Gli effetti di paralisi conseguenti alla nuova disciplina delle incompatibilità sono destinati a verificarsi in tempi brevissimi e cioè in piena fase di primo rodaggio della nuova struttura del giudice di primo grado. Mentre, infatti, i requisiti e le cause di incompatibilità (e correlate cause di decadenza) diventano operanti "alla scadenza del triennio in corso alla data di efficacia del decreto legislativo (e poiché l'efficacia è posposta dall'articolo 203 di 120 giorni rispetto alla data di entrata in vigore, la scadenza del triennio si avrà al 31 dicembre 2000) per la già vista incompatibilità con l'esercizio della funzione forense nel circondario - e per la operatività della correlata causa di decadenza è prevista l'immediata applicabilità dalla data di efficacia.
Ciò significa che entro pochi mesi decadrà dall'ufficio la maggior parte degli attuali magistrati onorari con una prevedibile quasi assoluta impossibilità di sostituirli. Degli effetti di un simile evento sul funzionamento della giustizia si è già detto.
Il Consiglio superiore della magistratura ritiene che sia nella propria responsabilità richiamare su ciò - e con la massima chiarezza - l'attenzione del legislatore delegato, per contribuire a rendere evidenti i termini concreti del problema che ad esso spetta risolvere.
TITOLO II
DISPOSIZIONI SUL PROCESSO CIVILE (Articoli da 33 a 114) .
1. Premessa.
Innanzitutto deve essere manifestata una valutazione positiva in ordine all'impostazione, espressa nella Relazione e tradotta nell'articolato, di interpretare restrittivamente la delega legislativa per quanto riguarda le modifiche da apportare al codice di procedura civile, al fine di evitare ulteriori modifiche strutturali della normativa processuale già di recente, come è noto, ampiamente ridisegnata con la novella di cui alla legge 26 novembre 1990 n. 353 e con l'introduzione del giudice di pace, di cui alla legge 21 novembre 1991, n. 374.
Al riguardo - e per esemplificare - è particolarmente condivisibile, tra l'altro, la scelta operata di limitare gli interventi in tema di connessione di cause e di correlativo spostamento di competenza (sono stati compiuti solo degli adattamenti essenziali in riferimento all'art. 31 c.p.c. - cause accessorie - ed all'art. 32 - cause di garanzie), evitando per il resto di incidere su istituti di consolidata tradizione processuale e di attenta configurazione sistematica.
Le osservazioni che seguono si riferiscono esclusivamente ai punti in ordine ai quali il Consiglio ha ritenuto di esprimere specifici rilievi e suggerimenti, in ragione del carattere cruciale dei problemi investiti dalla innovazione normativa oppure in ragione di una valutazione critica sulle soluzioni adottate.
2. Artt. 40 e 202.
L'art. 40 del decreto legislativo, che introduce nel codice di procedura civile - libro I Titolo I - la sezione VI bis - Della composizione del Tribunale - ed in particolare l'art. 50 bis (Cause nelle quali il Tribunale giudica in composizione collegiale), non appare preciso nella formulazione circa le controversie per le quali è mantenuta la composizione collegiale del Tribunale. In specie, le «cause nelle quali è obbligatorio l'intervento del pubblico ministero» non sempre sono originariamente collegiali, sussistendo allo stato delle ipotesi (v. l'art. 361 C.C. - Provvedimenti urgenti adottati dal giudice tutelare - in riferimento all'art. 70 c.p.c.) in cui il procedimento è di competenza di un giudice monocratico ma è previsto parimenti l'intervento obbligatorio del P.M. Pertanto il n. 1) dell'art. 50 bis deve essere integrato con le parole «salvo che sia altrimenti disposto», come già stabilito, nello stesso articolo, per i procedimenti in camera di consiglio (v. pag. 34-35 e 46 della Relazione). D'altro canto, l'integrazione si riconnette logicamente al disposto dell'art.
16 dell'articolato (il quale modifica l'art. 72 dell'Ordinamento giudiziario) contenente la statuizione secondo cui «Il Procuratore della Repubblica presso il tribunale ordinario può altresì delegare nominativamente uditori giudiziari e vice procuratori onorari addetti al suo ufficio allo svolgimento delle funzioni nei procedimenti civili nei quali il tribunale giudica in composizione monocratica».
A maggiore chiarimento delle deroghe anzidette, in relazione alle competenze attuali monocratiche, si suggerisce di integrare l'art. 202 comma 2 con una formula analoga a quella che segue: «Le funzioni del pretore non attribuite espressamente ad altra autorità giudiziaria sono attribuite al tribunale in composizione monocratica, anche se provvede ai sensi degli artt. 737 e segg. c.p.c.
ovvero con l'intervento obbligatorio del pubblico ministero».
3. Art. 40 (articolo 50 bis c.p.c.).
Il Consiglio concorda con la determinazione espressa nel decreto legislativo (v. pag. 35 della Relazione) di non utilizzare, allo stato, la facoltà (non trattandosi di prescrizione obbligatoria) menzionata nel punto n) dell'art. 1 della Legge n. 254/1997 di «individuare, tenuto conto della oggettiva complessità giuridica delle materie e della rilevanza economico-sociale delle controversie, gli altri casi in cui il tribunale giudica in composizione collegiale». Soprattutto, sarebbe stata certamente inadeguata l'ipotesi alternativa prospettata nella Relazione (v. pag. 36) nel senso di ricomprendere tra i casi di riserva di collegialità «le cause relative a successioni, contratti, rapporti sociali se il valore della controversia supera i cinque miliardi di lire».
Tale soluzione, in primo luogo, non si palesa conforme alle prescrizioni indicate dal legislatore delegante; difatti, i menzionati giudizi ricomprendono materie di per sé estesissime (successioni - contratti - rapporti sociali) che verrebbero delimitate solamente dal valore elevato della causa. Essi presentano in comune con le caratteristiche specificate nella legge-delega solo la rilevanza economica della causa, ma non certamente, quantomeno non in ogni caso, gli altri requisiti della complessità della materia e della rilevanza sociale delle questioni oggetto di trattazione. Inoltre, questa individuazione del tipo di vertenze da riservare al collegio consentirebbe facili elusioni ad opera delle parti del processo, nel caso di interesse a sottoporre le questioni controverse al collegio anziché al giudice singolo o comunque ad un giudice diverso da quello assegnato: come è noto, l'art. 14 c.p.c.
stabilisce che, per le controversie relative a somme di denaro e a beni mobili, il valore si determina essenzialmente sulla base della somma indicata dall'attore, salvo tempestiva contestazione del convenuto.
Ma, ancor più, la proposizione alternativa in esame confligge con la
«ratio» della originaria individuazione di casi di riserva di collegialità, (di fronte ad una generale competenza processuale riconosciuta al giudice singolo), manifestata con la legge di riforma del processo civile 26 novembre 1990 n. 353 (il cui artt. 88 ha modificato l'art. 48 dell'ordinamento giudiziario). Al riguardo, l'orientamento del legislatore di allora (dal quale, come si è visto, il legislatore delegante del 1997 ha deciso di non allontanarsi) era nel senso di identificare le ipotesi di mantenimento della composizione collegiale del tribunale tra quelle caratterizzate da situazioni processuali (reclamo - procedimenti in camera di consiglio - processi nei quali è obbligatorio l'intervento del Pubblico Ministero) ovvero giustificate da una peculiare valenza della collegialità (sezioni specializzate), evitando l'opzione per cause contrassegnate solo dalla specialità della materia («ratione materiae») ovvero - e a maggior ragione - per il valore. Negli stessi termini si era pronunziata la risoluzione del C.S.M. in data 18 maggio 1988 riguardante appunto «Misure per l'accelerazione dei tempi della giustizia civile», alla quale il legislatore fece allora ampio riferimento per l'elaborazione della legge di riforma (v. su Foro It. 1988, V, 249 e segg.).
4. Articolo 40 (segue: articolo 50 quater c.p.c.).
Alcune osservazioni debbono svolgersi in ordine all'art. 50 quater del c.p.c., come introdotto dal già citato art. 40 del decreto legislativo.
Con la riforma processuale del 1990 veniva aggiunto l'art. 274 bis c.p.c., nel quale la violazione dei criteri di riparto delle attribuzioni tra giudice unico e collegio era considerata espressamente come motivo di nullità della sentenza, integrando un vizio della costituzione del giudice ex art. 158 c.p.c. (nullità insanabile quindi, salvo però il disposto ex art. 161 c.p.c. - e dell'articolo 354 c.p.c. - che sostanzialmente impediva in caso di accertamento di tale nullità in appello la regressione del al giudice di primo grado e rendeva pertanto assai scarsa la rilevanza pratica di tale nullità).
Per contro, l'impostazione contenuta nella legge delega n. 254/1997 è espressamente nel senso di escludere un siffatto vizio: art. 1 lettera f): «Stabilire che l'attribuzione degli affari al giudice in composizione collegiale o monocratica non si considera attinente alla capacità del giudice né al numero dei giudici necessario per costituire l'organo giudicante». Ne consegue che la violazione dei criteri di composizione collegiale o monocratica del tribunale non può essere configurata dal legislatore delegato come nullità insanabile (non rientrando più nella disciplina ge-nerale della costituzione del giudice), ma deve essere disciplinata alla stregua di una nullità sanabile. D'altro canto, va aggiunto che, sicuramente, i profili strutturali attinenti al nuovo modello di giudice unico, e cioè la configurazione di un unico ufficio giudiziario per effetto della soppressione della pretura e del suo incorporamento nel tribunale, non consentono di ritenere che il vizio relativo alla composizione del giudice possa riguardare profili di competenza: invero, ciò che viene in rilievo non è già l'identificazione dell'organo giudiziario, che resta comunque unico, ma solo la sua composizione (in tal senso, è l'interpretazione che la dottrina dà al vigente art. 274 bis c.p.c.). Nel decreto legislativo (che introduce l'art. 50 quater c.p.c.
con la contemporanea abrogazione dell'art. 274 bis) si prende atto di quanto stabilito dal legislatore delegante circa le caratteristiche della violazione in esame (non costituente vizio della costituzione del giudice), viene eliminato ogni riferimento all'art. 158 c.p.c., ma viene ribadita la regola secondo cui la nullità della sentenza derivante dall'inosservanza delle norme processuali in discorso è deducibile quale motivo di impugnazione nei soli limiti di cui all'art. 161 comma 1 c.p.c.
All'uopo - attesa la diversa qualificazione attribuibile, secondo i principi, alla nullità suddetta, ora diversamente delineata (e certamente non insanabile) - si suggerisce di integrare come segue il disposto ex art. 54 quater: «Le disposizioni di cui agli articoli 50 bis e 50 ter non si considerano attinenti alla competenza o alla costituzione del giudice. La violazione di esse è rilevabile anche d'ufficio non oltre il giudizio di primo grado, salva l'applicazione dell'art. 161 1º comma».
Siffatta formulazione si palesa conforme al contenuto dei nuovi artt.
281 septies e 281 octies che disciplinano i rapporti tra collegio e giudice monocratico, stabilendo che il collegio ed il giudice monocratico possono rilevare in ogni momento del giudizio di primo grado che la causa deve essere decisa dall'organo in diversa composizione e di conseguenza effettuano i relativi incombenti di rimessione.
La regolamentazione che si prospetta comporta, evidentemente, che qualora la nullità non sia stata rilevata dal giudice ovvero eccepita dalla parte tempestivamente in primo grado, essa non possa essere oggetto di impugnazione; per
contro, nel caso di eccezione sul punto non accolta dal giudice di primo grado, la questione può essere riproposta con l'atto d'impugnazione, al che il giudice di appello dovrà comunque limitarsi a rilevare la nullità decidendo nel merito, senza potere rimettere la causa al giudice di primo grado in assenza di ogni richiamo normativo agli artt. 353-354 c.p.c..
Analoga problematica si presenta in materia di processo penale, poiché anche a questo settore si riferisce il disposto del legislatore delegante (art. 1 lett. f) inteso ad escludere espressamente che la ripartizione degli affari tra il collegio ed il giudice monocratico attenga alla capacità del giudice od al numero dei giudici necessario per costituire l'orga no giudicante. Peraltro, in materia penale (come ampiamente messo in rilievo nella Relazione, pag. 55 e segg.) le soluzioni si presentano più complesse, atteso che nel relativo processo la composizione del giudice investe tutto il processo e non la sola fase decisoria.
5. Art. 51 (art. 281 sexies c.p.c.).
In attuazione della delega contenuta nell'articolo 1, comma 1, lettera e) della legge 354/97, lo schema in esame detta disposizioni dirette a rendere applicabili, nelle materie nelle quali il tribunale opera in composizione monocratica, le norme processuali ora vigenti per il procedimento innanzi al pretore.
Tale scelta deve essere condivisa. Del resto, non sarebbe agevole ipotizzare le ragioni sulle quali potrebbe essere giustificata una diversa interpretazione della norma di delega.
Vi è innanzitutto, infatti, il dato testuale di quest'ultima, che non lascia spazio a letture diverse. Sul piano funzionale e sistematico, vi è poi da osservare che la traslazione della disciplina del procedimento pretorile al giudizio davanti al tribunale monocratico non dà luogo ad alcun problema pratico: si tratta, in realtà di poche norme - ed in particolare degli articoli 312 e 315 - perfettamente compatibili con l'impianto generale della disciplina del procedimento davanti al tribunale e che possono quindi essere in essa innestate senza traumi. In terzo luogo si tratta di norme strettamente collegate alla monocraticità del giudizio e alla conseguenza più importante della monocraticità e cioè l'identità tra giudice che istruisce e giudice che decide la causa. L'applicabilità di esse al giudizio davanti al tribunale in composizione monocratica non può che essere considerata alla stregua di una scelta consapevole e razionale del legislatore delegante, sicché non sarebbe stato possibile eluderla in sede di esercizio della delega. Vi è infine da rilevare che la norma di cui all'articolo 1, comma 1, lettera e) detta un criterio tassativo e non meramente orientativo, sicché il legislatore delegato è vincolato a rendere applicabili al giudizio davanti al tribunale in composizione monocratica le norme che regolano il giudizio pretorile, salvo quelle incompatibili, senza poter effettuare alcun'altra scelta discrezionale.
Per dare attuazione a quanto sopra, lo schema ha scelto la strada di accorpare in un nuovo Capo III bis le norme integrative e speciali per il procedimento davanti al tribunale in composizione monocratica.
Mentre nessun rilievo vi è da formulare sull'articolo 281 ter, che riproduce senza modificazioni l'attuale articolo 312, qualche osservazione critica merita il testo dell' articolo 281 sexies per quanto riguarda le forme di decisione semplificate di cui all'attuale articolo 315.
Per meglio comprendere il rilievo è opportuno chiarire le tre diverse sequenze procedimentali delineate per la fase di decisione dalla normativa che viene proposta.
Secondo l'articolo 281 quinquies, che regola la decisione a seguito di trattazione esclusivamente scritta, il giudice, dopo la precisazione delle conclusioni dispone lo scambio di memorie e di repliche e quindi deposita la sentenza entro trenta giorni (termine così ridotto dai 60 giorni previsti dall'articolo 190bis) dalla scadenza del termine per il deposito delle repliche.
L'articolo 281 sexies regola la decisione della causa a seguito di trattazione non già orale - come invece recita la rubrica - ma mista. Su richiesta di una delle parti, o d'ufficio, il giudice può disporre lo scambio delle sole comparse conclusionali, escluse cioè le repliche, e fissare un'udienza per la discussione orale davanti a sé. Si tratta di uno schema che riproduce quello delineato dall'attuale articolo 190 bis, secondo comma, con la rilevante innovazione che lo schema stesso viene reso ora adottabile non soltanto su istanza di una delle parti, ma anche d'ufficio.
Tale innovazione appare essere diretta ad assicurare la possibilità per il giudice di adottare d'ufficio lo schema di decisione previsto nel comma successivo, secondo cui, al termine della discussione, il giudice può pronunziare sentenza dando lettura del dispositivo e della concisa esposizione delle ragioni in fatto e in diritto della decisione.
La soluzione così adottata non appare condivisibile, in quanto non adempie alle prescrizioni della delega e dà luogo ad incongruenze di notevole gravità.
Vi è in primo luogo da osservare che, prevedendo la possibilità di disporre anche d'ufficio il rinvio per la discussione orale, la norma altera notevolmente il modello procedimentale della novella del 1990 (ed in particolare dell'articolo 190 bis, che invece prevedeva la trattazione orale aggiuntiva a quella scritta soltanto su istanza di una delle parti), facendo venir meno l'automatismo della scansione temporale della fase della decisione. Il legislatore del 1990, invero, a fronte di una prassi generalizzata in virtù della quale la fissazione della udienza di discussione veniva utilizzata come valvola per regolare l'afflusso delle cause alla fase decisoria e che, pertanto, registrava rinvii per la decisione della durata anche di anni, ha inteso sottrarre al giudice la disponibilità dei tempi di questa fase dell'iter procedimentale e ha dettato una disciplina secondo la quale, dopo la precisazione delle conclusioni, il giudice non ha più la disponibilità dei tempi della procedura.
Con l'innovazione che si progetta di introdurre, il giudice, potendo scegliere anche d'ufficio di fissare un'udienza per la discussione orale successiva allo scambio delle memorie conclusionali, non sarà più vincolato all'automatismo temporale imposto dalla sequenza prevista dalla norma abroganda, ma potrà usare la fissazione dell'udienza di discussione come strumento di dilazione della decisione: il che è proprio quanto il legislatore del 1990 aveva inteso evitare e che il legislatore delegato di oggi non sembra avere il potere di introdurre.
L'introduzione della possibilità di adottare anche d'ufficio questa forma di trattazione appare poi collegata, come si è detto, all'ipotesi, di cui al secondo comma della norma in esame, di pronunzia immediata della sentenza mediante lettura del dispositivo e della concisa esposizione delle ragioni di fatto e di diritto della decisione.
Ma in tal modo viene esclusa - senza percepibile giustificazione e comunque in contrasto con la delega - l'eventualità della trattazione esclusivamente
orale, alla quale invece l'articolo 315 ricollega detta forma di decisione immediata e di motivazione semplificata.
Questa soluzione appare quindi incongrua per più profili. Oltre a quello della alterazione che viene in tal modo apportata alla regolazione automatica dei tempi di questa fase del processo e oltre a quello della ingiustificata e quindi non legittima esclusione di una modalità di decisione già prevista per il procedimento pretorile, vi è da osservare che la decisione immediata con motivazione semplificata viene in tal modo riservata alle cause per le quali vi sia stata su richiesta delle parti o d'ufficio sia la trattazione scritta che quella orale (salva l'esclusione delle repliche che è una riduzione non molto rilevante dell' attività difensiva): e cioè alle cause che, presumibilmente, sono state considerate dai difensori più complesse, delicate o importanti, tanto da richiedere anche la difesa orale oltre che quella scritta. Il che non appare logico, dovendosi ritenere che si possa far ricorso alla decisione e alla mo-tivazione immediate solamente per le cause di particolare semplicità.
Dell'impostazione seguita nello schema appare peraltro poter essere mantenuta la possibilità di adottare la decisione immediata con motivazione dettata a verbale anche nei casi in cui vi sia stato scambio di memorie conclusionali, non potendosi escludere che proprio le stesse abbiano agevolato quella forma di decisione.
Alla luce di tali considerazioni si ritiene che, per una formulazione appropriata della previsione normativa in esame occorrerebbe 1) eliminare l'ultimo periodo del primo comma dell'articolo 281 sexies (quello cioè che prevede la possibilità di fissare d'ufficio un'udienza per la discussione; 2) eventualmente mantenere gli attuali secondo e terzo comma; 3) aggiungere dopo di essi la previsione secondo cui «dopo la precisazione delle conclusioni, il giudice singolo, su istanza di parte o d'ufficio, può ordinare la discussione orale della causa nella stessa udienza ovvero, su istanza di parte, in un'udienza successiva e pronunziare sentenza al termine della discussione dando lettura del dispositivo e di una concisa indicazione delle ragioni di fatto e di diritto della decisione. In questo caso la sentenza si intende pubblicata con la sottoscrizione da parte del giudice del verbale che la contiene ed è immediatamente depositata in cancelleria».
In verità, per non far luogo a dubbi di eccesso di delega, si sarebbe dovuto mantenere l'esatto contenuto dell’art.315 c.p.c., in coerenza con il criterio (art.1 lett.e legge delega, che, come si legge nella Relazione, si è ritenuto applicabile anche al processo civile) secondo cui il procedimento dinanzi al giudice in composizione monocratica deve essere regolato dalle norme processuali vigenti per il procedimento dinanzi al pretore. La soluzione proposta, viceversa, è il risultato di una rimanipolazione dell’art. 190-bis e dell’art. 315, secondo nuovi criteri processuali estranei all'una e all'altra disposizione .
6. Art. 51 (art. 281 septies c.p.c.).
Nell'art. 281 septies c.p.c., proposto nell'articolato, riguardante la rimessione della causa al giudice monocratico da parte del collegio, sembrerebbe opportuno aggiungere che il collegio provvede con «ordinanza non impugnabile», in riferimento all'art. 177 c.p.c.. Siffatta integrazione si palesa utile sia per escludere che si possa prevedere con sentenza e sia per evitare la modificabilità o revocabilità dell'ordinanza, in ordine alla quale, per quanto sopra detto, neppure è proponibile istanza di regolamento di competenza. E' importante, infatti, per una corretta dinamica
Nell'art. 281 septies c.p.c., proposto nell'articolato, riguardante la rimessione della causa al giudice monocratico da parte del collegio, sembrerebbe opportuno aggiungere che il collegio provvede con «ordinanza non impugnabile», in riferimento all'art. 177 c.p.c.. Siffatta integrazione si palesa utile sia per escludere che si possa prevedere con sentenza e sia per evitare la modificabilità o revocabilità dell'ordinanza, in ordine alla quale, per quanto sopra detto, neppure è proponibile istanza di regolamento di competenza. E' importante, infatti, per una corretta dinamica