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L’articolata gestione delle mura Da porta Capuana a porta San Gennaro.

Cartina 6. Pianta del Ducato secondo Capasso.

I. 2. L’articolata gestione delle mura Da porta Capuana a porta San Gennaro.

Il tratto di mura che va dalla porta Capuana alla porta San Gennaro vede la presenza nell’arco di poche centinaia di metri di tre chiese (Santi Apostoli, San Martino e San Gennaro) e tre monasteri (Santa Maria dell’Anglone, Santi Ciriaco e Giulietta, Santa Maria di donna Regina). Le porte sono tre: la porta Capuana, la porta Carbonaria e la porta di San Gennaro. La parte esterna alle mura è circondata da un fossato che delimita nettamente la città dal suburbio: è il

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carbonarius publicus già ricordato52. La porta di San Gennaro e la porta Capuana sono due punti nevralgici d’ingresso alla città, la porta Carbonaria sembra, dai documenti, rivestire una minore importanza ed essere fisicamente più piccola53.

Le informazioni riguardo alle porte sono poche: in un documento del 1128 abbiamo notizia di una lite intercorsa tra il monastero di San Gregorio e i «portararii» di San Gennaro54. Il contenzioso riguarda

52 Il termine fossatum indica qui unicamente la struttura difensiva e non

anche un agglomerato urbano, come sostenuto per altri contesti geografici da Pellegrini, Attraverso la toponomastica, pp. 414-415. Il fossato è parte delle strutture difensive in gran parte delle città bizantine: quando nel 964 Manuele Focas sottrasse Messina agli arabi la prima cosa che fece fu restaurare le antiche mura e scavare un fossato (Maurici, Le

difese costiere, pp. 182-183).

53 La porta Carbonaria prende il nome dal carbonarius publicus su cui si

affacciava. I documenti testimoniano che tra la porta e il fossato era presente una piccola striscia di terra coltivata: si può dunque presumere che la porta in questione non fosse collegata a grandi vie di comunicazione, ma semplicemente aperta sulla campagna napoletana (da cui però la divideva il fossato). Il fatto che questa porta risulti nella documentazione secondaria è probabilmente da imputarsi a questo fatto.

54 Capasso, Monumenta, 638, p. 397. Il documento è piuttosto tardo, degli

ultimi anni del ducato: proprio in questo periodo si concentrano le dispute giudiziarie circa i diritti di “portatico”. Ciò appunto coincide con il definitivo collasso della publica potestas del duca, ma anche, come in questo caso, con l’incapacità da parte degli stessi enti religiosi di amministrare concessioni pubbliche (il diritto di riscossione dei dazi alle porte) a loro volta concesse a terzi beneficiari. Allo stesso modo è possibile individuare dinamiche simili anche in altri contesti urbani del Mediterraneo: si pensi al caso di Barcellona: Bensch, Barcelona and its

rulers, pp. 277-346.

I varchi cittadini

i diritti dei «portararii» sulle merci del monastero trasportate dalla campagna alla città. Ancora una volta, a conferma di quanto già sostenuto precedentemente, l’amministrazione delle porte cittadine, affidata ai privati, era al centro di continue dispute. Alla fine le due parti giunsero a un accordo che riconosceva il diritto dei «portararii» di esigere dalle monache, in tempo di vendemmia, «congium unum quolibet anno de vino musto mundo, et alium congium unum de saccapanna». Leggendo le fonti documentarie le mura appaiono molto lontane dall’immagine datane dalle fonti letterarie. Le stesse mura che nelle cronache appaiono come un nucleo uniforme e regolare alla lettura dei documenti si rivelano diverse: sono assediate da numerosi edifici, sono caratterizzate dalla varietà dei materiali impiegati e dalle soluzioni di fortuna ideate per il restauro. Le mura stesse sono una soluzione di fortuna in taluni casi, e non il frutto di una pianificazione a priori: la parte di mura che va dalla porta Capuana alla porta di San Gennaro è il frutto dell’integrazione

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nel circuito murario dell’antico acquedotto romano55. Nel 994 Sergio e Pietro, figli di Giovanni Sorrentino, si dividono i beni del padre: due case e una piscina «positas in vico, qui nominatur Formelli, regione apostolorum»56. Una delle due case è dotata di un grande arco, attaccato al muro pubblico. Ancora: nel 1130 Sica e Drosu commutano una terra con una casa in città «at porta S. Ianuarii et regione porta S. Ianuarii, ... in vico publici qui appellatur formelle»57. Anche in questo caso una parte dell’edificio è addossata al muro pubblico e a due grandi archi in cui pare siano stati ricavati, proprio all’interno, degli

55 Pani Ermini, Condurre, conservare e distribuire, pp. 401-406, ricostruisce

un panorama assai vivo delle infrastrutture idriche delle città europee, e non solo, dimostrando che molto spesso convivevano nello stesso territorio infrastrutture nuove, restaurate e abbandonate: è questo anche il caso di Napoli. L’acquedotto romano è ancora in funzione nel XII secolo nella città di Almuñécar, in Spagna, ma a questo (poiché non riusciva a soddisfare la domanda dell’intera popolazione: probabilmente alcune parti erano rovinate) venivano associati pozzi e cisterne: Al-Idrisi,

Geografia de España, p. 38.

56 Capasso, Monumenta, 283, pp. 174-175.

57 Capasso, Monumenta, 647, pp. 402-404. Questo tratto delle mura è

caratterizzato dalla presenza dell’antico acquedotto romano, inglobato nelle nuove costruzioni. Anche quando le vestigia si addentrano nel cuore del centro urbano, queste vengono sfruttate per la costruzione di altri edifici. Non si tratta tuttavia di un utilizzo come spolia, ma di un vero e proprio cambio di destinazione d’uso. Nei documenti infatti si trovano intere arcate di acquedotto divenute oramai muro portante di un edificio o appunto, come in questo caso, della cinta muraria.

Strutture addossate alle mura

spazi chiusi: «in ipsa parte occidentis est alia coperta de alium arcum quem ipse Iohannes commutaverat». Il vico Formelli sembra dunque essere parallelo al corso delle mura, cui sono addossati degli edifici, che formano un tutt’uno con le grandi arcate presenti. Secondo Capasso «la denominazione di Formello deriva dalla voce forma o canale dell’acquedotto della Bolla»58: si tratta proprio della forma aquis tipica degli acquedotti. Tra l’altro sarebbe attestata la presenza di una torre sulla cinta muraria proprio all’altezza di vico Formelli. Questo significherebbe una sola cosa: non solo le mura furono costruite inglobando gli archi dell’antico acquedotto, ma anche la torre in questione non fu altro che il rimaneggiamento dell’antica forma aquis.

Due documenti, di ambito rurale, attestano la presenza e l’utilizzo per altri fini dei ruderi dell'acquedotto. Il primo, dell’anno 958, mostra solo la presenza della forma aquis che dà il nome alla zona: si tratta infatti di due pezzi di terra, uno «ponitur ad

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forma rupta» e l’altro è «nominatur ad ille forme»59. Nel 1112 i fratelli Ipato offrono al monastero dei Santi Severino e Sossio una serie di terre e beni, fra cui un terreno posto «intus arcora et foris arcora dudum aqueductus... una cum introitas et anditas et cum vias earum et cum arcora... et forme ex ipsa arcora et cum parietinis et fabrice ipse turre»60. Qui gli archi dell’acquedotto sono situati nei campi coltivati e sotto qualcuno di questi è stato ricavato uno spazio al chiuso. La forma aquis è oramai adibita ad altri fini ed è chiamata torre. È evidente che i ruderi dell’antico acquedotto erano riutilizzati per altri scopi: in

59 Capasso, Monumenta, 103, pp. 78-79. La forma aquis era la parte

dell’acquedotto che conteneva i meccanismi che riconvogliavano l’acqua nella direzione desiderata. Il fatto che troviamo diversi riscontri anche in ambito extra-urbano dimostra come queste parti fondamentali dell’acquedotto fossero comunemente riutilizzate, anche per altri fini. Inoltre, la presenza certa di fontane alimentate dall’acquedotto pubblico rimasto in funzione fa supporre che vi fossero stati altri edifici di questo genere con le funzioni proprie della forma aquis.

60 Capasso, Monumenta, 602, pp. 364-365. Sebbene nel documento si usi il

vocabolo “torre” per indicare l’edificio sorto sui resti dell’antica forma

aquis, credo si debba escludere che qui abbia una significato militare. Siamo infatti in pieno contesto rurale e, sebbene non distante dalle mura cittadine, non si spiegherebbe una torre militare in questo luogo. Sembra più probabile che la “torre” fosse utilizzata come magazzino, anche perché il bene passava dalla proprietà di un privato a quella di un ente religioso, il monastero dei Santi Severino e Sossio. Anche l’ipotesi di una torre extra-urbana su una strada importante che conduceva in città, dalla quale si esigevano dei dazi, sembra poco verosimile e comunque non trova riscontri in nessun altro documento coevo.

campagna per fini agricoli, in città come parte integrante del circuito murario. Ammettendo una formazione composita e talvolta caotica delle mura, non si vuole sminuirne l’importanza e l’impressione la cui visione dovette fare ai contemporanei. Le mura di Napoli infatti erano tra le più estese della penisola e tra le più efficienti e seppero far fronte a numerosi assedi ed incursioni. Inoltre, in tempi di maggiore pressione esterna, l’abbandono di alcune parti della città sorte fuori dalle mura, è segno evidente che risiedere all’interno o all’esterno del circuito faceva la differenza61.

Negli immediati dintorni della porta di San Gennaro si trova la chiesa di San Gennaro, cui probabilmente deve il suo nome. Sul fatto che la chiesa di San

61 Alle mura era comunque riservata una particolare attenzione e non si

deve dimenticare che la principale funzione era quella di difesa: negli scavi archeologici condotti in diverse città delle Marche sono state rinvenute tracce di camminamenti ricavati all’interno di bastioni (Profumo, Archeologia nelle Marche, pp. 98-101). Opere di questo genere testimoniano l’indubbia importanza che tali infrastrutture avevano nella vita dei centri urbani. Anche città come Bologna, Ravenna e Rimini si dotarono di possenti mura facendo ampio uso di materiale di reimpiego (Gelichi, Le città in Emilia-Romagna, pp. 572-579). Le mura di Aquileia ammortizzarono numerosi assalti da parte barbarica (dato archeologico e dato documentario sono ampiamente analizzati in Buora, Le mura

La chiesa di San Gennaro

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Gennaro fosse posta a ridosso delle mura non vi sono dubbi: un documento del 1091 infatti è la concessione di un orto «positum foris huius urbis Neapolis non procul ab ecclesia b.mi Ianuarii»62. La prima attestazione risale all’anno 927 e la chiesa è detta «b. Ianuarii sacerdotis et martiris constitutam intus civitatem Neapolis inter plateam, que appellatur trea fata, et inter vicum qui vocatur duodecim putea, regione porte S. Ianuarii»63. Il prete Pietro promette al medico Scauracio e alle sorelle Drosu e Maru, comproprietari della chiesa, in cambio della sua ordinazione a custode, che «cunctis diebus vite sue ibi residere et die noctuque officium sacerdotale facere, hoc est vesperas et matutinos et missarum solemnia et

62 Capasso, Monumenta, 548, p. 330. Non è superfluo sottolineare che

gran parte delle chiese che furono costruite a ridosso delle mura cittadine beneficiarono dei terreni pubblici che solitamente, in età antica, venivano mantenuti liberi per scopi difensivi. La concessione progressiva di questi terreni pubblici ha dunque creato una concentrazione maggiore di chiese e monasteri proprio a ridosso delle antiche mura. Si comprende dunque come anche a Napoli si debba parlare di un vero e proprio sistema-mura di cui gli edifici religiosi sono parte integrante ed essenziale.

63 Capasso, Monumenta, 14, pp. 25-26. La platea Tria Fata è in altri

documenti detta vico Tria Fata, ed altrove anche vico Carrarium; il vico

horis laudis et luminariorum concinnationes exivere debeat, et de rebus ipsius ecclesie habitis vel habituris frui possit». Il contratto ha durata di quattro anni e prevede che ogni tipo di restauro o lavoro di mantenimento sia a carico del beneficiario, eccetto che per la parete della corticella che si affaccia sulla via dei Dodici Pozzi. I patroni si impegnano invece a non porre nessun altro al di sopra di lui, «aut sacerdote vel clericum». Il prete Pietro inoltre assicura di non abbandonare l’incarico per un’altra chiesa e qualora voglia farsi monaco «dividatur inter ipsum et patronos in quarta parte, idest quarta partem habeat memorata ecclesia, et tres partes ipse Petrus ad iudicandum pro anima». Infine si dichiara che nessuno, e tanto meno il prete, ha licenza di porre nella chiesa un letto o delle horgania (una sorta di botti o vasi in cui è conservato il vino)64. Il documento, oltre

64 Il fatto che anche una chiesa potesse essere utilizzata come magazzino

per botti di vino non ci deve sorprendere affatto: la viticoltura a Napoli era una voce fondamentale dell’economia rurale. La Campania era la regione a più densa copertura viticola (Cortonesi, La vigna nell’Europa

mediterranea, pp. 232-233), i filari colonizzavano anche le pendici del Vesuvio (Cherubini, I prodotti della terra, pp. 213-214) e ciò trova ulteriore conferma nelle analisi paleobotaniche di Rotili, Città e territorio in

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che sull’ordinazione del prete che custodirà la chiesa per quattro anni, dà alcune informazioni sulla struttura dell’edificio: attaccati ad esso vi sono alcuni edifici detti habitationes, e una curticella. Emergono inoltre alcuni dati sulle attività di restauro di beni immobili come le chiese. Il restauro era affidato quasi esclusivamente al prete che vi esercitava il suo ufficio: i proprietari si tiravano fuori dalla maggior parte de lavori da compiersi. È del tutto verosimile che un prete, con un contratto a tempo determinato rinnovabile di quattro anni in quattro anni, si impegnasse poco, se non addirittura nulla, nel restauro degli edifici concessigli. Essere prete in piccole chiese urbane significava soprattutto (o anche) esercitare un mestiere: oltre alla cura delle anime, era dunque necessario trarre il giusto profitto.

La breve durata degli ingaggi non agevolava certamente le opere di restauro: solo a partire dalla seconda metà del X secolo i contratti di custodia delle chiese registrarono un protrarsi dei tempi di gestione superiore ai quattro anni. Nel corso dell’XI e del XII

Restauro di chiese e

secolo si assistette, forse non casualmente, a diverse opere di restauro. Si può dunque supporre che il circuito murario di Napoli, caratterizzato dalla presenza di numerose chiese (inglobate e parte integrante delle stesse mura), avesse subito, nel corso dell’alto Medioevo (fino al X secolo), un progressivo degrado65. Quando dunque, nel corso del X secolo, i monasteri acquisirono il patronato su gran parte delle chiese urbane (detenute fino ad allora da privati cittadini) e i contratti per la custodia delle chiese divennero vitalizi, si crearono le condizioni per nuove opere di restauro delle mura. La chiesa di San Gennaro è un esempio molto chiaro: la ritroviamo, oltre settanta anni dopo la prima attestazione, in un documento dell’anno 1002. La chiesa è ora sotto il patronato del monastero dei Santi Sergio e Bacco e della famiglia Asprando e viene affidata al prete

65 Il caso napoletano sembrerebbe differire da quello di Roma: (Ward

Perkins, Gibson, The surviving remains of the Leonine Wall, pp. 30-57; Ward Perkins, Gibson, The surviving remains of the Leonine Wall. Part II, pp. 222-239) per Roma infatti è da registrare il restauro delle antiche mura e l’ampliamento della cinta con la costruzione di nuovi tratti per volere delle massime autorità pubbliche; a Napoli invece sembrerebbe che, insieme con la publica potestas, anche gli enti religiosi e i privati

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Pietro Paparo. La formula di concessione è più o meno la stessa degli inizi del X secolo: si afferma infatti anche che «quodcumque at conciandum habuerit, conciare debeat ad omne suum expendium», e naturalmente che «post suum transitum memorate portiones cum que per imbentaneum ipse Petrus acceperat, ibidem dominis et heredibus eorum revertantur»66. Tuttavia i termini del contratto sono radicalmente diversi: il prete Pietro infatti sarà custode della chiesa di San Gennaro «omnibus diebus vite sue». La differenza non era di poco conto.

Negli anni Quaranta dell’XI secolo l’evoluzione è compiuta: la chiesa di San Gennaro è completamente sotto il patronato del monastero dei Santi Sergio e Bacco. Nel 1043 infatti si ha notizia di una ordinazione, da parte del monastero, a custode della

66 Capasso, Monumenta, 316, pp. 194-195. Con la concessione dei terreni

pubblici adiacenti alle mura agli enti religiosi, per la costruzione di chiese e monasteri, rimasero di esclusiva prerogativa pubblica solamente le porte (a partire dall’XI secolo date anche queste in concessione). Vi era dunque il problema di capire chi avesse l’onere del restauro dei tratti di mura (comprese le porte) dati in concessione. Comunque fosse stato, è un dato di fatto che le mura di Napoli ressero a numerosissimi attacchi e scorrerie saracene, longobarde e normanne e più volte si fa riferimento alla loro manutenzione.

chiesa del prete Stefano Franco67. Si stabilisce che «pro alimoniis suis habeat omnes hereditates, habitationes, hortus et codices», inoltre si precisa «ubi vero Domino placuerit et illi maledicti Lormannis exierint de Liburia ut ipse recollisserit terras de Liburias, tunc in tota memorata ecclesia dare debeat auri sol. 15»68. Dunque a distanza di oltre un secolo rispetto alla prima menzione, la chiesa di San Gennaro sembra essere una chiesa assai prospera: alle abitazioni e all’orto si è aggiunto il patrimonio librario e soprattutto delle terre poste fuori città. Sebbene in questo momento siano in mano al nemico normanno, pare che debbano essere state di notevole importanza visto che il prete si impegna a versare ben 15 solidi d’oro al monastero (una cifra decisamente elevata se si

67 Capasso, Monumenta, 478, pp. 292-293. La chiesa di San Gennaro

probabilmente beneficiava del diritto di riscossione dei dazi alla porta omonima. Questo non è un caso isolato: anche in altre realtà territoriali della Campania, come ad esempio a Salerno nel corso dell’XI secolo, enti ecclesiastici e privati cittadini usufruivano di tali concessioni da parte della publica potestas. Disporre di un tratto di mura o ancor meglio di una porta cittadina era il modo migliore per riscuotere i dazi e soprattutto per evitare di pagarli, incrementando sempre di più i traffici commerciali. Lorè, L’aristocrazia salernitana, pp. 73-74; Taviani-Carozzi,

La principuatè lombarde de Salerne, p. 904; CDCav, VIII, 1292, p. 108.

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considerano i canoni versati per le altre chiese)69. Sempre in merito a questa chiesa è da notare che verso la fine dell’XI secolo la cancelleria ducale produsse un documento falso per attribuire alla famiglia del duca la proprietà della chiesa. Il documento del 5 maggio 1085 è secondo Capasso, a ragione, un clamoroso falso70. Il duca Sergio V attribuirebbe infatti la fondazione ed il patronato della chiesa a Sergio I (e alla famiglia Ianaro con cui era in stretta parentela): la prima attestazione della chiesa, del 927, è tuttavia ben più antica. Se il duca e la sua famiglia posarono gli occhi su questa chiesa, è da credersi che fosse una delle più importanti della città: importanza che era probabilmente data dalla posizione particolarmente favorevole e dal fatto che disponeva di un tratto di

69 La chiesa comincia qui ad essere detta Spoliamorta. Non è inverosimile

che la chiesa cominciasse a chiamarsi così per la destinazione di alcuni spazi prestigiosi a sepolture di insigni personaggi.

70 Capasso, Topografia, pp. 104-105. La chiesa di San Gennaro è posta in

una zona della città particolarmente importante dal punto di vista strategico: dagli immediati dintorni della porta di San Gennaro infatti si diramano una serie di strade le cui principali conducono a Capua, alla via Appia e alla via Nolana. La zona è dunque il punto in cui convergono i traffici con le campagne del ducato e le altre entità statuali. Dai documenti si apprende inoltre che il quartiere intorno alla chiesa ospitava numerosi immobili delle principali famiglie napoletane (alcune di queste di chiara estrazione mercantile, come ad esempio quella di

Gregorius Sorrentinus). Inoltre nei pressi dell’edificio religioso sorgeva uno dei mercati più importanti della città (quello di Summa Platea).

mura da cui era possibile ricavare numerosi incassi con la riscossione dei dazi in entrata e in uscita.

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I. 3. L’amministrazione delle porte e la