• Non ci sono risultati.

Dall’“artista dotto” all’“uomo di gusto”

L’“artista dotto” diventa, nel corso dei secoli, un topos ricorrente negli scritti di teorici e artisti. Eppure secondo Rensselaer W. Lee, questa figura «era un’astrazione, che, se non può essere definita solo un parto dell’immaginazione, ha tuttavia avuto raramente riscontro

nella realtà» 152. Per verificare la validità di questa affermazione si può

affrontare la questione da un altro punto di vista: quello dei destina-tari dei trattati albertiani. È evidente che il lettore di Alberti non è più quello di Cennini, ovvero l’artigiano che nel manuale cerca soprattutto regole operative, ma è sicuramente un destinatario più colto che deve avere competenze in ambiti differenti: si tratta appunto di quell’artista

doctus il cui ritratto intellettuale è tracciato nel III libro del De

pictu-ra. Di fatti costui deve essere in grado di leggere il latino umanistico

dato che tutti e tre i trattati furono scritti in questa lingua 153. Certo

nel 1436, un anno dopo la composizione, il De pictura fu tradotto in volgare e dedicato al Brunelleschi, probabilmente per poter essere ac-cessibile agli artisti che non conoscevano il latino. Ciò trova conferma nel fatto che nel testo volgare vengono tralasciati molti esempi classici e opinioni filosofiche e si preferisce un linguaggio più conciso anche se meno elegante. Ma nel complesso la versione volgare risulta poco accurata e chiara; inoltre dal numero dei codici manoscritti essa appa-re meno diffusa, nel Quattrocento, rispetto a quella latina. Già a fine secolo sembra che si andasse perdendo il ricordo della versione volga-re tanto che si fecero nuove traduzioni in italiano divolga-rettamente dal testo latino 154.

Accanto alla conoscenza del latino, il destinatario dei trattati alber-tiani deve padroneggiare nozioni di teoria musicale per cogliere le ana-logie tra rapporti armonici e proporzioni estetiche, e gli occorre pure una certa familiarità con le opere dei retori e dei poeti per poter segui-re le digsegui-ressioni storico-letterarie ricorsegui-renti nei testi e, in particolasegui-re, nel De re ædificatoria. Alcune volte, infatti, l’architettura diventa me-tafora della condizione umana e il trattato assume toni che sono pro-pri degli scritti allegorici quali gli Apologhi, il Momo o le Intercenali dove corpi minerali e vegetali vengono personificati fino a provare

sen-timenti e passioni 155. Infine per seguire la serie di dimostrazioni con

cui Alberti spiega la costruzione prospettica nel libro I del De pictura,

il lettore deve avere una padronanza di matematica e geometria che

mancava persino agli uomini più colti 156. Infatti gli umanisti

solita-mente non avevano una conoscenza approfondita delle discipline scientifiche che, invece, assieme ai metodi utili per le stime (topogra-fia e calcolo delle aree e dei volumi), rientravano nel curriculum

del-l’educazione commerciale 157. Secondo Baxandall gli unici lettori in

grado di comprendere il De pictura erano gli allievi della scuola man-tovana di Vittorino da Feltre, dove si insegnavano anche le discipline

scientifiche e il disegno 158. Infatti il trattato ha per oggetto

l’apprez-zamento attivo della pittura ed è indirizzato ad un particolare ed in-consueto tipo di umanista informato sulla teoria e dilettante nella pra-tica. D’altro canto, anche il De re ædificatoria, dando spazio sia ai dati tecnici sia alle digressioni teoriche, non si rivolge solo a chi è del

me-stiere, ma alle persone colte in generale 159, sebbene l’attenzione ai

me-todi del fare artistico lasci preludere ad una certa competenza pratica anche da parte del lettore colto. Attraverso queste considerazioni si è giunti a delineare una nuova figura che non si identifica con gli arti-sti del tempo; pochi infatti, si sarebbero riconosciuti nel ritratto deli-neato nel De pictura, confermando così la tesi di Lee. I soli pittori che fecero proprie le indicazioni albertiane furono Piero della Francesca e Mantegna, i quali lavorarono nelle corti di mecenati aperti alle idee dell’umanista: Federico da Montefeltro (Urbino) e Ludovico Gonzaga (Mantova). Ma si possono considerare due eccezioni, dato che essi eb-bero anche interessi teorici e probabilmente conobeb-bero personalmente

l’Alberti 160. Tra gli artisti colti che lessero il De pictura si può

menzio-nare Antonio Averlino, detto il Filarete, il quale, affrontando il

proble-ma del disegno nei libri XXII-XXIV del suo Trattato di architettura

(1461-64), ne riporta un lungo passaggio 161. Pertanto questo testo, pur

così importante per la rappresentazione pittorica, circolò poco tra gli artisti del tempo e raggiunse notorietà soprattutto presso gli umanisti, amici e ammiratori dell’Alberti, esercitando la sua influenza spesso per via indiretta. Bartolomeo Fazio, infatti, vi fa riferimento, ricordando la personalità dell’autore nel suo De viris illustribus (1456) e Cristoforo

Landino ne parla nel Proemio al Comento sopra la Comedia di Dante

Alighieri poeta fiorentino, 1481 162.

Probabilmente i veri destinatari dei trattati albertiani si potrebbe-ro individuare, più che tra gli artisti, tra gli stessi dotti uditori delle corti signorili a cui l’umanista aveva già rivolto il Philodoxeos, il De

equo animante, il Teogenio, i Ludi Matematici 163. Una conferma di

questa ricezione ad ampio raggio è data dal fatto che echi del De

pic-tura si ritrovano nella Politia letteraria (1460 ca.) di Angelo Decembrio

in cui Lionello d’Este discute di argomenti d’arte con un gruppo di

cortigiani 164. È indicativa, a questo proposito, la giustificazione

addot-ta da Filarete per aver elaborato un trataddot-tato di architettura quando già «altri valentissimi uomini abbino scritto opere elegantissime» come il “dottissimo” Battista Alberti. L’Averlino, infatti, considerando il De re

ædificatoria un testo rivolto soprattutto ai dotti e agli “intendenti in

lettere”, precisa che il suo trattato si differenzia non solo per lo stile

(uso del volgare), ma anche per il pubblico a cui si rivolge 165. In

par-ticolare i destinatari del De re ædificatoria sono i committenti, che tal-volta si dilettano di intervenire nella progettazione e nella direzione dei

lavori 166 e nei confronti dei quali l’umanista vuole affermare la propria

dignità di esperto.

Una nuova figura di lettore si affaccia, quindi, nel panorama della ricezione dei testi umanistici: un uomo di cultura competente anche di pratiche artistiche. Sempre più, infatti, diviene uso tra i signori

dedi-carsi alle arti per diletto. Il “dilettantismo” 167 come dote del perfetto

gentiluomo e, di conseguenza, come elemento del curriculum della sua educazione, secondo quanto richiesto dal Castiglione, seppure già

pre-sente nell’antichità 168, diventa una moda diffusa nel Rinascimento.

«Allora il Conte, – Prima che a questo proposito entriamo, voglio, -disse, – ragionar d’un’altra cosa, la quale io, perciò che di molta im-portanza la estimo, penso che dal nostro cortegiano per alcun modo non debba essere lasciata addietro: e questo è il saper disegnare ed

aver cognizion dell’arte propria del dipingere» 169.

Secondo questa tradizione sia la pratica che il godimento della poe-sia, della musica e della pittura sono considerate un passatempo ap-propriato all’uomo di corte, al gentiluomo, al principe, sebbene il dedicarsi a queste arti non sia distinto da altre attività egualmente de-gne e stimabili quali la scherma, l’equitazione, il collezionare monete o medaglie. Delle occupazioni che si addicono all’uomo “ben costuma-to”, Alberti nel De iciarchia ne indica alcune che si eseguono non in-sieme ad altri, ma privatamente, per puro piacere personale: «Delle operazioni nostre alcune sono solo a noi, e non con altri essequite che per noi soli: come dare opera agli studi delle lettere, alla perizia del-le buone arti e investigazione di cose degne, o ancora pingere e fingere concerti, o componere qualche dimensione e finizione di qualche

tem-pio, o scrivere qualche poema, qualche istoria; e queste e simili

chia-miànle private operazioni» 170.

Se la pittura e la scultura sono da includere tra le conoscenze ne-cessarie ad un certo status sociale, lo si deve da un lato all’assimilazio-ne, ormai implicitamente considerata acquisita, delle arti figurative a quelle liberali e, dall’altro, alla scelta, tra le attività dello spirito di quel-le che rispondono meglio alquel-le esigenze di persone di gusto. Si tratta, dunque, di una duplice promozione, ma accanto a questo è significa-tiva e nuova la familiarità che i principi e i signori avevano con gli artisti. Lo stesso Alberti, infatti, con i suoi committenti di ascendenza nobiliare intratteneva rapporti di amicizia e stima.

Vasari fornisce una preziosa testimonianza su una delle pratiche fa-vorite dagli scultori “dilettanti”: i medaglioni-ritratto in bronzo, un’at-tività che, non richiedendo particolare fatica o specializzazione, si

dif-fonde presso tutti i gentiluomini 171. L’esempio più famoso di

“dilettan-te” è rappresentato proprio dallo stesso Alberti 172, il quale più che un

artista di mestiere può essere considerato un intellettuale eclettico per il quale la pratica artistica diventa una delle attività più piacevoli nei suoi momenti di otium: «Sia licito confessare di me stesso. Io se mai per mio piacere mi do a dipignere, – qual cosa fo non raro quando dall’altre mie maggiori faccende io truovo ozio –, ivi con tanta volut-tà sto fermo al lavoro, che spesso mi maraviglio così avere passate tre

o quattro ore» 173. E in effetti soltanto nel campo architettonico lo si

può considerare un vero professionista, ma si ricordi che Alberti inizia a dedicarsi a tale pratica solo intorno alla metà del Quattrocento, quan-do era già famoso come letterato. Per quanto riguarda le altre due arti figurative, invece, la sua attività fu solo occasionale e per puro

dilet-to174. Ne costituisce conferma il fatto che della sua pratica scultorea

ri-mane solo una medaglia-autoritratto in bronzo 175, secondo la moda del

tempo, mentre vari e incerti sono i tentativi di ulteriori attribuzioni 176.

La figura del “dilettante”, inaugurata da Castiglione, si ripresenta in parecchi scritti del Cinquecento e del Seicento. Si pensi a Il principe (Venezia, 1561) di Giovanni Battista Pigna o a The Compleat

Gentle-man (1622) di Henry Peacham, autore che continua la tradizione

rina-scimentale dell’amatore. Infatti, nel suo trattato sul disegno, raccoman-da per l’educazione del perfetto gentiluomo l’esercizio della pittura, della musica, della poesia, degli studi classici, del collezionismo di mo-nete o altre antichità e curiosità naturali. Alla critica degli artisti su-bentra così quella dei “virtuosi”. Questo termine comincia a

diffonder-si in Italia, agli inizi del XVII secolo, per designare l’uomo di cultura e

di buon gusto professionalmente non specializzato; e in questo senso compare nell’Encyclopédie, dove è indicato come corrispondente italia-no della italia-nozione francese di amateur che si riferisce a tutti coloro che amano le arti 177.

All’origine di questo percorso si può individuare, come è stato di-mostrato, l’artista dotto albertiano che, a parte le eccezioni cui si è accennato, trova pochi riscontri effettivi nel Rinascimento e può essere

considerato l’«immagine idealizzata dello stesso Alberti» 178.

L’umani-sta apre così la strada alla figura del “dilettante” che, nei secoli succes-sivi, svolgerà un ruolo di un certo rilievo non solo nella produzione dell’arte ma anche in quella dei testi, dato che i dilettanti da lettori – come si è visto nel caso dei trattati albertiani – diventeranno ben pre-sto autori. A partire dal ’600, infatti, aumentando l’interesse degli ama-tori, degli scrittori e dei filosofi per le arti visive e la musica, si diffon-de una letteratura teorica e tecnica prodotta dai non artisti. Il tratta-to di Giulio Mancini (Considerazioni sulla pittura, 1617-1628) è il pri-mo e più ampio documento del nuovo pri-modo di vedere, in quanto

ini-zia con una difesa della critica dei non artisti 179. Così con un percorso

inverso a quello che alla fine del ’300 aveva portato i pittori, inclusi nell’Arte dei Medici e degli Speziali, a rivendicare a sé gli stessi diritti dei medici, Mancini, che di professione fa il medico, rivendica ai

“di-lettanti” il diritto di fare teoria della pittura 180. Ormai le arti figurative

non sono più soltanto una competenza degli artisti, come nel Rinasci-mento, ma diventano sempre più luogo operativo e di riflessione per un ambito sociale ed intellettuale molto più vasto, sebbene

differenzia-to nelle diverse modalità di approccio 181.