi-fica “vocalità”, ovvero

la funzione lata della vocalità umana, di cui la parola costi-tuisce certo la manifestazione principale, ma non la sola e forse nemmeno la più vitale: e voglio qui dire l’esercizio della sua potenza fisiologica, la sua facoltà di produrre la fonia, l’azione di organizzare questa sostanza. La φωνή non dipende in maniera immediata dal senso, ma prepara il senso al luogo dove esso si dirà; come tale, contrariamen-te all’opinione di Aristocontrariamen-tele nel De incontrariamen-terpretatione, la φωνή non produce simboli. In questa prospettiva, in cui oralità significa vocalità, si attenua ogni forma di logocentrismo14.

In un altro passo riportato da Bonnefoy, Zumthor precisa che vocalità è una «nozione antropologica e non storica» e ricorda che «La voix émane d'un corps […] Dans la voix sont présentes de façon réelle des pulsions psychiques, des énergies physiologiques, des modulations de l'existence personnelle […]. Par là, cette transmission vocale constitue un phénomène foncièrement différent de la transmission écrite, de la perception médiatisée par la lecture»15.

Come ho già accennato prima, oralità e vocalità sono termini che implicano un alone di ambiguità. Il primo 12. P. Zumthor, La presenza della voce cit., p. 32.

13. Ivi, pp. 32-33. 14. Ivi, p. 26.

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