• Non ci sono risultati.

4. DALLA GIUSTIZIA RETRIBUTIVA ALLA RISOCIALIZZAZIONE: LA

4.2. Attività Rieducativa

La riforma penitenziaria, avviata dalla Legge n. 354 (Ordinamento Penitenziario) del 26 luglio 1975 ha voluto dare attuazione ai principi costituzionali in materia di esecuzione delle pene detentive e, in particolare, al dettato dell’art.27 comma 3 della Costituzione:

1. la responsabilità penale è personale;

2. l’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva;

3. le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato (funzione risocializzante della pena);

4. non è ammessa la pena di morte.

L’art.27 della Costituzione, nel suo comma 3, stabilisce perciò che le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato, affidando all’Amministrazione Penitenziaria il mandato istituzionale “di promuovere e realizzare interventi finalizzati al reinserimento sociale” (art.1, ordinamento penitenziario) dei cittadini detenuti e degli internati e ad avviare “un processo di modificazione delle condizioni e degli atteggiamenti personali, nonché delle relazioni familiari e sociali che sono di ostacolo ad una costruttiva partecipazione sociale” (art.1 comma 2, regolamento di esecuzione, D.P.R.30 Giugno 2000 n. 230). Significativo, all’interno di questo articolo, è l’utilizzo del termine “tendere”: esso non significa realizzare necessariamente ma fare il possibile per realizzare la rieducazione stessa. Per il rispetto della libertà morale e della dignità dell’uomo, il procedimento di risocializzazione non può essere imposto ma soltanto favorito: la pena tende, non costringe alla rieducazione93.

“Se le pene avessero dovuto avere un contenuto essenzialmente ed esclusivamente rieducativo; se, insomma, le pene non avessero dovuto avere carattere (...) punitivo, il divieto di trattamenti contrari al senso di umanità non avrebbe avuto ragione di essere, perché una funzione che sia essenzialmente rieducativa esclude da sé, per la sua stessa

natura, i trattamenti contrari al senso di umanità, senza bisogno di alcuna

dichiarazione esplicita”.

(Petrocelli Biagio e Bettiol Giuseppe) Scopo, quindi, delle offerte trattamentali presenti all’interno degli Istituti Penitenziali è la rieducazione dei soggetti, sottoposti ad esecuzione penale, ossia l’acquisizione della capacità di vivere nell’ambiente sociale, che mira all’inserimento nella società di individui, che presentano devianza sociale. Questo mediante un insieme di attività che rispondano ai bisogni degli individui e ne valorizzino le potenzialità utili al loro reinserimento.

Il complesso di attività, misure ed interventi che concorrono a conseguire l’obiettivo della risocializzazione della persona detenuta prende il nome di trattamento rieducativo. La piena concretizzazione del principio rieducativo si realizza perciò completamente con la riforma dell’Ordinamento Penitenziario introdotta con la Legge 354/75 che, nell’art. 1, recita “nei confronti dei condannati e degli internati deve essere effettuato un trattamento rieducativo che tenda anche, attraverso i contatti con l’ambiente esterno, al reinserimento sociale degli stessi”. Diversamente, prima della riforma, per trattamento si intendeva un insieme di regole a cui i detenuti dovevano adeguare il proprio comportamento; ad essi venivano soddisfatti semplicemente i bisogni di mantenimento e di cura: vitto, vestiario e servizio sanitario.

Enfatizzando la funzione rieducativa della pena nella fase di esecuzione della stessa, il Carcere non è più inteso come luogo di segregazione e separazione dalla società, ma come momento necessario per la rieducazione e il reinserimento del detenuto.

Ciò che caratterizza il trattamento rieducativo, che, come abbiamo visto, costituisce uno dei cardini della riforma, è la sua individualizzazione: l’operatore penitenziario deve tendere alla rieducazione, elaborando e programmando ogni intervento, secondo criteri che tengono conto della personalità dei singoli soggetti, delle loro potenzialità, di quelle carenze fisio-psichiche e di “quelle altre cause del disadattamento”, che hanno causato il comportamento criminoso, cosi come recita il secondo comma dell’art.13 dell’Ordinamento Penitenziario.

L’art.15 dell’Ordinamento Penitenziario considera quali elementi rieducativi del trattamento il lavoro, l’istruzione, le attività culturali, ricreative e sportive, i contatti con

il mondo esterno e i rapporti con la famiglia. I permessi e le licenze, anche se non sono oggetto del trattamento individualizzato fanno parte del trattamento e la loro concessione è subordinata ai progressi conseguiti dal detenuto. In tal modo, emerge una tendenziale identificazione del concetto di rieducazione con quello di recupero del condannato. A tal proposito, l’art.80 della Legge 354 del 1975 ha previsto che “per lo svolgimento delle attività di osservazione e trattamento, l’amministrazione penitenziaria può avvalersi di professionisti esperti in psicologia, servizio sociale, pedagogia, psichiatria e criminologia clinica”. L’osservazione scientifica della personalità, cui viene attribuito carattere di scientificità nel 1954 durante un Congresso ad Anversa, viene perciò effettuata da un gruppo di osservazione o equipe composta dal Direttore, dall’educatore, dall’assistente sociale e da altri esperti, che hanno il compito di compilare un programma di trattamento. L’osservazione ha inizio con l’ingresso in Carcere dell’individuo e si conclude con la conclusione dell’esecuzione penale.

Altro compito dell’operatore penitenziario è il realizzarsi di tre obiettivi particolari:

evitare che la pena possa avere effetti desocializzanti o criminogeni;

recuperare i valori sociali mortificati con la commissione del reato;

ricondurre il modo di porsi nella società a canoni che regolano la civile convivenza.

L’art.15 dell’Ordinamento Penitenziario individua l’istruzione, il lavoro, la religione, le attività ricreative, culturali e sportive, i contatti con il mondo esterno e i rapporti con la famiglia come gli elementi del trattamento, cioè quegli strumenti attraverso i quali articolare lo stesso. Anche i permessi e le licenze fanno parte del trattamento e la loro concessione è vincolata dai progressi conseguiti dalla persona detenuta.

Negli istituti devono essere perciò favorite e organizzate attività culturali, sportive e ricreative e ogni altra attività volta alla realizzazione della personalità dei detenuti e degli internati, anche nel quadro del trattamento rieducativo.

Una commissione composta dal Direttore dell’Istituto, dagli educatori e dagli assistenti sociali e dai rappresentanti dei detenuti e degli internati cura l’organizzazione delle attività, anche mantenendo contatti con il mondo esterno utili al reinserimento sociale. Il legislatore prevede quindi che negli Istituti si svolga quell’insieme di attività che

possono risultare utili allo sviluppo, all’evoluzione, alla crescita della personalità dei detenuti.

Gli interventi attinenti a queste materie si ritengono fondamentali per favorire nei condannati la crescita di una consapevolezza critica delle condotte antigiuridiche poste in essere nonché una volontà di cambiamento.

Quindi, il Carcere non è più inteso come luogo di segregazione o/e separazione dalla società, ma come un momento fondamentale per la risocializzazione ed il reinserimento nella società del detenuto.

Con la legge di riforma 354/75 si è arrivati ad una svolta ideologica riguardo al modo di intendere il detenuto e la sua posizione nell’universo carcerario: lo si pone come persona umana al centro dell’esecuzione penale.

La pena è la principale conseguenza giuridica del reato e la sua funzione è finalizzata ad impedire che l’autore del reato ne commetta altri.

Importante è comprendere che la pena non è solamente una punizione ma è da considerare come uno strumento con cui la persona detenuta può recuperare quei valori di legalità e solidarietà che caratterizzano tutta la nostra Costituzione e al realizzare i quali lo stato non può e non deve sottrarsi.