1. Introduzione
Il divario tra il tasso di occupazione femminile italiano e quello dell’UE15 non riflette una maggiore incidenza della disoccupazione quanto una minore partecipazione delle donne al mercato del lavoro (cfr. Bobbio et al. 2011) e la partecipazione delle donne al mercato del lavoro è inevitabilmente condizionata dalla maternità.
In Italia il sistema previdenziale consente alle lavoratrici di assentarsi dal lavoro senza penalizzazioni economiche fino al quarto mese di età del figlio e la legge vieta al datore di lavoro di licenziare la madre fino al primo anno di età del bambino. Le donne che devono o vogliono ritornare al lavoro allo scadere delle tutele offerte dal congedo obbligatorio sono costrette a confrontarsi con la necessità, da un lato, di garantire al proprio datore di lavoro una disponibilità oraria in linea con quella richiesta dalla propria mansione/ruolo e dall’altro di assicurarsi che ai figli siano garantiti l’attenzione, l’affettività e gli stimoli al processo cognitivo necessari in una fase delicata della crescita come la prima infanzia. L’assenza di strutture qualificate che accolgano i bambini nella fascia di età da 3 a 36 mesi ad un costo sostenibile penalizza soprattutto le donne che non possono contare sull’aiuto di altri famigliari o permettersi una baby sitter, spingendole ad abbandonare il lavoro. Al compimento del terzo anno, con l’ingresso del bambino nella scuola materna, le donne che desiderano rientrare sul mercato del lavoro scontano la prolungata assenza, al punto da essere, in molti casi scoraggiate dal cercare attivamente un impiego.
Diversi lavori empirici hanno dimostrato come la presenza di servizi di accoglimento per l’infanzia favorisca l’occupazione femminile. Chevalier e Viitanen (2002), con i dati relativi al Regno Unito per il periodo 1992-1999, hanno dimostrato la causalità nel senso di Granger tra il numero di addetti ai servizi all’infanzia (utilizzato come proxy per l’offerta) e il tasso di occupazione femminile.
Jaumotte (2003) ha analizzato, per 17 paesi OCSE, gli effetti sull’occupazione femminile di alcune politiche di sostegno quali: i premi di natalità, i congedi parentali, gli incentivi per il job sharing all’interno della coppia e il sostegno pubblico ai servizi per l’infanzia. Dall’analisi econometrica, condotta su dati macroeconomici per il periodo 1985-1999, è emerso che la spesa pubblica per i servizi all’infanzia ha un effetto significativo sul tasso di occupazione femminile, in particolare per gli impieghi a tempo pieno. I premi di natalità, invece, traducendosi in un mero sostegno al reddito, sembrerebbero avere addirittura un effetto negativo sull’occupazione part-time. Whrolich (2007) con i dati SOEP (panel socio economico tedesco) ha stimato un modello microeconomico basato sulla funzione di utilità delle madri e sull’elasticità di sostituzione tra tempo di lavoro e tempo di cura dal quale emerge che un incremento della disponibilità di servizi per la prima infanzia ha un effetto positivo sulla partecipazione al mercato del lavoro delle donne con bambini di età inferiore ai tre anni.
Nel marzo del 2002, il Consiglio Europeo di Barcellona aveva individuato la necessità di rafforzare la strategia per l’occupazione delineata nel 2000 dal Consiglio Europeo di Lisbona e, in tale ambito aveva invitato gli Stati membri a rimuovere i disincentivi alla partecipazione femminile alla forza lavoro. Tra le misure richieste rientrava la creazione entro il 2010 di un numero di posti nei servizi di assistenza all’infanzia pari ad almeno il 33 per cento dei bambini di età inferiore ai tre anni.
In Italia tale obiettivo non è stato raggiunto e l’impulso prodotto dalla politica nazionale ha dato esiti diversi a livello locale realizzando nel Nord del Paese risultati migliori rispetto al Mezzogiorno.
In questo paragrafo si descrivono l’evoluzione in Italia dei servizi educativi alla prima infanzia e le misure adottate per il loro sviluppo con un focus sul Piano straordinario triennale del 2007 e sui risultati ottenuti.
65 2. Evoluzione dei servizi di assistenza all’infanzia in Italia
2.1 Da servizio sociale a servizio educativo
Le donne, che agli inizi del XX secolo erano prevalentemente occupate in agricoltura, hanno progressivamente abbandonato il mercato del lavoro quando, con l’industrializzazione, la popolazione si è spostata nelle città ed era difficile per loro trovare impieghi remunerativi nell’industria e non potevano più contare sulla famiglia patriarcale per la cura dei figli. Fino agli anni 50, i servizi all’infanzia, sia che fossero forniti da congregazioni o enti religiosi, sia che fossero a carico di enti parastatali, quali l’Opera nazionale per la maternità e l’infanzia9, avevano finalità esclusivamente assistenziali. L’utenza di riferimento era rappresentata dagli strati più bassi della popolazione.
Nei primi anni ’70, con lo sviluppo del settore dei servizi, è tornato a crescere il numero delle occupate. L’aumento dell’offerta di lavoro femminile si è tradotto in aumento della domanda di servizi di cura per la prima infanzia. L’utenza di riferimento si è trasformata e ha iniziato a manifestare esigenze più elevate anche sul piano della qualità.
Il Parlamento, nell’interpretare il cambiamento in atto nella società, ha rafforzato la tutela delle lavoratrici madri10 e, con la legge 6 dicembre 1971, n. 1044, ha varato un piano quinquennale per la creazione di 3.800 asili nido comunali con il concorso dello Stato. Il progetto era certamente ambizioso e solo a fine 2009, dopo quasi quarant’anni, il numero dei nidi comunali in Italia (3.745) si era avvicinato all’obiettivo11. La norma ha, tuttavia, posto le basi per una diversa concezione del servizio sociale all’infanzia al quale oltre alla consueta finalità assistenziale viene ora attribuito lo scopo di favorire l’accesso delle donne al mercato del lavoro. Nello stesso periodo, con l’approvazione degli statuti regionali, si dava attuazione all’art. 117 della Costituzione e la legge 1044/1971, fissando alcuni principi di carattere generale12, demandava alle Regioni la fissazione dei criteri per la costruzione, la gestione e il controllo degli asili nido. Sono state le Regioni, nell’intervenire a disciplinare la materia, che, nel tempo, hanno attributo agli asili anche funzioni educative, procedendo alla definizione di livelli di qualificazione degli educatori via via sempre più elevati13.
Gli asili nido, in quanto servizio educativo, ricadono nella potestà legislativa concorrente dello Stato (art.117 cost.) che è abilitato alla determinazione dei relativi principi fondamentali e alla definizione dei livelli essenziali di servizio.
2.2 Un servizio locale su impulso nazionale
La domanda di servizi educativi per l’infanzia è fortemente diversificata sul territorio, anche all’interno della stessa regione. Ad esempio, è maggiore nei centri urbani e nelle aree di recente sviluppo, dove i nuclei famigliari immigrati da aree più arretrate del Paese o della regione stessa non sempre possono contare sul sostegno dei nonni per la cura dei figli. Proprio per questo la legge 1044/1971 stabiliva che le Regioni avrebbero dovuto fare in modo che la localizzazione e il funzionamento degli asili dovesse rispondere alle esigenze delle famiglie del territorio e nel 197514 il Parlamento prendeva atto della necessità di eliminare le residue strutture centralistiche e completare il
9 Istituito con la legge 10 dicembre 1925, n. 2277.
10 La legge 30 dicembre 1971, n. 1204, ha portato il congedo per maternità da 14 settimane a 5 mesi e ha introdotto il congedo parentale.
11 Fonte: Ministero dell’Interno.
12 La localizzazione sul territorio deve rispondere alle esigenze delle famiglie che, al pari delle organizzazioni sociali devono essere coinvolte nella gestione. Il personale e i requisiti tecnici devono essere tali da garantire al bambino uno sviluppo armonico e un’adeguata assistenza sanitaria e psico-pedagogica. Non viene fissato un orario minimo per il servizio.
13 Cfr. le motivazioni alla sentenza della Corte Costituzionale n. 423/2004.
14 Cfr legge 23 dicembre 1975, n. 698.
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decentramento del servizio. Veniva sciolta l’Opera Nazionale per la Maternità e l’Infanzia e tutte le sue funzioni amministrative nonché le funzioni di vigilanza e controllo su tutte le istituzioni pubbliche e private per l’assistenza e protezione della maternità e dell’infanzia erano trasferite alle Regioni. Le funzioni amministrative relative agli asili nido, prima svolte dall’ONMI, venivano attribuite ai comuni15.
Nel 1977, nonostante i fondi stanziati nel 1971, gli asili erano ancora solo 1.105 un numero superiore del 37 per cento a quello rilevato nel 1973, ma ancora lontano dai 3.800 previsti per il 1976 16. Con il progressivo aumento della domanda di servizi all’infanzia, il Parlamento interveniva17 rifinanziando la legge 1044/71 e istituendo a favore delle Regioni il Fondo integrativo per gli asili nido le cui risorse sarebbero poi state da queste ridistribuite ai Comuni in base alla ricettività degli asili e alle condizioni socio-economiche locali. Negli anni successivi il numero degli asili continua, seppure lentamente ad aumentare, ma nel 1992 sono ancora soltanto 2.180, insufficienti a soddisfare la domanda crescente. L’offerta di lavoro femminile aumentava progressivamente, ma non trovava collocazione sul mercato. Il tasso di attività femminile era passato dal 27 per cento circa dei primi anni
’70 al 36 per cento circa dei primi anni ’90; il tasso di disoccupazione femminile dall’11 al 17 per cento.
Nel 199718 veniva istituito il Fondo nazionale per l’infanzia e l’adolescenza con lo scopo di finanziarie progetti di innovazione dei servizi socio-educativi per la prima infanzia e ricreativi per il tempo libero ad integrazione e non in sostituzione dei nidi d’infanzia di cui alla L. 1044/71. Il Fondo è confluito poi nel Fondo Nazionale per i Servizi Sociali19 e, con la riforma del titolo V della Costituzione, veniva meno il vincolo di destinazione. Da allora, le iniziative statali volte a creare fondi per la costruzione di asili nido sono state tutte dichiarate incostituzionali perché prevedevano uno specifico utilizzo dei fondi e perché avevano carattere permanente e non una tantum.20
L’Italia si trovava tuttavia nella necessità di colmare il divario con l’Europa e accelerare la diffusione del servizio anche per non mancare gli obiettivi per il 2010 che, nel frattempo erano stati fissati dal Consiglio europeo di Barcellona.
Nel 2005 veniva introdotto il credito di imposta del 19 per cento per gli utenti degli asili nido. La misura, tuttora in vigore, consentiva al contribuente il recupero massimo di 120 euro l’anno quando la compartecipazione media delle famiglie era di 1.375 euro21 per utente. Gli effetti erano comunque dal lato della domanda e non incidevano sulle dimensioni dell’offerta che continuava ad essere insufficiente. Con la finanziaria 2006, recependo le indicazioni della Corte Costituzionale, il Parlamento varava un Piano straordinario triennale per l’ampliamento degli asili nido la cui esecuzione veniva affidata alle Regioni i cui esiti sono descritti nei paragrafi seguenti.
15 Più in generale, in seguito, il DPR n. 616 del 24 luglio 1977 ha trasferito ai comuni le competenze amministrative dello Stato in materia di beneficenza e assistenza sociale.
16 Fonte: annuari ISTAT. La rilevazione dei dati relativi al numero di asili nido comincia con riferimento all’anno 1973 ed è cessata con riferimento all’anno 1992. Con riferimento all’anno 2004 l’Istat ha ricominciato a pubblicare statistiche sul numero di utenti e sul numero di comuni in cui il servizio era presente. .
17 Cfr legge 29 novembre 1977, n. 891.
18 Cfr legge 28 agosto 1997, n. 285.
19 Cfr legge 8 novembre 2000, n. 328.
20 Cfr legge 28 dicembre 2002, n. 448, istituisce un Fondo Speciale Asili Nido con una dotazione di 300 milioni di euro per il triennio 2002-2004 dichiarato incostituzionale con sentenza della Corte Costituzionale n. 370/2003. La legge finanziaria del 2003 (L. 27 dicembre 2002, n. 289) aveva istituito un fondo destinato ai datori di lavoro per la costruzione di nidi aziendali e micro nidi. La legge finanziaria per il 2004 (L. 24 dicembre 2005, n. 350) aveva destinato una quota del Fondo Nazionale per le Politiche Sociali alla costruzione di servizi per la prima infanzia. Entrambe le manovre sono state dichiarate incostituzionali con sentenza n. 423/2004.
21 Fonte: Istat.
67 3. Il Piano straordinario triennale
Le caratteristiche operative del Piano straordinario di intervento per lo sviluppo del sistema integrato dei servizi socio-educativi alla prima infanzia sono state definite dalla Conferenza unificata nella seduta del 26 settembre 2007.
Agli enti locali veniva demandato il compito di gestire e ampliare i servizi educativi per i bambini da tre a 36 mesi a gestione sia pubblica sia privata. Lo Stato metteva a disposizione per il triennio 250 milioni di euro da ripartire tra le Regioni in base a parametri che approssimavano la domanda (la quota di popolazione inferiore ai 3 anni, tassi di occupazione e disoccupazione femminile da 15 a 49 anni);
altri 90 milioni di euro venivano distribuiti a scopo perequativo in base alla distanza tra l’indicatore di offerta regionale e quello medio nazionale. Infatti, tutte le regioni del Mezzogiorno, il Lazio, il Veneto e il Friuli Venezia Giulia si trovavano al di sotto della media nazionale.
Le Regioni sono state chiamate a partecipare, cofinanziando il piano con una quota pari al 30 per cento di quanto ricevuto dallo Stato. Quelle del Mezzogiorno hanno contribuito con una quota maggiore individuata in funzione degli obiettivi fissati dal Quadro strategico nazionale per la politica regionale di sviluppo 2007-2013 in cui il Piano Straordinario era andato ad inserirsi mutuandone gli obiettivi.
L’erogazione di quanto spettava per il primo anno era subordinata all’adozione, da parte delle Regioni, di un piano per l’impiego delle risorse. Le erogazioni successive erano subordinate allo stato di avanzamento di tale piano.
L’Intesa fissava un obiettivo che approssimava il livello di copertura della domanda, rappresentato dal rapporto tra bambini utenti sul totale della popolazione con meno di tre anni. Alla fine del triennio l’indicatore sarebbe dovuto essere pari al 13 cento come media nazionale e per nessuna regione sarebbe dovuto essere del inferiore al 6 per cento. Si tratta dell’unico livello essenziale delle prestazioni stabilito per i servizi socio-educativi della prima infanzia22 (CNEL, 2010).
Per valutare lo stato di attuazione del Piano veniva prevista la collaborazione dell’Istat e del Centro nazionale di documentazione e analisi per l’infanzia e adolescenza. A tal fine, le Regioni sono state chiamate a garantire un adeguato flusso informativo.
Il 14 febbraio 2008, la Conferenza unificata Stato Regioni rifinanziava il Piano, portando le risorse statali a 446 milioni di euro e quelle regionali a 281 milioni di euro per un totale di 728 milioni di euro (tav. 1). A fine 2009, alle regioni meridionali sono state attribuite risorse premiali per oltre 109 milioni, calcolate in sede di verifica intermedia sul raggiungimento degli obiettivi di servizio stabiliti con il Quadro Strategico Nazionale. L’Intesa del 7 ottobre 2010 ha distribuito ulteriori 100 milioni alle Regioni (tav. 2). E’ ancora prematuro valutare gli effetti degli ultimi due provvedimenti mentre è possibile cercare di misurare i risultati ottenuti con il primo importante stanziamento del 2007 e con la successiva integrazione del 2008. Per fare questo è necessario in via preliminare individuare degli indicatori disponibili in modo omogeneo sul territorio nazionale e che permettano anche un eventuale confronto con le altre nazioni europee.
22 Per le regioni del Mezzogiorno, il Quadro strategico nazionale ha fissato anche un obiettivo di copertura territoriale in termini di numero di comuni che hanno attivato il servizio sul totale dei comuni della Regione.
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4. La misura: un confronto difficile 4.1 Con l’Europa
Il Consiglio Europeo di Barcellona, nell’indicare agli Stati membri gli obiettivi da raggiungere entro il 2010, aveva utilizzato il rapporto tra i posti disponibili e i bambini nella fascia di età 0-3 anni.
Tale indicatore potrebbe essere considerato un’approssimazione dell’offerta. Ma l’offerta è adeguata se incontra la domanda e cioè se è: disponibile sul territorio, compatibile con il contesto culturale e sostenibile economicamente dalle famiglie. A livello europeo, l’indicatore utilizzato per il monitoraggio è quindi una sintesi dell’incontro tra domanda e offerta: il numero di bambini utenti di servizi per l’infanzia sul totale della popolazione con meno di tre anni. L’informazione è raccolta nell’ambito dell’indagine campionaria EU-SILC sui redditi e sulle condizioni di vita delle famiglie condotta in Italia dall’Istat.
Nella tav. 3, per omogeneità con i dati Istat che verranno commentati in seguito, sono riportate le percentuali sulla popolazione degli utenti di asili nido con durata del servizio superiore alle trenta ore settimanali. Il confronto tra i vari paesi è difficoltoso sia perché le segnalazioni non sono sempre attendibili sia per l’eterogeneità di alcune determinanti della domanda effettiva del servizio quali la lunghezza dei congedi parentali o la diffusione del part-time. Ad esempio, la Germania e il Regno Unito presentano percentuali relativamente basse (rispettivamente 12 e 4 per cento), ma ciò potrebbe essere legato a fattori di domanda dato che in tali paesi un terzo dell’occupazione femminile è impiegato part-time anche grazie ad una legislazione più favorevole a tale strumento rispetto a quella italiana23. L’indicatore della Svezia (37 per cento) è relativamente alto e lo sarebbe ancora di più se venisse calcolato per la fascia di età 1-3 anni dato che difficilmente le famiglie svedesi affidano agli asili nido bambini di età inferiore all’anno perché possono contare su un congedo per maternità di 12 mesi dalla nascita del bambino e ulteriormente prorogabile (EGGE 2009). Se si sommano le due fasce orarie di utenza (da 1 a 29 ore e oltre le 30 ore), la percentuale di bambini utenti sale per l’Italia al 25 per cento, contro il 33 per cento dell’Europa a 15 paesi, quest’ultimo valore è in linea con l’obiettivo di Barcellona che non poneva limiti sull’orario di frequenza.
4.2 Tra le Regioni italiane
Ai divari tra nazioni dell’Unione, si aggiungono quelli all’interno degli stati ed è la stessa Commissione europea a rimarcare il divario interregionale dell’Italia24.
Una prima fonte statistica, utilizzabile per valutare l’entità di tale divario, è rappresentata dalle informazioni rese disponibili dal Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali25, nell’ambito del monitoraggio sull’attuazione del Piano straordinario per lo sviluppo del sistema integrato dei servizi per l’infanzia (d’ora in avanti, Monitoraggio) che raccoglie i flussi informativi, spesso eterogenei, provenienti da Regioni e Province autonome. Una seconda fonte statistica è rappresentata dalla rilevazione di tipo censuario effettuata dall’Istat nell’ambito dell’apposita indagine condotta presso i comuni. Tali fonti possono essere integrate con le informazioni sugli asili nido rese dai comuni al Ministero dell’Interno con la redazione dei certificati consuntivi.
4.2.1 Il monitoraggio del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali
L’attività del Monitoraggio sconta la non perfetta comparabilità dei piani adottati dalle Regioni in attuazione dell’Intesa del 2007 e della conseguente disomogeneità nei contenuti dei flussi informativi
23 In Germania, ad esempio, il part-time è un diritto dei lavoratori con almeno 6 mesi di anzianità impiegati in aziende con più di 15 dipendenti.
24 Cfr. EGGE (2009)
25 Raccolte dal Centro Nazionale di documentazione e Analisi per l’Infanzia e l’adolescenza e dall’Istituto degli innocenti.
69 forniti per il controllo. Sette Regioni si sono poste degli obiettivi in termini di posti disponibili e non di bambini utenti, alcune Regioni si sono poste degli obiettivi esclusivamente in termini di nidi di infanzia, altre hanno incluso i servizi integrativi, alcune Regioni hanno fornito solo i dati relativi alle strutture pubbliche, altre non hanno prodotto le informazioni in tempo utile.
Per rendere confrontabili i flussi informativi, è stato necessario definire una terminologia comune.
Nel 2009 il Centro interregionale per i sistemi informatici, geografici e statistici (CISIS) elaborava il Nomenclatore interregionale dei servizi sociali in base al quale il sistema integrato dei servizi educativi per l’infanzia risulta composto da:
- Nidi d’infanzia: servizio educativo di interesse generale, rivolto a tutti i bambini e le bambine di età compresa tra i tre mesi e i tre anni; aperto in orario diurno almeno cinque giorni alla settimana, dal lunedì al venerdì, per almeno sei ore al giorno, per un apertura annuale di almeno dieci mesi e che eroga il servizio di mensa e prevede il momento del riposo se funzionante anche il pomeriggio. In tale categoria rientrano anche i micro nidi e le sezioni primavera 24-36 mesi;
- Servizi integrativi:
- Spazi gioco per bambini (in età massima da 18 a 36 mesi), dove i bambini sono accolti per un tempo massimo di cinque ore. Non viene erogata la mensa e non vi è possibilità di riposo pomeridiano;
- Centri per bambini e famiglie: i bambini da zero a tre anni sono accolti con i genitori o altri adulti accompagnatori;
- Servizi e interventi educativi in contesto domiciliare: servizi educativi per piccoli gruppi di bambini di età inferiore ai tre anni realizzato con personale qualificato presso una civile abitazione.
I servizi integrativi non possono essere considerati alternativi ai nidi di infanzia che sono tenuti a fornire un servizio la cui durata giornaliera e annuale è tale da consentire alle madri di rientrare al
I servizi integrativi non possono essere considerati alternativi ai nidi di infanzia che sono tenuti a fornire un servizio la cui durata giornaliera e annuale è tale da consentire alle madri di rientrare al