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Il nostro sguardo si sofferma adesso su un particolare luogo di lavoro, esemplificativo del complesso intreccio tra mondo del lavoro, militari e amor patrio: gli stabilimenti delle Fabricaciones Militares FM. FM è un complesso industriale statale, amministrato fin dalle sue origini (1941) dai militari. Un insieme di fabbriche in cui si producono carri armati, aeroplani, automobili e lambrette. Al contempo esso è un simbolo per la comunità di Córdoba: è la prima fabbrica latinoamericana dove negli anni Cinquanta, con la collaborazione di scienziati tedeschi scampati alla guerra, si produce il primo aereo a reazione di tutto il Cono Sur.10

Il mantenimento della disciplina è sempre stato affidato a dei militari (un generale di divisione è direttore della fabbrica) e il capo del personale proviene sempre dal mondo castrense. In un certo !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!

4 G. Maifreida, op. cit. p. 31.

5 Norbert Elias, La civiltà delle buone maniere, Il Mulino, Bologna, 2011 (1939). 6 Michel Foucault, Micofrisica del potere, Einadudi, Tornino, 1971, pp. 18-27.

7 Giovanna Procacci, Introduzione in: Edward P. Thompson, Tempo e disciplina del lavoro, Et al Edizioni, Varese, 2011, pp.

vi-xix.

8 Ibidem.

9 Ho avuto modo di presentare una relazione su questi temi dal titolo “Laburar y cumplir, el disciplinamiento industrial

durante la última dictadura militar argentina” al VI Congreso del Ceisal, Salamanca giugno 2016, nel panel dedicato a Golpes de Estado y represión en América Latina entre los años '60. Le questioni al centro di questo paragrafo sono state anche affrontate nel seminario Fabbrica, manicomio, campo, i dispositivi disciplinari nella contemporaneità, Università di Firenze del maggio ’16.

10 Sulla nascita dello stabilimento Cfr: Robert Potash, Las fuerzas armadas y la era de Perón, in (a cura di) Juan Carlos Torre, Nueva Historia Argentina, tomo VIII, Sudamericana, Buenos Aires, 2002, pp. 79-205.

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senso la presenza dei militari nei reparti ha qui un tono “familiare”, mentre nello stesso periodo essa esaspera e vessa la vita quotidiana delle altre fabbriche del paese.

L’analisi del regolamento di fabbrica dello stabilimento di Córdoba emanato nel 1979, ci consente di considerare una particolare realtà sociale e produttiva, quale una fabbrica di militari, e allo stesso tempo di scorgere le dinamiche più “intime” e connesse alla vita quotidiana. Siamo in presenza di una serie di disposizioni diramate in piena dittatura che illustrano uno degli intenti più peculiari del governo della Giunta: moralizzare la vita pubblica, e quindi il lavoro, attraverso l’imposizione di rigidi criteri di comportamento.

Si è osservato, per quanto concerne l’abbigliamento, per il portamento e le formalità riguardanti l’etichetta, l’assunzione di mode e modi che si sono andati allontanando dalle pratiche che devono caratterizzare un ufficio pubblico che in ragione del suo prestigio in tutti gli ambiti.

Puntualizzando, si osservano dimenticanze e devianze nell’abbigliamento personale, nell’uso dei capi, e nella pulizia e compostezza. Oltre a questo anche assembramenti estranei al lavoro in corridoi e uffici; deficienti pratiche di saluto etc. [...] a tale scopo si stabiliscono, a continuazione, norme delle quali si raccomanda la più stretta osservanza.11

È evidente l’importanza attribuita alle regole comportamentali, che oltrepassano decisamente i richiami alla disciplina del lavoro intesa come disciplina di comportamento standard all’interno della fabbrica. Anche ad una prima analisi testuale il tema della «devianza» emerge con tutta la sua carica di significato: ciò che non è conforme all’idea di ordine (o meglio all’idea di ordine presentata) della fabbrica diviene automaticamente un comportamento da mettere all’indice. Il tema della devianza, ben lontano dal ricorrere solo in questo testo, ripercorre tutta la produzione scritta della dittatura militare, egemonizzandone quindi il discorso pubblico, e lascia ben intendere, al di là della repressione di ogni pluralismo, quale sia il grado di accettazione delle differenze.

Una visione tanto radicale e poco incline ad accettare le varietà tipiche di una società liberale rimanda in certa misura almeno a quella che è stata definita una «visione olistica della società»,12

secondo la quale tutti gli organi del corpo sociale – ricorrente è la rappresentazione organicistica della società– non possono che convivere armonicamente e dunque gli elementi spuri o autonomi vanno liquidati o asportati in quanto costituiscono «corpi estranei, tumori».13 Questo punto è

ampiamente richiamato anche in un passaggio successivo del regolamento:

Si dovrà osservare correttezza, moderazione e purezza nel complesso dell’aspetto dell’agente, tanto nella sua persona come nel suo abbigliamento [...]

Gli obblighi cominciano con l’accesso allo stabilimento, [dove il] personale addetto alla vigilanza potrà ritardare l’ingresso o l’uscita del lavoratore e chiamare i suoi responsabili, che adotteranno le misure pertinenti, nel caso in cui trasgredisca evidentemente le regole di

sobrietà, pulizia, moderazione, modestia (eccessiva audacia nei modi, trasparenza).14

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11 AGNDI, f. “Fabricaciones Militares”, (d’ora in poi FM) Busta 54, Dispoción n.46 “Vestuario – Presentación –

Formalidad y Conductura”, 1979, pp. 46/1-7. I corsivi sono miei.

12 Sull’argomento ci si rifarà al lavoro di Loris Zanatta: La nazione cattolica, Chiesa e dittatura nell’Argentina di Bergoglio,

Laterza, Roma-Bari, 2014, e dello stesso autore Perón y el mito de la nación católica, EDUNTREF, Caseros, 2014.

13 Tali rappresentazioni e discorsi sono riscontrabili in molte pubblicazioni ufficiali e discorsi pubblici, ad esempio cfr:

Aa.Vv., Documentos basicos y bases políticas de las Fuerzas Armadas para el Proceso de Reorganización Nacional, Junta Militar, Buenos Aires, 1980.

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Il testo intreccia piani discorsivi e elementi simbolici fondamentali mentre il valore normativo delle regole intende incidere direttamente sul corpo dell’operaio prescrivendone la maniera di vestire e l’aspetto esteriore. Più in profondità però possiamo osservare come a queste prescrizioni seguano indicazioni sulla «sobrietà, pulizia, moderazione, modestia» a cui omologarsi diligentemente. Caratterizzate da un registro lessicale impregnato di un cattolicesimo bigotto e pruriginoso, queste indicazioni dimostrano quale sia il ruolo della morale, o meglio quale utilizzo se ne faccia, in funzione disciplinante. Tale richiamo alla morale cattolica non è sporadico o estemporaneo, in una nazione in cui dalla guerriglia marxista ai preti operai, fino ai militari golpisti, il richiamo al «cristianismo» è stato pressoché unanime e dove anzi ognuno ha creduto che il “proprio” Cristo fosse quello autentico. Il discorso cristiano dunque veicola potenti richiami politici e morali. Proprio la «moderazione» e la «purezza» così evocate rimandano esplicitamente a catechismi e compendi di vita cristiana, che sono sempre dispositivi normativi tutt’altro che neutrali. Il cattolicesimo diviene uno degli elementi imprescindibili in quella visione olistica della società, che, affondando le proprie origini in una visione premoderna e contrattualista della società, non può accettare né il pluralismo politico né tantomeno quello religioso.15

Il tema della moralità e l’assunzione di costumi degni e sobri da parte degli operai non compare certamente per la prima volta in Argentina. Già Gramsci in Americanismo e fordismo aveva studiato il processo di moralizzazione della classe operaia da parte del sistema di organizzazione del lavoro fordista. Probabilmente però quello cui assistiamo nel caso di studio ha a che vedere con l’interazione fra un fordismo maturo e importato, un complesso di regole morali e produttive propriamente occidentale che s’incontra con una visione della società, dell’uomo e dei suoi costumi pre-moderna, che dunque si richiama al principio di unitarietà proprio delle società latinoamericane dei tempi dei viceré. L’incontro fra antico e moderno, fra fordismo e cristianismo è l’humus nel quale si genera il peculiare regolamento di fabbrica di FM.16

A completamento di queste riflessioni si integra un altro tema ricorrente nel testo, quello della pulizia. Menzionato più volte nel testo del regolamento, aproposito in contesti differenti (relativamente all’aspetto dell’operaio, oppure alla moralità e compostezza), nella pratica trascende il proprio significato, sforando in un ambito simbolico. Lo spazio simbolico è quello dell’ordine. Di fatti, come in antropologia, a partire da Mary Douglas, è stato sostenuto, il tema della pulizia e dell’igiene, si mutua, si scambia e spesso si ibrida e quindi si uniforma a quello dell’ordine.17 La

rivendicazione della pulizia e dell’igiene non riguarda solo, e forse primariamente, l’ambito materiale a cui ci si riferisce, quanto uno spazio ideale. In altre parole, se in senso immediato la pulizia porta con sé il concetto di rimozione (della polvere, o della sporcizia), in questa accezione essa, piuttosto che sottrarre, aggiunge qualcosa. In un contesto dominato dalla fobia del disordine e della sporcizia, dove la mancanza di pulizia indica l’ingresso nel regno del disordine e della sovversione, affermare la necessità della pulizia significa invocare la necessità di ritorno all’ordine di una società “fuori controllo”. Nell’Argentina degli anni Settanta, però, non vi sono solamente le culture più tradizionali a determinare la maniera di vivere in fabbrica, quanto si realizza una singolare convergenza fra una visione moralistico-cristiana dell’idea di pulito, che lascia sottendere come tutti gli spazi pubblici debbano essere “purificati” dopo anni di decadimento morale, e una disciplina fordista che intende !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!

15 Cfr: Loris Zanatta, Il populismo, Carocci, Roma, 2013, pp. 45-62.

16 Antonio Gramsci, Americanismo e fordismo, Quaderno 22, Einaudi, Tornino, 1978. Per un inquadramento del

disciplinamento in Gramsci si faccia invece riferimento a: Massimiliano Biscuso, Rileggere Americanismo e fordismo oggi, in «Giornale di filosofia», dicembre 2007, pp. 1-8. !

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razionalizzare i fattori della produzione. Ne risulta un progetto e un dispositivo repressivo che assomma morale cristiana, fordismo, autoritarismo, e che considera l’ordine non tanto come stato compiuto (declinato in diverse accezioni, da quello politico a quello morale) quanto come un imperativo cui omologarsi, qualcosa verso cui tendere. Il regolamento di fabbrica come progetto politico-sociale da realizzarsi.18

L’oscillare del discorso tra un piano meramente moralistico e uno più propriamente autoritario è ben evidenziato da un passaggio successivo del testo:

Formalità nel portamento

Fuori dall’orario del pranzo o di riposo, nei corridoi e luoghi comuni non si devono formare assembramenti tantomeno per colloqui, quelli che si considereranno estranei ai temi del lavoro saranno puniti.

I contatti personali in orario di lavoro si svolgeranno nei luoghi di lavoro e si riferiranno a tematiche proprie dei compiti del lavoro.

Si raccomanda di non fumare nei corridoi o nei luoghi di uso comune. Si proibisce di tentare di fumare in ufficio o in spazi che siano luoghi di lavoro.19

Evidentemente, nel rapido volgere da un capoverso all’altro il tema forte è divenuto propriamente quello della coercizione: il regolamento indica cosa evitare, però senza ricorrere a strategie narrative ispirate da culture politiche o religiose, quanto più pragmaticamente al funzionalismo industriale e fordista. Al contempo si può supporre dalla lettura di questo paragrafo, oltre alle culture alla base della rappresentazione dell’ordine da parte dell’impresa, quali fossero le pratiche più diffuse all’interno degli stabilimenti industriali. Fumare nei bagni, formare rapidamente gruppi informali nei corridoi per commentare la situazione lavorativa ed anche quella politica, tutte pratiche che, come si è richiamato sopra, sempre invise all’impresa, rappresentano forme di «resistenza», individuale, frammentaria e molto spesso senza una chiara ispirazione o una finalità politica nei confronti dell’opprimente e onnisciente potere disciplinante dell’impresa.20 Pratiche per dirla con James C.

Scott: «infrapolitiche – ossia invisibili osservando i canali ufficiali di trasmissione delle informazioni come i mezzi di comunicazione– che costituiscono una lotta circospetta condotta giorno per giorno dai gruppi subalterni».21

Proseguendo nella lettura del regolamento di fabbrica, pagina per pagina cogliamo il dispiegarsi in tutti i suoi aspetti politici e culturali del tema del disciplinamento. Come altrove, anche nelle sue pagine si afferma - quasi come un leit motiv – il tema forse cardine dell’intero apparato normativo: la gerarchia.

L’organizzazione gerarchica della produzione, oltre ad essere uno degli elementi fondamentali dell’organizzazione “scientifica” del lavoro, rappresenta nel caso della società argentina un vero e proprio dogma. La perdita dei valori, ma soprattutto della disciplina e quindi del rispetto della gerarchia è una litania ricorrente in quasi tutti i discorsi pubblici. Così, nuovamente, il piano strettamente aziendale, quello delle necessità produttive, si interseca con quello simbolico e politico: !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!

18 Michael Perrot, Le tre età della disciplina industriale nella Francia del XIX secolo, in «Quaderni di rassegna sindacale», n. 80,

1979, pp. 19-44.

19 AGN, f. “FM”, b. 54, disp. 46, 1979, pp. 46/1-7.

20 Si faccia riferimento agli studi di Tim Mason sulla classe operaia tedesca durante il nazismo: cfr. Tim Mason, Social policy in the Third Reich. The working class and the ‘National community’, New York, Berg, 1993.

21 James C. Scott, Il dominio e l’arte della resistenza, i «verbali segreti» dietro la storia ufficiale, Elèuthera, Milano, 2006, pp. 243-

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«Il saluto ai superiori è considerato anche un atto proprio delle formalità del lavoro e per tanto obbligatorio [...] Tutti i Capi valuteranno e responsabilizzeranno alla corretta pubblicizzazione e osservanza di queste direttive».22

L’intreccio è chiarito dalle parole stesse del regolamento che se riconoscono (implicitamente) lo statuto del saluto ai superiori come una pratica extra-lavorativa, dall’altro lo allacciano a una disciplina di comportamento assolutamente necessaria. Anche in questo caso, seguendo la traccia “in negativo” del dispositivo disciplinare è ipotizzabile che un saluto a denti stretti o la sua elusione fossero pratiche di vita quotidiana diffuse, ma intollerabili da parte di una conduzione dell’impresa che, nonostante la cancellazione de facto di qualsiasi diritto lavorativo, osservava con preoccupazione simili segni di “indisciplina”. Allo stesso tempo l’utilizzo dell’imperativo «valutare e responsabilizzare» lascia apertamente intendere che il ruolo dell’impresa non era solo quello di far rispettare delle regole, di imporre dei tempi di produzione, di determinare la vita degli operai in fabbrica, quanto anche di educare, attraverso una sorveglianza ininterrotta, i comportamenti dei singoli: sorvegliare e punire per l’appunto, ma anche educare. «Si avverte che per uscire dalla fabbrica, gli operai che timbrano il cartellino o firmano dovranno presentarsi al reparto di sicurezza “Jefatura de guardia”».23

Il controllo continuo, l’osservazione, il potere pervasivo e pedagogico dell’azione repressiva del regolamento propone un’altra questione centrale nel management di un’impresa, specie in un contesto autoritario: il paternalismo industriale.24 Che la disciplina del lavoro, con le sue indiscusse

implicazioni sociali e psicologiche porti ad una trasformazione dell’io di chi vi sia sottoposto, o a modificazioni delle forme di organizzazione collettiva del tempo libero è indubbio. Meccanismo tipico del paternalismo è la tendenza a far sì che l’operaio per una serie di ragioni – in questo caso per l’indiscusso «prestigio» – si identifichi sempre più nell’impresa per la quale lavora. Il lavoro, in questo modo, muta ulteriormente statuto divenendo parte del processo di autocostruzione dell’identità del lavoratore.25 È noto come queste pratiche, coniugate con un sapiente utilizzo di

punizioni e premi e suggellate dall’istituzionalizzazione dei rapporti interpersonali che si sperimenta nella «famiglia tradizionale», concorre a reiterare l’esercizio costante del potere imprenditoriale sul lavoratore e quindi sul suo nucleo familiare.26 Al contempo il paternalismo, conciliando un salario

considerato soddisfacente con un controllo pervasivo della vita dell’operaio intende indurre quest’ultimo a introiettare il punto di vista della direzione dell’impresa. Eloquente è la parte finale del regolamento di fabbrica che stiamo analizzando:

14: inciso b) “Osservare in tutte le circostanze anche fuori dall’orario del lavoro, una condotta

impeccabile, comportandosi in maniera rispettosa e cortese verso i superiori, i colleghi e i

subordinati, così come nelle relazioni con il pubblico”.27 !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!

22 AGN, f. “FM”, b. 54, disp. 46, 1979, pp. 46/1-7. 23 Ivi.

24 Per una definizione di paternalismo industriale cfr: Elisabetta Benenati, La scelta del Paternalismo, un’azienda dell’abbigliamento fra fascismo e anni ’50, Rosenberg & Sellier, Torino, 1994. Al contempo si veda: Lorenzo Bertuccelli, Paternalismo, appartenenza aziendale e culture operaie nell’Italia repubblicana, in «Passato e Presente», n.42, 1997, pp. 65-84. Dello

stesso autore: Il paternalismo aziendale: una discussione storiografica, Modena, Università degli Studi di Modena, Dipartimento di economia e politica, 1999.

25 G. Maifreda, op. cit. p. 274.

26 Sul ruolo della famiglia nella “nuova” società di massa si legga il fondamentale: Friedrich Engels, L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello stato, a cura di Evelyn Reed, Savelli, Roma, 1975 e: Heinz-Gerhard Haupt, La legislazione per il riposo domenicale in Francia prima del 1914: uno strumento di controllo sociale?, in «Annali della Fondazione Lelio e Lisli Basso –

Issoco», vol. VI, a cura di Mariuccia Salvati, 1983, pp. 321-332.

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L’inciso 14 esprime in maniera chiara le questioni ancora presenti sul tavolo: dal compenetrarsi dei ruoli fra fabbrica, caserma e casa, all’esercizio continuo del potere, per terminare col tema, appena accennato, del paternalismo industriale. Ma la concezione secondo cui le regole emanate dalla direzione d’impresa non valgano solo durante il lavoro, ma anzi debbano determinare anche la vita fuori dalla fabbrica, esplicita compiutamente quale si ritiene debba essere la pervasività della disciplina industriale. Allo stesso tempo emerge il ruolo che l’impresa – almeno questa impresa – si attribuisce: non solo controllare i propri operai, ma, nel vero senso della parola, oppressi financo entrando nella sfera del tempo libero. Se a tutto questo si somma la presenza di un governo autoritario comprendiamo chiaramente quale fosse il grado di pregnanza e di intrusione delle pressioni imprenditoriali esercitate nei confronti di operai sempre più atomizzati.

La tendenza del paternalismo d’impresa a prescrivere determinati comportamenti richiama la questione della effettiva capacità del regolamento di influire sui comportamenti e la moralità operaia. A questo proposito, pur con tutti i distinguo necessari, è possibile paragonare il regolamento di fabbrica a un galateo, nella misura cui quest’ultimo intende esercitare una funzione normalizzante dei comportamenti, che nel contesto del mondo industriale non è per nulla un elemento secondario. Questa funzione del regolamento è avvalorata, tra l’altro, dalle modalità con cui è diffuso: ad alta voce attraverso il tono ufficiale e metallico degli altoparlanti installati nella sala mensa e nei reparti e, essendo la versione di cui disponiamo una circolare, possiamo ipotizzare il “rito” della lettura pubblica.

Ma quella funzione è pure avvalorata, ad esempio, dall’attenzione riservata all’abbigliamento, che dei temi trattati finora offre una sintesi importante.

Il lavoratore cui corrisponda l’obbligo di indossare la tuta o altro tipo di protezione da lavoro, dovrà indossare questi indumenti. Il resto del personale vestirà con la giacca, la cravatta e il resto dell’abbigliamento. [...] Dentro gli uffici [gli impiegati] potranno indossare la giacca, tenendo sempre la cravatta. Si autorizza a indossare la camicia a manica corta [senza mai mostrare] le bretelle o il gilet. L’uomo dovrà avere i capelli di una misura

moderata e sempre correttamente pettinati.28

Si noti anzitutto come, anziché alle questioni produttive, o altrimenti alle questioni più profonde collegate alla moralità e alla vita privata degli operai, prevalgano nettamente le prescrizioni attinenti l’aspetto esteriore. L’importanza del modo di vestire trascende il mero piano formale e investe invece uno degli ambiti fondamentali della “contestazione” operaia dell’epoca: quello dell’abbigliamento. Per molto tempo infatti proprio il rifiuto dell’uniforme da lavoro era stata una battaglia condotta in fabbrica. La lunghezza dei capelli era anche un altro tipico terreno di scontro generazionale: è interessante sottolineare, anche sul piano strettamente semantico, come essi, coerentemente con il sistema discorsivo del regolamento, non dovessero essere corti, bensì «di misura moderata», anche in questo caso evocando un criterio dalla vaga impronta morale (la moderazione) in un contesto del tutto differente.

Ma la preoccupazione – in una società in via di “modernizzazione” ove settori conservatori della Chiesa e dello Stato reagiscono alla progressiva emancipazione delle donne reiterando immagini stereotipate di madri, educatrici, casalinghe – è forte soprattutto riguardo alla presenza femminile in !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!

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fabbrica, e soprattutto negli uffici. Così, liquidata la questione dell’abbigliamento maschile in poche righe, ampia attenzione è dedicata invece a quello femminile.

Le lavoratrici cui corrisponda l’obbligo di indossare il grembiule, l’uniforme o altro tipo di vestiario da lavoro, lo faranno col relativo abbigliamento. Il grembiule si utilizzerà

convenientemente pulito, lungo fino a metà ginocchio, naturalmente largo [in modo da non

mostrare i fianchi] e debitamente abbottonato.29

È la sintesi di quanto già notato. Nel grembiule della donna si condensa un insieme di differenti significati: la pulizia, l’ordine, la purezza e quindi anche la castità. Non solo le indicazioni sull’abbottonatura e sulla lunghezza della gonna lasciano intendere come fossero percepite le donne in fabbrica, alla stregua di un “demone tentatore” e perturbatore della quiete necessaria ad assicurare i ritmi di produzione. La donna è considerata una pericolosa fonte di distrazione, da controllare, monitorare e coprire con lunghi grembiuli «Negli spostamenti verso la mensa e dentro tutta

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