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Il concetto di imitazione nell’arte e nella poesia

La visione laica del mondo e dell’uomo, che si diffonde durante il Rinascimento, non è priva di conseguenze sulla teoria dell’imitazione la quale, affrancatasi dai condizionamenti teologici del Medioevo, si volge nuovamente alla natura e diventa, secondo i parametri epistemo-logici del tempo, una delle nozioni fondamentali della riflessione sul-l’arte. La dottrina platonica che considerava la mimesis come una ri-produzione passiva e condannava l’arte in quanto copia della realtà, a sua volta copia dell’idea, si era mantenuta, attraverso il neoplatonismo, anche durante il Medioevo. Ma una spia di un nuovo modo di senti-re si ritrova già nella Cronaca di Filippo Villani che ripsenti-rende il topos dell’ars simia naturæ, spogliandolo di quelle connotazioni negative

le-gate all’inautenticità delle immagini artistiche 182.

L’urgenza con cui tale nozione si impone nella teoria dell’arte è testimoniata dai continui appelli di teorici e artisti. Nel Libro

dell’ar-te, Cennini 183 raccomanda al pittore di porsi di fronte ad un modello naturale per effettuare una riproduzione fedele, e Ghiberti dichiara di

mirare sempre nelle sue opere all’imitazione della natura 184. Pertanto

interpretando questa esigenza diffusa, Leon Battista Alberti, nei suoi trattati, consegna agli artisti gli strumenti per realizzare una rappresen-tazione realistica sulla base di precise leggi geometrico-matematiche: la

prospettiva pittorica, le regole per definire il progetto architettonico, i mezzi (exempeda, finitorium) e le misure per la statuaria.

La natura, che alla fine del Trecento torna ad essere oggetto

del-l’imitazione artistica, non è un concetto univoco 185: da un lato indica

ciò che esiste e rientra nell’ambito della conoscenza ed esperienza

(na-tura na(na-turata), dall’altro costituisce una forza produttrice e

ordinatri-ce (natura naturans) 186. Ma è soprattutto il secondo aspetto ad

acqui-stare importanza nella teoria dell’arte, tanto che lo stesso Alberti lo pone a fondamento della sua riflessione sull’architettura. Partendo dal postulato estetico che «l’edificio è come un organismo animale», egli ritiene che per realizzarlo bisogna imitare la natura. Ma questa opera-zione non si risolve in una riproduopera-zione esteriore, bensì nel «ricavare i principi che in essa presiedevano alla formazione delle cose» per

ap-plicarli «ai propri metodi costruttivi» 187. Si tratta, quindi, di

un’imita-zione non dei prodotti, ma dei processi formativi propri della natura

naturans, basata sull’indagine strutturale delle morfologie naturali e

sull’estrapolazione di leggi 188. In questo modo l’imitatio naturae

acqui-sta un valore diverso dalla semplice riproduzione di forme esteriori e, recuperando un significato già presente, benché poco diffuso, nel

pen-siero greco 189, diventa l’imitazione dei modi d’agire della natura. Tale

teoria, già ripresa da Tommaso d’Aquino per il quale «ars imitatur

na-tura in sua operatione» 190, ritorna nel De re ædificatoria dove la ratio

ædificandi si basa sull’esempio delle rondini: «Del resto si possono

osservare anche le rondini, le quali, con accorgimento dettato dal-l’istinto, nel costruire il loro nido cominciano coll’impastare di mota i primi rametti che costituiscono le fondamenta dell’intera opera, e a questi con identica tecnica sovrappongono le strutture successive, né già a casaccio, bensì procedendo per gradi e tempestivamente, e la-sciando che le parti fabbricate in precedenza si siano ben rafforza-te»191.

Ma se da un lato il pensiero del Rinascimento, ponendo l’uomo al centro dell’universo, secondo la nota formulazione di Pico della Miran-dola (Oratio de hominis dignitate, 1486), ne fa l’interprete dei misteri e dei segreti della natura, dall’altro non dimentica che esistono per l’uomo confini invalicabili. Così per Alberti la natura deve fornire al-l’architetto un’occasione per «sollecitare e rafforzare l’ingegno» verso «mete sempre maggiori», stimolando la ricerca di «tutti quei pregi che si trovano nascosti, per dir così, nelle [sue] intime viscere [...], e non solo quelli che s’incontrano a caso qua e là», e che l’architetto «andrà raccogliendo e riponendo nell’animo suo, per poi utilizzarli nelle sue

opere e conseguire così splendida gloria» 192. Ma l’umanista sottolinea

anche i limiti entro i quali l’uomo deve attenersi in questa indagine. Se è lecito studiare e riprodurre i meccanismi con cui la natura agisce,

In-fatti, molte opere realizzate dall’uomo sono andate in rovina perché si sono trovate in conflitto con la legge di natura.

Ma accanto all’imitazione della natura, optima formarum artifex 194,

nel Quattrocento si fa strada anche quella delle opere del passato 195,

mirabile esempio di un’attività di osservazione e studio dei fenomeni

naturali che già gli antichi erano soliti perseguire 196. «Tutto quanto

fi-nora s’è detto, i nostri antenati l’avevano appreso dall’osservazione della natura medesima; e comprendendo che, trascurando tali dettami, senza dubbio non avrebbero conseguito nulla che potesse giovare al buon nome dell’opera propria, giustamente stabilirono che dovesse

esser loro di modello la natura, creatrice delle forme migliori» 197. Tale

mutamento di referente costituisce una delle più grandi trasformazioni intercorse nel concetto di mimesi e sarà destinato a diventare sempre più importante, fino a soppiantare, nel corso del Seicento, l’imitatio

naturæ. Ma ancora durante il XV secolo i modelli naturali e quelli an-tichi coesistono pacificamente essendo rivolti a scopi diversi: l’imitazio-ne della natura si risolve l’imitazio-nell’apprendimento delle regole operazionali, quella dell’antico nella scelta rispetto ad un repertorio di modelli e so-luzioni. Nei confronti di entrambi i referenti, però, è necessario, secon-do Alberti, assumere un atteggiamento critico. Infatti imitare gli anti-chi non vuol dire attenersi «strettamente ai loro schemi e accoglierli tali e quali nelle nostre opere, quasi fossero leggi inderogabili; bensì, avendo il loro insegnamento come punto di partenza», si cercherà «di approntare soluzioni nuove e di conseguire così una gloria pari alla

loro o, se possibile, anche maggiore» 198.

Pur riconoscendo all’antico il valore di “seconda natura” da imita-re, Alberti non mira alla restaurazione passiva di tale modello, quan-to a superarlo attraverso la reintegrazione della sua eredità e il suo

ra-zionale sviluppo 199. Tale modo di operare è evidente nella facciata

del-la chiesa di Santa Maria Noveldel-la che era rimasta incompiuta nel 1365. Quando Alberti pose mano al progetto (1455 ca.), preferì lasciare inal-terate le parti medievali, armonizzando la bicromia della tradizione romanico-gotica col nuovo linguaggio e cercando di attuare mediazioni tra le proporzioni classicheggianti e la precedente impostazione

gene-rale dell’edificio 200, fermamente convinto che, in ogni campo, sia

«me-glio continuare osservando gl’instituti antiqui, quando ben fussero non

così lodati, che romperli con nuovi ordinamenti» 201. Ma ancora più

in-teressante è l’intervento di Alberti nel Tempio Malatestiano. A parti-re dalla vecchia chiesa duecentesca di San Francesco, un edificio in mattoni a tre navate, l’umanista progetta una costruzione moderna in cui riprende l’arco trionfale romano. Tra antico e nuovo si stabilisce in questo caso un doppio legame, inerente al sito (infatti ad alcune cen-tinaia di metri si ergeva l’arco di Augusto, il monumento più noto di Rimini) e all’occasione (il richiamo alla nozione di trionfo conferiva

una patina di antichi fasti alla celebrazione di Sigismondo Malatesta). Questo particolare classicismo, che si è già visto operante nell’ela-borazione dei trattati d’arte, distingue Alberti da coloro che, come ad esempio Bramante e la sua cerchia, all’inizio del ’500 riprenderanno lo

studio dell’antico 202. Infatti mentre Sebastiano Serlio (1475-1554)

guar-derà a Vitruvio con la reverenza di una grande autorità, l’umanista assume nei confronti dell’architetto latino un atteggiamento critico. Ne è una conferma il fatto che molti dei suggerimenti forniti nel De re

ædificatoria discordano da quelli del De architectura, mostrandosi più

vicini alle soluzioni effettivamente riscontrabili negli edifici romani che Alberti aveva avuto modo di esaminare. Infatti, sebbene gli antichi siano un punto di riferimento costante in fase sia di ideazione sia di esecuzione, il metodo empirico raccomandato da Alberti predilige

sem-pre, alla fonte letteraria, l’osservazione diretta 203. «Tutto ciò non

ab-biamo desunto dagli scritti degli antichi, bensì ricavato

dall’osservazio-ne esatta e scrupolosa delle opere dei migliori architetti» 204.

Le regole ricavate dalla natura o dai modelli antichi costituiscono, per Alberti, solo uno dei tre elementi che intervengono nell’attività artistica assieme alla facoltà ideativa (ingenium) e alle competenze tec-niche (ars), che garantiscono una buona esecuzione. «Le caratteristiche che si apprezzano negli oggetti più belli e meglio ornati, o sono frut-to di ritrovati e calcoli dell’ingegno [ex ingenii] oppure del lavoro del-l’artefice [ex artificis manu], o sono state conferite direttamente dalla

natura [a natura]» 205. E se dalla natura dipende la materia prima, con

le peculiarità che la caratterizzano («la pesantezza, la leggerezza, la densità, la lunga durata dei materiali che rendono l’opera ammirevo-le»), all’ingegno e alla mano spettano quelle operazioni ideative e

tec-niche che contribuiscono alla realizzazione di un’opera perfetta 206.

Scopo dell’imitazione artistica rispetto sia al modello naturale sia al modello antico è quello di cogliere la similitudo. Non a caso infatti Alberti evoca il mito di Narciso per definire, sulla base della metafo-ra dello specchio, le origini della pittumetafo-ra come fenomeno essenzialmen-te visivo. E come nel De pictura dichiara esplicitamenessenzialmen-te che da que-st’arte ci si aspetta che «molto paia rilevata e simigliata a chi ella si

ritrae» 207, così nel De statua inizia la trattazione proprio partendo dal

«criterio per cogliere le somiglianze» e dalle sue due finalità

(genera-le o particolare) 208. Però nonostante il concetto di similitudo rivesta

un ruolo centrale nella teoria artistica di Alberti, e più in generale in

quella del Rinascimento 209, l’umanista si rende conto che non sempre

la natura riesce a pervenire a risultati tanto perfetti da poter costitui-re un adeguato modello per l’artista: «e non accade di fcostitui-requente che alcuno – nemmeno la natura – riesca a creare un’opera perfetta e

im-peccabile in ogni sua parte» 210.

Si determina, infatti, un’importante svolta nell’ambito del concetto di imitazione: se la qualità dei risultati raggiunti dalla natura è messa in dubbio, all’artista viene offerta la possibilità di continuarne e miglio-rarne l’opera. Infatti l’imperativo della mimesis esige che solo le ope-re perfette, le uniche degne di ammirazione, possano costituiope-re validi modelli. «Ciò che, al contrario, si comprende poter esser fatto molto meglio, si dovrà correggere o riparare usando senno e destrezza; e an-che ciò an-che non risultasse mal fatto, ci si sforzerà col proprio ingegno

di renderlo migliore» 211.

Pertanto quella perfezione, riscontrabile solo raramente in natura, può essere realizzata dall’artista seguendo il metodo di Zeusi che, do-vendo rappresentare la statua della dea, scelse come modello le parti

migliori di cinque tra le più belle fanciulle di Crotone 212. Si tratta di

quel pluralismo dei modelli che, teorizzato anche da Castiglione 213,

avrà diversi sostenitori nel Rinascimento: «e come la pecchia [l’ape] ne’ verdi prati sempre tra l’erbe va carpendo i fiori, così il nostro cor-tegiano averà da rubare questa grazia da que’ che a lui parerà che la

tenghino e da ciascun quella parte che più sarà laudevole» 214.

Così, parallelamente alla nozione di imitazione come assoluta ade-renza al vero, si diffonde nella teoria artistica quella di superamento

del modello naturale 215. Come nei confronti dell’antico si prescrive

l’emulazione, così anche nei confronti della natura non bisogna limi-tarsi a raggiungere la somiglianza ovvero fermarsi alla riproduzione

passiva, ma «aggiugnervi bellezza» 216. «Le parti brutte a vedere del

corpo, e l’altre simili quali porgono poca grazia, si cuoprano col pan-no, con qualche fronde o con la mano. Dipignevano gli antiqui l’im-magine di Antigono solo da quella parte del viso ove non era manca-mento dell’occhio. E dicono che a Pericle era suo capo lungo e brutto, e per questo dai pittori e dagli scultori, non come gli altri era col capo nudo, ma col capo armato ritratto. E dice Plutarco gli antiqui pittori, dipignendo i re, se in loro era qualche vizio, non volerlo però essere non notato, ma quanto potevano, servando la similitudine, lo emenda-vano» 217.

Il dibattito, che coinvolge sia le litteræ sia le arti figurative, apre la strada ad una maggiore preminenza del soggetto a cui è demandata la scelta. Ma come nota Panofsky solo in epoche posteriori naturalezza e bellezza sarebbero diventate obiettivi inconciliabili, mentre ancora nel Rinascimento erano avvertite come postulati parziali di un’unica realtà «ossia dell’esigenza che, sia come imitatori, sia come correttori, ci si

ponesse di nuovo di fronte al vero» 218. Di fatti pur prospettando la

possibilità per l’artista di realizzare opere più belle di quelle naturali, Alberti ammonisce il pittore a non affidarsi solo alla propria abilità e “idea” abbandonando la natura e la regola, poiché «Fugge gl’ingegni non periti quella idea delle bellezze, quale i bene essercitatissimi

appe-na discernono» 219. Si tratta di un’affermazione di grande importanza in quanto ribadisce ancora una volta la necessità della pratica e del-l’esercizio per raggiungere un ideale di perfezione che solo l’esperienza può aiutare a “scoprire” e a “discernere”. Ma soprattutto questo pas-so, attraverso quel riferimento esplicito al concetto di “Idea”, mostra come la dimensione “poietica” acquisti qualificazioni differenti nella poesia e nelle arti figurative. Infatti, in sede poetica, la ripresa di mo-tivi platonici sottolinea l’aspetto irrazionale dell’“invenzione”. La no-zione greca di “poeta-vate”, che considera il poeta animato da uno spirito divino, si carica, durante il Medioevo, di nuovi significati vol-ti a salvaguardare il valore evol-tico-civile della poesia, nonostante il carat-tere pagano delle sue “finzioni”. In questa polemica contro i teologi si schierano in prima linea Francesco Petrarca e Coluccio Salutati (De

fato et fortuna), accentuando il carattere inventivo della poesia 220. Ma

sarà Boccaccio, nella Genealogia deorum gentilium (XIV, 7), a

sottoli-neare in maniera decisa la novità dei prodotti dell’invenzione

attraver-so la nozione di fervor 221. In realtà, però, in questi “umanisti” ante

lit-teram il paragone tra l’opera dell’uomo e quella del dio mira solo a

salvare il valore morale della poesia. Solo nelle poetiche del Rinasci-mento il confronto con la divinità, perdendo le sfumature teologiche, acquista valore di metafora volta a trasferire all’artista la capacità cre-atrice divina. Il sacer furor di Poliziano (Nutricia v. 139 e ss.), se può in parte ricordare il fervor di Boccaccio, è ormai volto a conferire al poeta un potere analogo a quello della divinità; concetto che trova matura espressione nel Naugerius di Fracastoro, in cui il poeta è

defi-nito esplicitamente “quasi un dio” 222.

Diversa è la situazione nella teoria dell’arte del Quattrocento, ove se si vuole elogiare un artista si fa riferimento sempre alle sue doti “imitative” più che “inventive”. Così Cristoforo Landino nel

Comen-to sopra la Comedia di Dante (Firenze, 1481), definisce Masaccio

“op-timo imitatore di natura” o “grande imitatore degli antichi” 223. Infatti

coerentemente con quel processo volto a nobilitare le arti figurative, equiparandole alle scienze, in ambito artistico si preferisce all’irrazio-nalità del poeta la scoperta meditata e razionale dello scienziato. Per questo motivo l’imitazione, che – come si è visto – è volta non all’og-getto in sé ma al metodo rigoroso e preciso seguito dalla natura e dagli antichi, conferisce all’operare artistico una base di scientificità. Lo stes-so Alberti attribuisce molta importanza alle doti ideative dell’architet-to. Tuttavia egli considera l’attività di progettazione un processo auto-critico, frutto di lunghe e pazienti attese: all’entusiasmo per l’opera concepita deve subentrare un distacco meditativo affinché il giudizio sul progetto non sia influenzato «dall’amore dell’invenzione ma sia dettato da pacato ragionamento». Pertanto l’attimo in cui l’artista co-glie quell’«idea delle bellezze» che esprime la perfezione dell’opera

d’arte costituisce una fase estremamente delicata e complessa della sua attività. L’“invenzione”, infatti, non proviene ex sinu dei, come per il poeta, ma è il frutto di un lungo e costante esercizio e può essere colta chiaramente solo dopo una meditata riflessione razionale.

1 L. B. Alberti, De pictura, III, 63, a cura di C. Grayson, cit., p. 106. Anche nel De re

ædificatoria (cit., III, 14, p. 240; VI, 1, pp. 440-442) la coscienza della novità dell’impresa si accompagna alla continua preoccupazione per le difficoltà di trattare argomenti tecnici e complessi nel modo più chiaro possibile.

2 Alberti è consapevole della novità del suo trattato. Cfr. Id., De pictura, prologo, cit., p. 7: «Confessoti sì a quegli antiqui, avendo quale aveano copia da chi imparare e imitarli, meno era difficile salire in cognizione di quelle supreme arti quali oggi a noi sono faticosissime; ma quinci tanto più el nostro nome più debba essere maggiore, se noi sanza precettori, senza essemplo alcuno, troviamo arti e scienze non udite e mai vedute». Ma anche il libro II, 26, p. 46: «non come Plinio recitiamo storie, ma di nuovo fabrichiamo un’arte di pittura, della quale in questa età, quale io vegga, nulla si truova scritto». E ancora il libro II, 48, p. 86: «Di-cono che Eufranor, antiquissimo dipintore, scrisse non so che de’ colori: non si truova oggi. Noi vero, i quali, se mai da altri fu scritta, abbiamo cavata quest’arte di sotterra, o se non mai fu scritta, l’abbiamo tratta di cielo, seguiamo quanto sino a qui facemmo con nostro inge-gno». Anche in un’opera di tono completamente diverso come l’intercenale Fatum et Fortuna si può notare l’alta considerazione in cui Alberti tiene coloro (chiamati in modo figurato “se-midei”) che ricostituiscono le arti, recuperandone i frammenti, o ne costituiscono di nuove (“dei” sono invece coloro che alle arti hanno dato origine).

3 Brunelleschi rifiutò di pagare i tributi alla corporazione cui apparteneva, l’“Arte dei Maestri di pietra e legnami”, e fu messo in prigione (20 agosto 1434). Ma fu liberato per intervento del capitolo del Duomo e poté continuare i lavori della cupola fiorentina senza ulteriori fastidi. La sfida del Brunelleschi non fu certo un caso isolato, ma la grandezza del-l’uomo e dell’impresa conferisce all’episodio un valore simbolico. Cfr. R. e M. Wittkower,

Nati sotto Saturno, Torino, Einaudi, 1968, p. 19.

4 Tra il XII e il XIII secolo, attraverso gli arabi Alhazen e al-Khindi, gli studi di ottica si diffusero in Occidente. Ma la perspectiva medievale era una teoria matematica della vista, connessa con l’astronomia e distaccata dai problemi di grafica. Soltanto nel XV secolo la

per-spectiva naturalis o communis, ovvero la teoria matematica della vista, viene trasformata in perspectiva artificialis o pingendi, cioè in un metodo matematico di disegno. G. Nicco

Faso-la, “Introduzione” a Piero della Francesca, De prospectiva pingendi, Firenze, Le Lettere, 1984, in part. pp. 3-30. Generalmente l’inventore della perspectiva artificialis è considerato, su te-stimonianza del Manetti (Vita di Filippo Brunelleschi, cit., p. 57 e ss.), Brunelleschi, il quale, partendo dal riconoscimento della prospettiva come fenomeno ottico che consiste nella ridu-zione proporzionale dell’immagine dell’oggetto percepito in base alla distanza dell’osservatore, realizzò la prima applicazione concreta della nuova tecnica, capace di un forte effetto illusio-nistico e di notevole stimolo per la pratica degli artisti. Cfr. A. Parronchi, Le due tavolette

prospettiche del Brunelleschi, in Id., Studi su la “dolce” prospettiva, Milano, Martello, 1964, pp.

226-295. Voce contraria, seppure isolata, è quella di R. Arnheim (La macchina prospettica di

Brunelleschi, in Id., Intuizione e intelletto, Milano, Feltrinelli, 1987, pp. 217-225) il quale

contrasta questa communis opinio. Ma sarà poi Alberti, nel De pictura (1435), a sviluppare questa scoperta in un’ampia riflessione sul procedimento pittorico, impiegando l’ottica e la geometria nella rappresentazione di oggetti tridimensionali su superfici piane. L’applicazio-ne della prospettiva alle arti segnò una rivoluzioL’applicazio-ne L’applicazio-nel campo figurativo e costituì l’espediente attraverso cui, da un lato, fu possibile accostare la pittura alle arti del quadrivio, rivendican-done il valore intellettuale, dall’altro, si poté rivaleggiare con gli antichi e persino superarli. Data la complessità e l’importanza di questi temi la letteratura in proposito è molto ampia.