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Una proposta di modello teorico

Nel documento L’arte orale. Poesia, musica, performance (pagine 180-195)

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3. Una proposta di modello teorico

Volendo analizzare la composizione performativa degli

auteurs, non si può prescindere dalla ben nota tripartizio-ne dell’oggetto-canzotripartizio-ne tripartizio-nei concetti di song, performance e

track, proposta nel 2012 da Allan Moore30. Per Moore, song è l’insieme di struttura armonica, linea melodica e testo verbale; performance è l’insieme delle esecuzioni vocali e strumentali, dell’arrangiamento e della produzione; track, infine, è l’unione di song e performance. Oggetto principale della ricerca di Moore è comprendere il passaggio dal song al track, ovvero il modo in cui una traccia produce signifi-cato realizzando o meno le indicazioni formali contenute nel song. Come ricorda lo stesso autore, queste categorie teoriche hanno un valore innanzitutto metodologico: il loro scopo non è, cioè, limitarsi ad astrarre procedimenti comuni a tutte le canzoni, ma identificare, attraverso conti-nui riadattamenti, un corpus poe tico-musicale ben preciso, composto da «recorded songs» corrispondenti per lo più a

studio versions (d’ora in poi integrate nel concetto di “PIC”, “prima incisione conosciuta”)31.

Nonostante si mostri sensibile alle differenze tra PIC della stessa canzone interpretata da autori diversi, Moore 30. «Exactly what […] is the recorded song? I distinguish three key terms: song;

performance; track. Think of […] the song All along the watchtower. What does it con-sist of? A particular sequence of chords can be identified […], as can particular lyrics, and a regularity of metre […]. But what about its melody? […] To answer that, we have to go to a particular recording, maybe Bob Dylan’s original, Jimi Hendrix’s famous cover, U2’s later cover, or a more recent version recorded by Richie Havens. What these four hold in common we can identify as constituting the ‘song’. […] these four recordings share the metric and harmonic structure. They approximately share the melody, although there are deviations […]. They share the lyric, although there are differences in the use of specific words, while U2 add a few lyrics, and Richie Havens reorders them. What they do not share is matters of instrumentation, speed and tone, production value or style. These matters that are not shared are the realm of the performance (and this word is worth retaining even where a ‘performance’ is only ‘virtual’, i.e. is assembled in the studio […] what we are presented with stands for an ideal performance). Combining both song and performance gives us what I define as the track and […] it is in the tracks that are developed from songs that I am interested»; A. Moore, Song Means. Analysing and

Interpreting Recorded Popular Song, Ashgate, Farnham 2012, p. 15 (corsivo aggiunto). 31. «It is not possible to definitively collect together every track that falls under the methodology’s purview – some are central, some are borderline, some are outside. This is one reason why I have tried to avoid offering a theory, but offer a methodology instead. As I understand the latter term, it is an approach to take without concern for what it rests on. Those theoretical principles are there, and will surface from time to time, but are never the central issue»; ibid.

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non sembra interessato a ricostruire la storia compositivo-performativa delle singole PIC, comprendente tutte le versioni della stessa canzone create dal medesimo autore prima e dopo la prima incisione conosciuta. Eppure, indi-rettamente, anche le categorie di Moore presuppongo-no una precisa dialettica tra oralità e scrittura e possopresuppongo-no essere problematizzate adottando una prospettiva “spazia-le” sul modello di Koch-Oesterreicher. Il song, infatti, è senza dubbio un’astrazione concepita per il futuro, un insieme di regole e di equilibri formali che, per mostrar-si coerente con un preciso mostrar-sistema di aspettative testua-li ed extratestuatestua-li, deve sempre mantenersi a una certa “distanza” dalla performance vera e propria, che esso si limita soltanto a presupporre. Come le varianti scritte, quindi, anche il song è, in questo senso, una performance “in potenza”. Tuttavia, è anche vero che il song stesso non nasce mai dal nulla, non è mai semplicemente il frutto di una strutturazione razionale, ma corrisponde piuttosto al risultato finale di una serie di esecuzioni precedenti che, nella loro spontaneità e frammentarietà, danno di fatto inizio all’intero processo. Queste ultime, contaminando la loro naturale immediacy con la distance implicata nei sistemi di distanziazione mnemonica, generano l’intenzione stessa di creare il song e di associargli una precisa identità stili-stica. In questo gioco di specchi in cui la scrittura cerca di rendersi strumento dell’oralità e l’oralità ammette di lasciarsi strutturare entro un codice scritto, il track rappre-senta il momento decisivo in cui le potenzialità performati-ve del song si manifestano nella concretezza dell’emissione aurale e dell’ascolto meccanico. Inteso come modalità di esistenza effettiva della canzone, il track unisce l’ideologia della conservazione a quella dell’innovazione: l’insieme delle varianti che esso comporta, infatti, diventano rile-vanti tanto rispetto alla performance astratta del song quanto rispetto alla performance vera e propria, che sarà sovra-determinata da ulteriori elementi conservativo-innovativi dipendenti dalle sue circostanze storiche e materiali. Dal primo track, implicato nella PIC (e di solito coincidente, come si è detto, con la studio version), avranno origine serie di track successive, che saranno caratterizzate da un certo grado di autonomia e costituiranno, nel loro insieme, la storia performativa del brano.

L’oralità di canzone

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Le categorie di Moore possono essere messe in correla-zione anche con le tipologie di oralità descritte da Ong e Zumthor (oralità «pura», «mista», «simulata», «mediata»)32, allo scopo di intendere la cronologia compositiva come un

continuum intermediale fondato sulla contrapposizione tra il track e il suo opposto ideale, la mouvance:

Le principali fasi evolutive di questo continuum sono cinque: 1) in origine, si ha una performance totalmente indipenden-te dal song, una “oralità originaria” nel senso di “priva di mediazioni”, che potrebbe coincidere, in questo contesto, con il concetto di endométrica di cui ha parlato Stefano La Via citando una pratica compositiva di Chico Buarque; quest’ultima consiste nell’intuizione di una cellula metrico-ritmica iterata fino a motivare il desiderio di codificare un 32. Zumthor descrive quattro tipologie di oralità per spiegare la gerarchia tra dimensione orale e dimensione scritta in un determinato contesto storico-socia-le: 1) «Oralità primaria o pura»: senza contatto con la scrittura e intendendo con questo termine «ogni sistema visuale di simbolizzazione codificato con esattezza e traducibile in una lingua»; 2) «Oralità mista»: a contatto con la scrittura, ma in società in cui «l’influenza dello scritto rimane a essa esterna, parziale e ritardata»; 3) «Oralità secondaria»: oralità che «si (ri)compone a partire dalla scrittura e in seno a un ambiente in cui quest’ultima predomina sui valori della voce nell’uso e nell’immaginario»; 4) «Oralità mediata»: differita meccanicamente nel tempo e/o nello spazio, «può coesistere con la prima e con la terza» (P. Zumthor, La presenza

della voce cit., p. 36). Lo stesso autore precisa inoltre che «invertendo il punto di vista, si potrebbe dire che l’oralità mista deriva dall’esistenza di una cultura “scritta” (nel senso di “che possiede una scrittura”); l’oralità secondaria, da una cultura “letterata” (in cui ogni espressione è più o meno marcata dalla presenza dello scritto)» (Id., La lettera e la voce cit., p. 25).

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song33; 2) in vista di tale proposito, l’oralità «pura» deve diventare «mista», affidandosi a sistemi di distanziazione che aiutino a creare una memoria visiva e sonora di precisi equilibri formali tra parole e musica; il risultato di queste negoziazioni è la produzione di autografi e/o outtakes; 3) perché il song raggiunga la sua autonomia formale nella mente dell’auteur, i sistemi di distanziazione, ora non più semplici strumenti, acquistano una funzione strutturante, trasformando l’oralità «mista» in oralità secondaria «simu-lata»; 4) la performance in studio non farà che manifesta-re le potenzialità esecutive del song, cmanifesta-reando la PIC (ossia il primo track) e portando l’oralità secondaria «simulata» a divenire «mediata» e cioè differita meccanicamente nel tempo; 5) il cerchio si chiude quando questa

manufactu-red immediacy del track tornerà a manifestarsi in quanto tale nelle esecuzioni dal vivo, contraddicendo o confermando le aspettative imposte dalla PIC. L’ultimo stadio del processo può essere allora definito oralità secondaria “immediata”, in riferimento alla costante ricerca di un nuovo compromes-so tra variazioni pianificate e variazioni improvvisate. Come già quello di Moore, anche questo modello, ovviamente, non ha la pretesa di potersi applicare integralmente a tutte le canzoni e richiederebbe senza dubbio un’enunciazione più dettagliata che tenesse conto in primis della distinzione tra poe tiche d’autore e generi musicali. Tuttavia, almeno in questa sede, ha forse il vantaggio di non sottovalutare la reciproca e ininterrotta dipendenza creativa tra istanze compositive e istanze performative.

33. «È molto diverso far musica da solo o con altri. Sono da sempre così abituato a collaborare con qualcuno, che oggi sento di farlo anche con me stesso. Com-pongo una musica, e anche quando è pronta nella forma definitiva, mi capita di non avere alcuna idea sulle parole. […] Quel che può succedere è semmai il ricorrere di uno specifico modulo ritmico-musicale, il continuo ripetersi di una stessa cellula. Sicché, mentre sto camminando sulla spiaggia, posso comporre più versi diversi basati sulla stessa endométrica; e alla fine della stessa passeggiata posso anche ritrovarmi con l’intero testo poe tico nella sua forma definitiva. Tut-to quel che serve è avere una musica in testa. Non ho mai scritTut-to un tesTut-to di poe-sia per musica. Non ho mai scritto una poe poe-sia; tanto meno posso sapere come si scrive una poe sia per musica»; R. Zappa, Chico Buarque, Dom Quixote, Lisboa 2001, p. 72, cit. in S. La Via, Poesia per musica e musica per poe sia. Dai trovatori a

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Poesia come discorso Umberto Fiori

Di oralità e poe sia si è parlato non poco in Italia, negli ultimi decenni, soprattutto nell’ambito della interminabile questio-ne che riguarda la “poe ticità” della canzoquestio-ne e il suo confron-to con la poe sia di tradizione scritta. Uno dei temi ricorrenti, nelle argomentazioni di quelli che io chiamo i “canzonisti”, era (e resta) quello della originaria oralità della poe sia. I richiami d’obbligo sono a Omero, ai lirici greci, ai trovatori provenzali ecc. Se la poe sia era in origine orale, e accom-pagnata dalla musica – si sottintende – allora la canzone è per natura più autentica della poe sia scritta, più vicina alla forma primigenia dell’arte della parola. Tralasciando la discutibilità di questo ragionamento, a me sembra che la domanda da porsi (e che raramente ci si pone) sia: che cosa ha portato la poe sia occidentale a distaccarsi dalla dimen-sione orale-musicale e a presentarsi prevalentemente come testo scritto, stampato? A questa domanda sarebbe troppo lungo cercare di rispondere in questo contesto; quello che mi sembra evidente è che la nostra poe sia, almeno a partire dal 1300, nasce da un distacco, da un divorzio sistematico tra la parola scritta e la voce viva. Distacco che nel corso dei secoli si è approfondito, fino a portare uno dei padri della poe sia moderna, Stéphane Mallarmé, a teorizzare (in Crise

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de vers, 1896) la «scomparsa elocutoria del poe ta, che cede l’iniziativa alle parole». La poe sia, per Mallarmé, deve siste-maticamente liberarsi della voce del poe ta, del suo corpo, del pathos che in ogni “elocuzione” è implicito. Decenni più tardi, Gottfried Benn ribadisce questa idea, dicendo che la poe sia moderna non si presta per sua natura a essere letta ad alta voce, ma va contemplata sulla pagina, e si spinge fino a sostenere che le lettere nere, la carta, l’inchiostro, l’aspetto tipografico insomma, le sono indispensabili. Nella nostra tradizione lirica novecentesca, questa rimozione della voce prosegue, seppure in altri termini e senza essere necessa-riamente teorizzata. Per coglierne gli effetti, basta ascoltare le rare esecuzioni pubbliche di poe ti come Montale, Unga-retti, Saba. Nelle loro letture, la voce viva appare sempre un po’ “fuori fuoco” rispetto al testo. I testi di Ungaretti, così asciutti e secchi sulla pagina, pronunciati da lui diven-tano enfatici ruggiti cavernosi; Saba (penso in particolare a una lettura di Goal) si affida a vibrati istrionici, e persino in Montale si avverte l’eco di una pronuncia teatrale di maniera.

In uno scritto del 1986 intitolato La poe sia ad alta voce, Franco Fortini parla della reazione all’enfasi e alla teatralità nei poe ti della sua generazione. La vocalità, l’oralità, sono diventate un pericolo che incombe sul testo. È interessan-te – e diverinteressan-teninteressan-te – il “metodo” che altrove dice di adottare per valutare un suo testo appena compiuto; racconta Fortini che – una volta finita una poe sia – lui la mette alla prova leggendola con un marcato accento emiliano, o romanesco; se “resiste”, allora è riuscita.

La voce, insomma, resta per la poe sia del (nostro) Nove-cento un problema. Problema rimosso, mai affrontato vera-mente, anche per la rarità delle occasioni di letture pubbli-che. Il poe ta italiano del Novecento non riflette più di tanto sulle modalità delle sue sporadiche performances. Tanto più significativa appare, in questo contesto, l’operazione realiz-zata da Raffaello Baldini, documentata da un Cd uscito di recente, Compatto, dove il poe ta di Santarcangelo “esegue” in studio i suoi testi in dialetto e in traduzione italiana. Non è un caso, evidentemente, che a lavorare in modo tanto sistematico sulla dimensione orale, performativa del testo, sia un poe ta dialettale. È con i dialettali (da Tessa a Noventa,

Poesia come discorso

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a Loi) che la voce, il parlante, il corpo, la fonte fisica della parola, tornano in primo piano.

Avendo fatto il cantante per diversi anni, la questione della vocalità è sempre stata al centro delle mie riflessioni. Nella poe sia contemporanea, la rimozione della voce mi sembrava un elemento centrale. Poesia senza bocca. Non si trattava però, per me, di ritrovare o di creare una dimensio-ne performativa della poe sia, quanto di rimettere in gioco una fonte del testo, di pensare il testo (anche muto, sulla pagina) come discorso, come qualcosa che scorre, che circola da un parlante all’altro. In questo senso, sono tornato a esplorare la dimensione orale della poe sia. Ma lo ripeto: non ho mai pensato a un testo concepito in vista di una

performance semi-teatrale. Scrivendo, ho sempre in mente una voce che deve essere la più plausibile, la più “normale”, la più “naturale” possibile; ma quando leggo in pubblico tengo sempre il libro in mano. Molti miei testi li conosco a memoria, e potrei “dirli” senza leggerli; ma questo darebbe alla lettura un carattere che non ricerco, e dal quale anzi rifuggo. Il parlante c’è, nella mia poe sia, innanzitutto come istanza stilistica; se io lo “incarnassi” senza mediazione, questo porterebbe alla messinscena di una “oralità” che non mi appartiene. Io “fingo” di leggere le mie pagine in pubbli-co, per evitare la finzione di una parola che si manifesta qui, ora, come emanazione immediata della mia presenza fisica.

Lorenzo Cardilli: Tu scrivi: «Il canto è la potenza che trascina e mette di fronte a ciò che non può essere giudicato, ma che pretende la più alta ammirazione».

U.F. L’ho scritto in un saggio su Giuseppina la cantante ovvero

Il popolo dei topi, un racconto intricato e affascinante di Kafka, che mette in scena il canto in un modo molto parti-colare e contraddittorio. Quanto all’ammirazione, mi riferivo alla topolina di Kafka, e non a me (ovviamente). (Avendo io fatto il cantante, l’equivoco è sempre in agguato.) Varie volte ho cercato di chiarire cosa intendo quando parlo di

canto. Da qualche parte ho scritto: «Chi canta è sordo, e sa tutto». Ecco: non si tratta tanto di celebrare il “privilegio” di chi canta, ma di mostrare la natura di quello che chiamiamo

canto, anche nei suoi aspetti meno evidenti. Il canto non è tanto una bravura, semmai, al contrario, la condizione di

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chi si trova a parlare senza più bravure, senza argomenti che lo sostengano. Questo, per me, è la poe sia. Chi canta non ha più un interlocutore: è in una condizione senza fondamento, si offre inerme all’ascolto dell’altro… Ma in questa inermità, in fondo, c’è anche una forma di arrogan-za…

Stefano Lombardi Vallauri: Forse è perché sei un ex-cantante che non senti l’esigenza di infondere vocalità nelle tue letture di poe sia. Ma quando scrivi, immagini una voce nei tuoi testi, quello che si chiama un inner speech?

In genere, cerco di rifuggire dagli effetti vocali. Più che come uno strumento, la voce la concepisco come un limite da riconoscere e accettare. È qualcosa che ci identifica, ci marchia, come il verso di un animale. Ognuno di noi ha la sua, e cercare di sfuggirle non porta lontano. Quando scrivo, mi chiedo: io questa cosa potrei dirla? Potrei reggerla? Non tutte le frasi, non tutte le parole possono starmi in bocca. Alcune magari sono eleganti, suonano bene, ma è come se mi stessero di fianco. Quello da cui mi sono allontanato è lo statuto di oggetto estetico della poe sia: parole come materiale da costruzione, in vista di un effetto “artistico”. Ho sempre pensato – l’ho detto – alla poe sia come discorso, come qualcosa che scorre a partire da una fonte, da una

certa fonte, non come a un oggetto sublime, disincarnato, disumanizzato (il contrario di Mallarmé). Per me,

l’elocuzio-ne implicita nel testo è importantissima. È il rischio del dire, quello che (forse) può attrarre il lettore nella pagina. Come nella nostra comunicazione di ogni giorno.

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Poesia sonora, poe sia d’azione: la poe sia e lo scarto epigenetico Giovanni Fontana

I rapporti tra testo poe tico e voce hanno assunto nel tempo caratteri mutevoli, dovuti principalmente alla complessità dell’universo mediatico, frutto di una secolare evoluzione, che dalla rivoluzione gutenberghiana si è sviluppata in maniera sempre più decisa, attraverso le tecnologie elettri-che ed elettronielettri-che, fino all’attuale configurazione digitale. Del resto, il lavoro del poe ta, per tutta la sua storia, si è svolto al centro di reti di relazioni assolvendo, grazie alla sua natura orale, ad una funzione sociale insostituibile. Ecco allora che, oggi, anche grazie alla spinta in tal senso di signi-ficativi settori delle avanguardie e delle neoavanguardie, il poe ta che non vagheggia forme mute e sorde conferma la sua attenzione nei confronti dei media e valorizza la propria vocalità. È un poe ta, questo, che impegna il proprio corpo e che agisce nello spazio-tempo. Del resto il poe ta è colui che fa (e che sempre di più può fare): qui, lontano dall’incon-gruo silenzio della pagina, ha a disposizione un’estesa scelta di parole, di suoni, di voci, di luci, di colori, da trattare nel quadro di un universo mediatico estremamente ramifica-to. Evidentemente, appare legittimo chiedersi se sia bene pensare e scrivere un testo poe tico per consegnarlo alla pagina, lasciandolo lì, aperto alle sole letture mentali, senza

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fasi di sviluppo ulteriori. La sua mobilità e le sue risonanze si perdono, o se si vuole, si amplificano in un silenzio ridon-dante e contraddittorio.

È chiaro che si tratta di libere scelte creative, anche se, considerando che la poe sia è l’arte che si fonda sulla phoné, su quella che si considera la musica del dire (e di ciò sono profondamente convinto), un’opzione di questo tipo è da ritenere un caso limite, che tradisce lo spirito mediatico originario. Perché rinunciare alla voce, perché rinunciare al suono, perché rinunciare allo spazio d’azione, perché rinunciare, soprattutto, alla propria corporeità e al modo di gestirla? Del resto tutti questi elementi sono stati

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