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Assemblare il “presente passato”: il rapporto dialettico tra digitale e analogico

2 U n nuovo “grado zero”? Cinema e fotografia nelle pratiche artistiche tra anni Novanta e Duemila

2.3 Assemblare il “presente passato”: il rapporto dialettico tra digitale e analogico

Nei due paragrafi precedenti, l’analisi di lavori come Untitled: Philippe VACHER, I N I T I A L S e Torqued Chandelier Release ha introdotto l’esistenza di un’attitudine nell’arte contemporanea atta a riesaminare le tensioni tra cinema e fotografia in un momento storico in cui, in virtù dell’avvento del digitale, la loro obsolescenza appare ormai come incombente e “irrimediabile”. La scelta da parte di due artisti come James Coleman e Rodney Graham di indagare e riproporre nell’ambiente del museo gli «automatismi»313 alla base dell’immagine filmica e dell’immagine fotografica, si riconduce alla volontà di contrapporre all’egemonia unidirezionale e apparentemente totalizzante del “nuovo” la possibilità di ripensare e rifunzionalizzare criticamente i media del passato. Tuttavia, nello scenario delle sperimentazioni artistiche odierne, le indagini sulle relazioni tra il passato e il presente tecnologico non avvengono, necessariamente, attraverso l’impiego esclusivo di “vecchi” dispositivi ma, come suggeriscono Erkki Huhtamo314 o Jussi Parikka, tali investigazioni giungono a coinvolgere «a rich set of practices» tese a ricercare, mediante molteplici soluzioni sia analogiche sia digitali, «new ways to think through obsolescence, mhyts of progress, the technical specificity of “new” media and the wide range of alternative histories and potentials of the past that can be brought to life»315. All’interno di questo insieme di pratiche è possibile, dunque, individuare una serie di strategie artistiche capaci di

313

Si fa qui riferimento alla nozione di “automatismo” proposta da Stanley Cavell e ripresa, successivamente, da Rosalind Krauss. Si vedano: Stanley Cavell, The World Viewed: Reflections on the

Ontology of Film, Cambridge, London, Harvard University Press, 1979, pp. 101-108; Rosalind Krauss, L’arte nell’era postmediale. Marcel Broodthaers, ad esempio, cit., pp. 5-7.

314

«Sometimes the archaeological work does not evoke the form of Old Tech at all, but uses a contemporary technology as both the terrain and the tool for media archaeological excavation» (Erkki Huhtamo, “Resurrecting the Technological Past: An introduction to the Archaeology of Media Art”, cit.).

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riferirsi simultaneamente a dispositivi e ad esperienze mediali appartenenti a tradizioni e contesti tecnologici tra loro cronologicamente distanti. La riarticolazione dei confini usuali tra immagine in movimento e immagine statica può contribuire, in questa prospettiva, a delineare i tratti di un potenziale modello concettuale e operativo, teso a riarticolare anche i parametri temporali – talvolta troppo lineari e riduttivi – con i quali tendiamo a stabilire le distinzioni tra la “novità” del digitale e l’ “obsolescenza” dell’analogico; a tale proposito Karen Beckman e Jean Ma affermano:

In blurring the boundary between still and moving photographically-appearing images, [some] artists provoke us to articulate how media reflect or confound each other anew, and challenge us to revise our current thinking about the qualities that join or separate them, why we care about such boundaries in the first place, and the temporal frameworks within which we articulate such questions316.

In particolare, oltre alla compresenza del movimento e dell’immobilità nell’immagine, la coesistenza all’interno di un singolo lavoro artistico di elementi riconducibili sia all’analogico sia al digitale richiama l’opportunità di ripensare l’attuale condizione mediale tentando di resistere alle logiche meramente evoluzionistiche che distinguono categoricamente il passato dal presente. Come vedremo nei prossimi due sottoparagrafi attraverso le operazioni artistiche di David Crawford e Zoe Beloff, la duplice tensione che coinvolge il movimento e l’immobilità dell’immagine, così come il rapporto tra i media digitali e i media analogici, risulta sostanzialmente orientata a produrre «a non-linear way of understanding past-present»317. Scopo dei lavori prodotti da artisti come Crawford e Beloff è quindi, in special modo, la restituzione di un’idea di storia volta a mettere in discussione le concezioni teleologiche e unidirezionali che riconoscono nel “nuovo” digitale un punto di arrivo irreversibile – ma soprattutto totalizzante – del progresso tecnologico, opponendo a tali concezioni l’esistenza di storie differenti, alternative e potenziali. Il nesso dialettico tra l’analogico e il digitale in grado di emergere all’intersezione tra il movimento e l’immobilità dell’immagine rende dunque attuabile la possibilità di una prospettiva critica volta a creare un “attrito” generativo tra il passato e il presente; questo attrito rivela in maniera emblematica la

316

Karen Beckman, Jean Ma, “Introduction”, cit., pp. 7-8.

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condizione teorizzata da Thomas Elsaeseer secondo cui le tecnologie digitali possono fungere da «grado zero» o da «strumento euristico»318 per ripercorrere le storie dei “vecchi media” e per indagarne, simultaneamente, le opportunità di esistenza, migrazione e reinvenzione nel panorama mediale contemporaneo.

Il riconoscimento di una natura implicitamente “multitemporale” del digitale – ovvero di ciò che ad avviso di Huhtamo ha contribuito profondamente a stimolare, a partire dagli anni Novanta, lo sviluppo di «[an] archaeological approach in media art»319 – può operare, quindi, un “rovesciamento” delle nostre concezioni storico-culturali abituali, giungendo a contraddire, ad esempio, la presunta inevitabile “perdita di materialità” connessa alla progressiva egemonia delle nuove tecnologie; se da un lato, infatti, la diffusione dei media digitali ha avuto come controparte “paradossale” l’incremento di una tendenza artistica orientata al recupero e alla rifunzionalizzazione dei dispositivi analogici, dall’altro, come nota John Plunkett, «rather than any loss of materiality, contemporary technology can provide new insights into the (dis)embodied mode of viewing of nineteenth-century optical recreations»320; e dichiara ancora:

In using digital technology to recreate the sensory experience of the hand-held panorama or the zoetrope, the animated and/or interactive result plays upon our own fascination with new media. It is thus able to recuperate something of the curiosity and wonder that previous moving image technologies initially aroused. The use of contemporary technology also opens up a reflexive, yet critical perspective on the historical continuities between early screen practice and our own. The ease with which nineteenth-century optical recreations can be transferred to digital format is not random. Rather, it highlights the way that the aesthetic of contemporary new media are part of the long history of screen and audio technologies321.

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Segnatamente, Thomas Elsaesser, facendo riferimento alla storia del cinema, afferma: «Digitization, at this early point in time, may for historians of the cinema be no more than the name of this impossible place, serving as heuristic device, which helps them displace themselves in relation to a number of habitual ways of thinking. They need not decide whether digitization is, technically speaking, a moment of progress, but aesthetically speaking a step backward» (Thomas Elsaesser, “Early Film History and Multi-Media. An Archaeology of Possible Futures?”, cit., p. 17).

319

Erkki Huhtamo, “Time Traveling in the Gallery: An Archeological Approach in Media Art”, cit., p. 234.

320

John Plunkett, “From Optical to Digital (and back again)”, 19: Interdisciplinary Studies in the Long

Nineteenth-Century, vol. 1.6, Forum on Digitisation and Materiality, 2008, p. 2.

321

101

Lungi dal rischio individuato da Huhtamo e Parikka di porsi come un territorio «onnicomprensivo e “senza tempo”»322

, il digitale dimostra, da questo punto di vista, di possedere invece una dimensione storica molteplice. Di notevole interesse, sotto tale aspetto, risulta la propensione manifestata da numerosi media artists323 a riflettere, a partire esattamente dall’impiego delle tecnologie contemporanee, sulle logiche di presentazione dell’immagine in movimento situate alle origini del cinema e, in generale, sulle pratiche e sui dispositivi visuali diffusi nel diciannovesimo secolo. L’odierno digital turn si configura così non come un processo di trasformazione tecnologica orientato a guardare unidirezionalmente in avanti, ma piuttosto come un’occasione per ripercorrere e rivalutare «a diverse set of inquiries and practices, with cinema being just one of the many possible stories, then the bystanders the stars in the new, previously unrecognised stories»324. Nelle pagine successive approfondiremo le modalità attraverso cui due operazioni come Stop Motion Studies di David Crawford e Beyond di Zoe Beloff – entrambi, almeno parzialmente, fruibili online325 – oltre a confondere i limiti tra cinema e fotografia in termini intermediali e sperimentali, giungano a rivivificare la memoria di linguaggi visuali e tecnologici “estinti”, in grado oggi di reinventarsi in nuove pratiche mediali attraverso l’impiego del digitale: la tensione tra il movimento e l’immobilità presente in Stop Motion Studies e in Beyond si riferisce, in tal senso, rispettivamente alla cronofotografia e al dispositivo del panorama.

2.3.1 «Exploring Digital Chronophotography and the Subway»: Stop

Motion Studies di David Crawford

Realizzata da David Crawford tra il 2002 e il 2004, l’operazione Stop Motion Studies si pone come un’analisi fotografica sperimentale, costituita complessivamente

322

Erkki Huhtamo, Jussi Parikka, “An Archaeology of Media Archaeology”, in Id. (a cura di), Media

Archaeology: Approaches, Applications, and Implications, Berkeley, Los Angeles, London, University of

California Press, 2011; la traduzione è mia.

323

Per un approfondimento sugli artisti che operano un impiego di tipo “archeologico” delle nuove tecnologie si veda, ad esempio: Oliver Grau, MediaArtHistories, Cambridge, MA, The MIT Press, 2007.

324

Paul St George, Sequences: Contemporary Chronophotography and Experimental Digital Art, cit., p. 4.

325

Si rimanda, rispettivamente, alle pagine http://www.stopmotionstudies.net/ [consultato il 21/02/2015] e http://www.zoebeloff.com/beyond/ [consultato il 21/05/2015].

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da tredici serie di immagini, finalizzata a documentare i movimenti umani che caratterizzano i comportamenti dei passeggeri nelle metropolitane di varie città del mondo326. La descrizione del lavoro fornita dallo stesso Crawford offre emblematicamente le informazioni necessarie a comprendere le tensioni che animano questo studio fotografico:

Presented in a series of thirteen installments, these Web-based documentaries […] explore areas including the ontology of the networked digital image, the nature of media and memory, the language of cinematic montage and its relationship to spectacle, the practice of documentary and conceptual photography, and perhaps most importantly, the

ways in which art and technology can intersect in service of mining the space still to be

explored between the still and the moving image327.

Nel riconoscere l’aspetto più importante di questo lavoro nelle modalità attraverso cui l’interazione tra arte e tecnologia sia in grado di generare la possibilità di esplorare lo spazio in between tra l’immagine fissa e l’immagine in movimento, Crawford produce, di fatto, una versione digitale e aggiornata degli esperimenti cronofotografici realizzati nel diciannovesimo secolo da figure come Étienne-Jules Marey e Eadweard Muybridge. Oltre a dissezionare il movimento nelle sue componenti essenziali, l’artista indaga la condizione implicitamente interstiziale di un’immagine collocata al crocevia tra la fotografia e il cinema, giungendo nuovamente a operare un’investigazione dell’ “inconscio ottico” inteso come dispiegamento di «almost contradictory energies, sezing and parsing out motion into still images»328.

All’interno di Stop Motion Studies, la rifunzionalizzazione della tecnica cronofotografica consente di prendere in considerazione una serie di opposizioni dialettiche che riguardano, in primis, il rapporto tra “vecchi” e “nuovi” media, ma che si riferiscono, simultaneamente, alla complessa relazione tra immaterialità e materialità evocata dall’opera. Come fa notare infatti Curt Cloninger, l’incontro tra le tecnologie digitali e la cronofotografia che contraddistingue un lavoro come Stop Motion Studies ci

326

Le città nelle quali sono stati realizzati i vari “episodi” della serie Stop Motion Studies sono Göteborg (Svezia), Londra (Regno Unito), Parigi (Francia), Boston (USA), New York (USA) e Tokyo (Giappone).

327

David Crawford, Algorithmic Montage: A Frame by Frame Approach to Experimental Documentary, Master’s thesis in Art & Technology, Univeristy of Gothenburg, Gothenburg University and Chalmers University of Technology, Göteborg, Sweden 2004, p. 7; il corsivo è mio.

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conduce necessariamente a riflettere sul concetto di “nuovo” tipico dell’odierna cultura mediale:

“New Media” – scrive Cloninger – is woefully malleable term that generally means “newer than film”. Computers are usually involved. But of course “new” is a vague and relative adjective not inherently involved related to film or computers. New media in its truest sense is simply media that communicates in a new way, a way that previous could not. By this definition, Étienne-Jules Marey’s chronophotography was new media, as was film which followed it. By the same measure, David Crawford’s Stop Motion

Studies series is new media in the truest sense, because like Marey, Crawford is

exploring the luminal timescape between still photography and film. What makes Stop

Motion Studies especially “new” is its peculiar addition of randomizing software329.

L’applicazione da parte di Crawford, attraverso l’impiego del software Flash, di ciò che lui stesso ha definito «algorithmic montage»330 permette all’artista di attuare sull’immagine fotografica una forma peculiare di animazione: in questa prospettiva, le serie di immagini che registrano i comportamenti e i movimenti dei viaggiatori nelle metropolitane di varie città del mondo, pur fornendo probabilmente l’impressione iniziale di consistere in brevissimi film montati a loop, rivelano bensì che l’operazione non si avvale di alcun procedimento di ripetizione circolare ma che, invece, si serve di un sistema di ripetizione delle immagini a random331. La riproduzione degli stills avviene dunque attraverso il criterio della casualità giungendo, di fatto, a produrre una sperimentazione cronofotografica tesa non solo a dissezionare il movimento nelle sue micro-fasi, ma a esibire ogni singolo scatto scomponendone l’ordine sequenziale. A differenza, quindi, delle operazioni cronofotografiche di Marey o di Muybridge – con i

329

Curt Cloninger, “Stop Motion Studies (Serie 3) by David Crawford”, in Paul St George (a cura di),

Sequences: Contemporary Chronophotography and Experimental Digital Art, cit., p. 114.

330

Per un approfondimento dei procedimenti alla base del concetto di «algorithmic montage» si veda David Crawford, Algorithmic Montage: A Frame by Frame Approach to Experimental Documentary, cit., pp. 47-58.

331

Come spiega ancora Cloninger: «Imagine a slide projector tray filled with anywhere between three to eight slides. The projectors displays these same slides infinitely, but always in random order. The projector also randomizes the duration each slide is displayed, anywhere from .03 seconds to .3 seconds (give or take a bit). Finally, all the slides in the tray are of the same subject, all photographed within a limited time frame (less than two minutes). This roughly approximates the mechanics of what Crwaford has termed “algorithmic montage”. The result is a kind of stochastic motion study more akin to chronophotography than film; but with a distinct, non-linear twist» (Curt Cloninger, “Stop Motion Studies [Serie 3] by David Crawford”, cit., p. 114).

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quali Crawford condivide del primo la ricerca della durata nel singolo istante, del secondo l’interesse a “catalogare” le dinamiche motorie e gestuali del corpo umano – le tredici serie che costituiscono Stop Motion Studies non risultano tanto finalizzate a un’investigazione rigorosamente analitica e “scientifica” delle “tappe” di un movimento, quanto, piuttosto, a una diretta demistificazione dell’illusione della sua continuità, per mezzo della quale evidenziare la temporalità interstiziale capace di permeare la staticità di un istante.

La volontà di decostruzione di una presunta idea di movimento fondata sulla linearità contrappone, dunque, il concetto di cronofotografia alla base di Stop Motion Studies alla nozione di movimento continuo che caratterizza la forma più propria del cinema istituzionale narrativo. Se, come afferma ancora Cloninger riferendosi all’affermazione del cinema agli inizi del Novecento, «film increased; chronophotography decreased»332, il lavoro di Crawford riflette significativamente sull’opportunità di impiegare i “nuovi” media senza per questo condurre le tecnologie precedenti a una condizione “inevitabile” di obsolescenza e inefficienza333. Sotto tale aspetto, nel confermare un’attitudine “archeologica” tesa a concepire il digitale come un dispositivo euristico capace di mobilitare nuove direzioni e percorsi cronologici discontinui, Stop Motion Studies torna a sperimentare sulla cronofotografia ravvisando nella coesistenza di immobilità e movimento da cui essa è contraddistinta un possibile modello concettuale volto a riflettere sulle molteplici temporalità potenzialmente veicolate da ciascun medium.

La connessione operata da Crawford tra l’impiego delle tecnologie digitali e l’approccio storico-archeologico ai media si riconduce, in Stop Motion Studies, a una necessaria e molteplice considerazione del rapporto tra immaterialità e materialità presente all’interno dell’operazione. L’artista stesso, infatti, afferma:

332

Ibidem.

333

Ad avviso di Cloninger, all’interno di un simile processo assumono un ruolo importante le stesse “limitazioni” linguistiche e materiali della nuova tecnologia digitale: «Such is the now familiar tale of advances in technology rendering previous technological experiment irrelevant. But experiments have a way of resurfacing in technological cycles, because each new medium comes with its own set of aesthetic limitations. In Crawford’s case, he was forced by the limitations (bandwidth) of his new technology (the internet)to minimalistically re-examine the original themes of chronophotography from a post-film perspective» (Ivi, p. 115).

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While the SMS [Stop Motion Studies] project tends to be described in terms of its immateriality, this was never an entirely satisfying paradigm. To call it “net art” is to suggest that there is such a thing as “non-networked art”, despite the ubiquity of the net as the underlying architecture of our culture. Instead, I have preferred to interpret the project from either a cinematographic standpoint – that is, in terms of relation these algorithmically generated animations have to the history of the moving image; […] Looked at from a cinematographic point of view, some relevant questions become: What happens phenomenologically in the time between two images in a sequence? How can algorithmic montage enable us to see in new ways?334.

Similmente a quanto ha dichiarato Tom Gunning riferendosi alle immagini cronofotografiche prodotte nel diciannovesimo secolo da Eadweard Muybridge, anche nel lavoro di Crawford la tensione in between tra il movimento e l’immobilità riflette un’idea di interstizialità più ampia e complessa, collocabile nuovamente in ciò che lo storico del cinema americano individua «in the ambiguous interval that separates (or possibily joins) different discourses»335; Stop Motion Studies, così come Animal Locomotion, risulta in grado, in tal senso, di fornire un’investigazione della condizione socio-culturale del soggetto e della sua collocazione fisica nello spazio contemporaneo336, soffermandosi, inoltre, attraverso l’aggiornamento di una tecnica costitutivamente “dialettica” come la cronofotografia, su ulteriori problematiche relative all’odierno mediascape, le quali possono essere ricondotte, ad esempio, al rapporto tra le nuove tecnologie e le forme della sensorialità, ai nessi tra la virtualità e lo spazio fisico, alla relazione tra i processi di digitalizzazione e il concetto di storicità. Nel contrapporsi alla “logica dell’immediatezza”337 e dell’immaterialità intesa usualmente come obiettivo definitivo e onnicomprensivo dell’innovazione tecnologica, l’uso dei

334

David Crawford, “Stop Motion Studies”, in Anthony Burke, Therese Tierney (a cura di), Network

Practices: New Strategies in Architecture and Design, New York, Princeton Architectural Press, 2007, p.

118.

335

Tom Gunning, “Never Seen These Pictures Before: Muybridge in Multiplicity”, cit., p. 226.

336

«Placing an emphasis – scrive ancora Crawford – upon the SMS project’s pre- and post-cinematic ambitions suggests that while its language is network specific, it remains a form of network practice that takes the net for granted. Regardless, perhaps it is time to push the net-specific and cinematographic frameworks into the background and instead foreground the way the project provides a window into the vitality of the subway. This, in the face of an unrelenting stream of images that present public transport as a place where bodies are eviscerated and lives cut short» (David Crawford, “Stop Motion Studies”, cit., p. 118). Si rimanda, inoltre, al paragrafo 1.2 del presente lavoro.

337

Cfr. Jay David Bolter, Richard Grusin, Remediation. Competizione e integrazione tra media vecchi e

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media digitali da parte di Crawford tende a opporre all’illusione di “trasparenza” sovente perseguita dall’estetica contemporanea, la “presenza opaca” della tecnologia all’interno dell’opera stessa, la quale viene resa percepibile per mezzo delle intermittenze e delle discontinuità che attraversano le immagini riprodotte in serie. Se, come ipotizza John Plunkett, «it is chronophotography that signifies a return to materiality from the mass hallucination of the virtual»338, la dimensione storica messa in atto da un’operazione come Stop Motion Studies riconferma, ancora una volta, il potenziale insito in un’immagine implicitamente scissa tra il movimento e l’immobilità, riferendolo sia alla sua capacità di decostruire le determinazioni ideologiche connesse all’illusione di trasparenza339

, sia alla sua attitudine a dissolvere i confini tra le molteplici «storie parziali»340 che costituiscono la cultura visuale.

2.3.2 «An Amnesiac Cinema That Must Constantly Reinvent Itself»:

Beyond di Zoe Beloff

Riconosciuta in un’operazione come Stop Motion Studies mediante