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La “particolare” attenzione tributata dai militari al mondo del lavoro e in generale a tutte le organizzazioni politico-sociali e corporative della società argentina si espresse attraverso l’intervención. Essa fu una prassi amministrativa e costituzionale utilizzata dai militari per prendere possesso delle amministrazioni di diversi enti. A differenza delle pratiche repressive precedenti, riguardò la grande maggioranza degli argentini.54

Se la desapareción, la tortura, l’utilizzo di metodi clandestini furono oltremodo diffusi, essi pur sempre colpirono una minoranza della popolazione, l’intervención pervase invece ogni ambiente e ogni istituzione e fu in buona misura il segno tangibile dell’ingerenza militare nella società. Un nuovo modo di agire che può essere riassunto nell’occupazione fisica e amministrativa dei principali luoghi di lavoro e delle istituzioni nevralgiche della società. Attraverso il commissariamento di un ente pubblico o privato se ne rimuovevano i vertici con l’obiettivo di orientare la gestione dell’ente stesso in funzione filogovernativa. È il concretizzarsi dell’azione controrivoluzionaria e corporativa autonomamente gestita dall’esercito.55 Un’azione volta a stabilire un nuovo ordine, fondato e

amministrato secondo principi strettamente «tecno-autoritari».56

!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 50 Ibid.

54 Il riferimento all’atomizzazione del mondo del lavoro e della società è contenuto in Anna Arendt, L’origine del totalitarismo, 1967 (1948), Edizioni di Comunità, Milano.

55 Eric A. Nordlinger, I nuovi pretoriani: l’intervento dei militari in politica, Etas, Milano, 1978, pp. 12-16.

56 Si rimanda al lavoro di Carlos Fayt, El político armado, dinámicas del proceso político argentino, 1960-71, Eudeba, Buenos

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L’intervención, o commissariamento, apparteneva ad una consolidata prassi amministrativa prevista dalla costituzione argentina. Erano stati sperimentati diversi tipi di sospensione dell’attività amministrativa-burocratica di enti ritenuti particolarmente a rischio, come per esempio i sindacati, all’interno dei quali la conflittualità si sviluppava “incontrollata”. Dal 24 marzo ’76 in avanti si realizzò un massiccio e capillare utilizzo di questo strumento amministrativo.

La procedura del commissariamento si basava su una procedura burocratica che lasciava ampi spazi di manovra all’’interventor, il commissario, che assumeva questa qualifica. La Giunta militare predispose dal primo giorno del golpe un progetto preciso, per un verso l’inizio della fase più cruenta del terrorismo di Stato, per un altro il commissariamento dei principali enti e associazioni del paese. In questo modo in pochi giorni furono commissariati: i giornali, le fabbriche di stato e le imprese private di una certa entità, la Confederazione sindacale, tutti i sindacati e i patronati, i partiti politici, le università, le municipalità, le province, etc. In poco tempo non solamente attraverso l’occupazione fisica, ma anche attraverso quella burocratica i militari, coadiuvati dai quadri medi dell’amministrazione pubblica, si ritrovarono al vertice di tutte le strutture nevralgiche dello Stato. Le funzioni e i limiti entro cui si svilupparono le attività dell’interventor non furono mai definite in modo organico, lasciando così ampi spazi di autonomia ai commissari, in parte militari, in parte civili. In pratica, l’interventor si trovò a riunire il potere amministrativo offertogli dal suo ruolo e quello operativo connesso all’uso della forza illegale. I commissari furono designati, tenendo conto dell’arma di appartenenza e del grado ricoperto, a seconda dell’importanza dell’ufficio che avrebbero occupato. Il commissariamento, teoricamente sarebbe dovuto servire a “normalizzare” l’amministrazione dell’ente commissariato, quindi per un tempo limitato, nella prassi si protrasse per anni. Soprattutto l’intervento nelle associazioni politiche, nei sindacati etc. – palesando la funzione tutt’altro che neutra di questo strumento – offrì ai militari informazioni utili per completare la raccolta di informazioni necessaria per proseguire col progetto repressivo.57

È questo un punto fondamentale dell’azione repressiva: uno dei primi obiettivi era quello di studiare il personale amministrativo che i commissari avrebbero diretto, cercando dei sistemi per ottenere le informazioni e l’obbedienza necessari. Il problema non si pose laddove l’intervento militare occupava amministrazioni ed enti pubblici. Questi, a prescindere dell’ideologia politica dei singoli membri delle amministrazioni, erano fedeli al governo.58 Un governo che seppur golpista era

legittimato dalla costituzione (Videla aveva regolarmente prestato giuramento al Congresso) e per questa ragione la fedeltà dell’apparato amministrativo era un dato di fatto.

Analoga situazione si verificava nel caso del commissariamento delle imprese o delle fabbriche dello Stato, ove, data la convergenza di vedute e di interessi fra militari e imprenditori il subentrare di un colonnello alla guida della fabbrica risultava coerente alle linee politiche e amministrative delle imprese. Questa convergenza ha successivamente fatto parlare di «complicità imprenditoriale- militare» per definire quell’insieme di pratiche repressive o di restringimento delle libertà del lavoratore, il cui obiettivo ultimo era l’eliminazione della conflittualità in fabbrica, che aveva prodotto una parziale paralisi del sistema produttivo nei mesi precedenti al golpe, col fine di tornare a generare profitto.59

!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 57 Conadep, op. cit. pp. 32-35. 58 G. O’Donnel, op. cit.!!

59 Su quest’ultimo punto cfr: V. Basualdo, La complicidad… cit. e Horacio Verbitsky e Juan Pablo Bohoslavsky, Cuentas pendientes, los cómplices económicos de la dictadura, Siglo XXI, Buenos Aires, 2014.

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La sostanziale convergenza di interessi portò anche ad una marcata continuità delle politiche amministrative svolte dal dato ente commissariato. Il problema, o i problemi, sorsero invece dove l’intervento dei militari colpiva i partiti politici e soprattutto i sindacati.

In premessa va ricordato che il sindacato in Argentina seguendo principi vagamente corporativisti si divideva in sindacati di mestiere e di categoria, sindacati poi coordinati da un’entità di terzo grado che era la Confederazione generale. I diversi sindacati di categoria erano coordinati da un unico ente: la Confederación General del Trabajo – CGT. Storicamente la CGT, nata negli anni Trenta, ma poi solo col peronismo organizzata capillarmente su base nazionale, sperimentò durante tutto il peronismo classico un forte grado di vicinanza col governo. Negli anni Settanta si produsse una spaccatura fra i settori più rivendicativi del sindacato, spesso presenti nelle commissioni interne, e quelli più propensi al dialogo coi governi autoritari.60

Dopo la morte di Perón la CGT mantenne ben saldo il suo vincolo politico con la presidente Isabel, nonostante la crescente sfiducia nelle reali capacità del governo di poter riprendere in mano l’iniziativa. Il 23 marzo ’76, a poche ore dal golpe, la direzione della CGT dirama un comunicato stampa emblematico:

Non è ancora detta l’ultima parola, il movimento operaio organizzato ha chiamato all’unità nazionale. […] I lavoratori continueranno a dare segno della loro maturità politica apportando la loro capacità di dialogo per evitare danni maggiori alla patria. […] Molte volte il sindacato è stato costretto a denunciare l’apolide guerriglia e la destra reazionaria […] Nessuno ignora che il popolo argentino desidera fortemente di vivere e lavorare in pace e libertà. Ma nessun golpe di Stato potrà offrirgli queste cose. […] Il movimento operaio sente un profondo rispetto per le Forze armate. Perché non ignora che le sue fila si nutrono dei nostri figli. Il movimento operaio ha sentito come proprie le ferite che la guerriglia assassina ha inflitto ai suoi soldati. E conoscendo i suoi valori patriottici che l’animano. [sarà] la morale che impedirà [all’Esercito] di attentare contro la volontà sovrana di tutto il popolo argentino.61

Il testo restituisce non solo la visione del tutto peculiare della stretta affinità fra movimento operaio organizzato e progetto nazionale, ma anche un rispetto, non solo formale, per le Forze armate. Se per un verso si cerca di scongiurare il golpe attraverso lo strumento retorico dell’esaltazione dello spirito patriottico dei militari, dall’altro si ricorda il sacrificio e lo sforzo delle forze armate per garantire l’unità nazionale contro la guerriglia. La stessa costruzione linguistica della dichiarazione ricalca in certa misura il gergo e la visione ideologica dei militari argentini. Una visione in cui la guerriglia è dissolvente e apolide, i terroristi sono delinquenti etc. In certa misura questo comunicato lascia intravedere quelle che saranno anche le relazioni fra sindacato e Stato durante la dittatura. Un rapporto complesso, fatto di frizioni e di comuni visioni in molti casi consentirà ai vertici del sindacato di Stato di mantenere le proprie posizioni e si tradurrà invece nella persecuzione degli operai e dei delegati interni spesso indicati all’interventor dagli stessi sindacalisti “burocratici”.62

Non tutto il sindacalismo di Stato sarebbe stato disposto ad accettare una “collaborazione”63 col

governo militare, ma alcuni settori della CGT più inclini al dialogo fin dai tempi della “resistenza !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!

60 Juan Carlos Torre, Ensayo sobre Movimiento obrero y Peronismo, Siglo XI, Buenos Aires, 2012, e da: Torcuato di Tella, Le forze popolari nella politica argentina, EDIESSE, Roma, 2012.

61 Archivo del Sindicalismo Argentino, Universidad Torcuato di Tella (d’ora in poi ASA), b. 22, Comunicado de las 62 organizaciones, 23-3-1976, pp. 1-8.

62 La vicenda continua a polarizzare una discussione molto forte. Ad ogni modo sono registrate diverse denunce di

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peronista”. La dichiarazione sindacale che rimarcava il sentimento nazionale della Confederazione argentina era parte dell’eredità lasciata al sindacato dal peronismo degli anni Cinquanta: un forte sentimento patriottico cui conseguiva l’ammirazione per le Forze armate. Al contempo, come ha fatto notare Daniel James, la generazione di sindacalisti operanti durante l’ultima dittatura aveva sviluppato le proprie attività dal ’55 in avanti più sotto commissariamenti e governi militari che in una situazione di libertà sindacale. Ne derivava quindi la necessità di mantenere un dialogo coi militari di turno dettata talvolta dall’interesse politico oppure dalla realpolitik.64

La Giunta militare per poter completare il proprio programma di assoggettamento del mondo del lavoro alle proprie logiche e alle proprie necessità, sapeva bene che il sindacalismo sarebbe stato un tassello fondamentale nel progetto di riconfigurazione e riorganizzazione dello Stato. Questo appare chiaramente nella discussione interna alla Giunta militare sul futuro assetto dello Stato e su che tipo di dirigenti scegliere per la “normalizzazione” dei sindacati.

La dirigenza sindacale va rinnovata, con dirigenti [che siano solo] sindacalisti, preoccupati dei problemi del lavoro e dei rappresentati […] I vecchi dirigenti, sarebbe desiderabile lasciassero le funzioni sindacali; tuttavia sarà difficile che vi si riesca totalmente, e in questo senso sarebbe consigliabile che quelli che restino siano coloro i quali appoggino il PRN. Non dovranno svolgere attività politica, e dovranno occuparsi unicamente degli interessi di settore. […] Non saranno accettati quei dirigenti che siano stati direttamente o indirettamente collegati ad attività sovversive o con organizzazioni disgreganti.65

In altre parole, riorganizzare il sindacato lasciando solamente i sindacalisti apertamente favorevoli alla dittatura. In questo contesto, precisati gli obiettivi principali da ottenere, i commissari militari occuparono la CGT di Buenos Aires (successivamente disciolta) e, in successione, quasi tutti i sindacati di categoria. Fino al 1981 l’Esercito attuò un controllo molto stretto sull’apparato sindacale, che rimodellò non solamente attraverso lo strumento della intervención, ma anche con una organica legge di organizzazione sindacale che rompeva con la tradizionale partecipazione e influenza che il sindacalismo aveva esercitato con crescente forza a partire dal primo governo di Perón.66

Subito dopo aver completato il proprio intervento nei sindacati fu istituito un tavolo permanente di dialogo fra la Giunta militare e i sindacalisti che si autodefinivano “dialogistas” ossia quelli più propensi, da sempre, a parlare coi governi. Nelle amministrazioni dei sindacati in breve tempo si aggiunse personale nuovo e in parte slegato da quelle che erano state le questioni rivendicative del !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 63 Ho affrontato il tema durante la stesura della tesi magistrale «Sólo el pueblo salvará al pueblo» sindacato e politica in Argentina

(Università Ca’ Foscari e Untref, 2012) frutto di un semestre di ricerca a Buenos Aires dal quale ho tratto l’articolo: Il

sindacalismo argentino fra peronismo e neoliberalismo. La Confederación General del Trabajo, la lotta sindacale e le relazioni con i governi, 1973-1983 in «Quaderni di Thule», n. XIII, 2014, pp. 639-647. In linea col lavoro coordinato da V. Basualdo in La clase trabajadora argentina en el siglo XX: experiencias de lucha y organización, Cara o Ceca, Buenos Aires, 2011. Un contributo sul

«ruolo del sindacalismo durante il processo repressivo» è offerto da V. Basualdo, Aportes para el análisis del papel de la cúpula

sindical en la represión de los trabajadores en la década de 1970, in H. Verbitsky e J. P. Bohoslavsky, op. cit. pp. 235-243. Anche il

lavoro di P. Pozzi, op. cit. sottolinea il tema del “colaboracionismo” sindacale-militare. Recentemente è tornata sul tema Luciana Zorzoli che nell’articolo Operativos Ginebra. La dirigencia sindical ante la instalación internacional de la dictadura militar, in «Revista Archivos de Historia del Movimiento Obrero y de la Izquerda» n.8, 2016, sottolineando la «contribución patriótica» apportata dal sindacalismo alla Giunta militare. !

64 Daniel James, Resistencia e integración, El peronismo y la clase trabajadora argentina, Siglo XXI, Buenos Aires, 2006 (1990), pp.

266-67.

65 Archivo del Ejército Argentino (d’ora in poi AEI), f. Actas de la Dictadura: documentos de la Junta Militar

encontrados en el Edificio Cóndor, Acta n. 176, p. 13, tomo 4 (p. 201).

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decennio precedente, sindacalisti “gialli”, pronti a collaborare e a porre un forte segno di discontinuità nel mondo del lavoro.

La “collaborazione” fra governo militare e sindacalismo burocratico si produsse su distinti livelli: in prima istanza attraverso il disinteresse da parte della burocracia per i problemi dei lavoratori, in secondo luogo comprimendo eventuali azioni rivendicative da parte della base sindacale che assumessero un qualche significato di opposizione o antagonismo alla Giunta militare. Il sindacato svolgeva un ruolo fondamentale nella quotidiana opera di controllo sulla vita in fabbrica, si legga ad esempio questa relazione periodica:

Dagli accertamenti svolti nelle fabbriche del nostro distretto, e nel mondo del lavoro in generale, non si è osservata la presenza di attivisti che possano realizzare azioni dirette contro la politica salariale ed economica in generale. Rispetto ai sindacati: UOM, UOCRA, AOT, Ferroviarios e SMATA, è possibile osservare che il loro agire dipende direttamente dalle centrali della Capital Federal, ossia qualsiasi direttiva è trasmessa dal sindacato nazionale.

Consultati diversi dirigenti sindacali, essi hanno assicurato di tenere sotto controllo i rispettivi sindacati, non permettendo l’azione di attivisti che possano generare un clima di discordia fra i propri affiliati.

L’azione sindacale obbedisce e dipende dai quadri direttivi a livello nazionale.67

Il passaggio di informazioni fra l’agente di polizia e il comando chiarisce alcune dinamiche fondamentali della “collaborazione” sperimentata fra sindacalisti e militari, dimostrando quanto apparati di sicurezza e organizzazioni sindacali comunichino e cooperino fra loro. È da subito chiarito che l’ordine pubblico e il mondo sindacale sovente comunicano fra loro.

Si assiste ad uno spostamento del carico delle responsabilità nel mantenimento dello status quo dal comando militare a quello sindacale. La comunicazione insiste proprio sul fatto che i dirigenti sindacali terranno a freno, attraverso una sorta di autodisciplina, gli attivisti al fine di non contrastare l’azione politica ed economica del governo.

Al contempo, emerge il ruolo centrale della convergenza tra il controllo dei sindacati attraverso il commissariamento e la collaborazione spontanea, d’opportunità o di contingenza, offerta dai dirigenti nazionali dei diversi gremios. In tal modo la struttura sindacale, svuotata dei quadri più radicali e integrata da un personale depoliticizzato, diviene parte del sistema istituzionale, quando non dell’apparato repressivo, organizzato per controllare e bloccare preventivamente le rivendicazioni dei lavoratori.

In questo contesto, nelle fabbriche, molto spesso isolate fisicamente dalla presenza militare e solo formalmente tutelate da una nuova generazione di sindacalisti collaborativi, la conflittualità doveva necessariamente trovare altre modalità di espressione.

Il quadro del nuovo contesto determinatosi nelle fabbriche all’indomani del golpe è ben esemplificato è dalle concrete modalità di attuazione dell’intervención in una grande fabbrica di Stato, ubicata nel nord del paese, nel Chaco: l’Industria Azucarera “Las Palmas”.

Possiamo osservare come le forme del commissariamento operino sempre su tre piani distinti: quello della formale legalità e funzionamento delle amministrazioni, quello clandestino connesso all’utilizzo della violenza, quello simbolico che si esercita attraverso determinati strumenti di diffusione delle informazioni.

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Il commissariamento dell’impresa avviene attraverso un comunicato apparentamene anonimo: «Si comunica al personale che oggi è stato scelto come interventor militar [nella fabbrica] il sig. Maggiore dell’Esercito Argentino don Athos Gustavo Renez». Mentre l’insediamento si consuma in una cerimonia scandita dall’inno nazionale e dall’alza bandiera.68

Dopo soli tre giorni, il nuovo commissario sospende la possibilità da parte del personale di acquistare prodotti a prezzi calmierati nel negozio dell’impresa. Così come al tempo stesso è ordinata l’immediata rimozione dell’immagine dell’ex presidente argentino dagli uffici. Si comincia a profilare la doppia caratteristica dell’azione militare; quella che incide sulla vita materiale (la chiusura del negozio) e su quella simbolica (l’eliminazione di una fotografia).

Non passano molti giorni che iniziano le restrizioni personali: aumentano i controlli alle porte della fabbrica, si limitano le uscite fuori orario di lavoro per ragioni di sicurezza, così come la possibilità di introdurre borse o zaini all’interno della fabbrica. Tutto questo fino allo spronare i propri operai a essere parte del processo di controllo e delazione:

Si sollecita la collaborazione di tutto il personale [dell’impresa] al fine di informare immediatamente della presenza di gruppi di sconosciuti o di persone in attività sospette in qualsiasi parte della [città]: (fabbrica, quartiere residenziale, fattorie, case dei contadini, canneti, montagne, coste del fiume, ponti, linee telefoniche, depositi di combustibile) o nelle sue vicinanze. [per combattere] il contrabbando.69

Da questo breve passaggio possiamo considerare due elementi: la fabbrica intervenida non è semplicemente il luogo dove la disciplina si dirama per necessità di tipo produttivo, ma data la doppia condizione di fabbrica allo stesso tempo amministrata da militari, essa diviene anche il luogo naturale di raccolta delle informazioni e di articolazioni di operazioni di intelligence contro qualsiasi forma di attività sovversiva. È in questo senso comprensibile come essa e i militari al suo interno comincino ad esercitare un controllo che pur senza essere quello violento e totalizzante dei campi di detenzione illegali è comunque pervasivo, capillare e generalizzato. Il potere di controllo non termina ai cancelli dello stabilimento ma si estende a macchia d’olio: dalle campagne attorno alla città fino alle stesse case degli operai. Emerge anche uno dei tipici aspetti che assumerà la quotidianità in fabbrica durante la dittatura: l’uso della delazione che trasforma i lavoratori stessi in parte del sistema repressivo, che ibrida e compenetra le differenze fra buoni e cattivi, fra complici e vittime. Questo si traduce con una indiretta legittimazione del sistema repressivo (vi si prende parte) e una interiorizzazione delle logiche interne della repressione.

Ottenuto il controllo dei sindacati, represse le opposizioni con la violenza, contratti gli spazi di agibilità nelle fabbriche attraverso gli strumenti amministrativi, un ultimo elemento conclude e certifica l’idea di un accerchiamento e di un’atomizzazione del mondo del lavoro sempre più ripiegato su se stesso: la legislazione a tutela dei lavoratori. Il 24 marzo la Giunta militare, durante tutta la dittatura unico organo che riunisce il potere esecutivo e quello legislativo, emana la legge 21.261 di Sicurezza industriale con la quale si sospende il diritto di sciopero «vista la drammatica situazione economica del paese [e la necessità di aumentare la produzione], tale obiettivo richiede la sospensione transitoria di quei diritti la cui applicazione possano compromettere la produzione […]

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68 Archivo General de la Nación, Departamento Intermedio, (d’ora in poi AGNDI) f. Industria Azucarera “Las Palmas”,

b. 120, Comunicación n.68/5, 1976.!

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la pace e l’ordine interno».70 La legge, che rimarrà in vigore fino alla fine della dittatura, cancella il

diritto di sciopero e proibisce qualsiasi azione rivendicativa da parte dei lavoratori. Chi contravviene alle disposizioni subisce una una sanzione economica e il licenziamento per decisione della direzione dell’impresa, senza indennizzi né liquidazioni.

Lo stesso giorno è promulgata la legge 21.263 con la quale è sospeso il foro sindacale. Con la 21.274, dello stesso 24 marzo, è introdotta la possibilità di licenziamento senza giusta causa del personale della pubblica amministrazione, delle imprese dello Stato e delle università. Con la 21.260 si autorizza il licenziamento del personale «sospettato di attività sovversiva». In pochi mesi si assiste all’epurazione dai ministeri, università e scuole del personale ritenuto simpatizzante dei sovversivi. Si attua una capillare rimozione dei quadri medi e dei vertici della pubblica amministrazione che sono

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